Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 marzo 2021, n. 9824

Sicurezza sul lavoro, Imprudenza, negligenza, imperizia,
Omessa valutazione dei rischi derivanti dai danni da calore, Morte del
dipendente, Responsabilità

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 25 marzo 2019 la Corte d’appello
di Lecce ha parzialmente riformato, riducendo la pena inflitta, la sentenza del
Tribunale di Brindisi, resa in sede di giudizio abbreviato, con cui F.F. è
stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art.
589, commi 1^ e 2^, per avere, nella sua qualità di legale rappresentante
della F. s.r.I., cagionato la morte del dipendente V.C., operaio edile, con
colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e violazione degli artt. 17, 28 e 29 d.lgs. 81/2008,
omettendo di valutare i rischi derivanti dai danni da calore, inerenti alle
attività svolte in ambiente aperto in periodo estivo, in condizioni climatiche
avverse determinate da alte temperature, non impedendo al lavoratore di
prestare attività, né di assumere bevande alcoliche, pur nella consapevolezza
dell’abitudine da parte del medesimo di bere 1/4 di litro di vino al giorno,
come risultante dalla visita medico periodica antecedente, trascurando di
verificare l’uso di dispositivi individuali ed in particolare il copricapo
protettivo per la protezione contro la calura estiva, così ponendo in essere
gli antecedenti causali della morte del medesimo per collasso delle funzioni
cardiorespiratorie, derivante da colpo di calore, associato a vasodilatazione
indotta dalla significativa assunzione di alcool.

2. Il fatto per come accertato dalle sentenze di
primo e secondo grado può essere così riassunto: in data 4 luglio 2012
l’operaio edile V.C., veniva adibito, all’interno del cantiere della F. s.r.I.,
allo riempimento con delle pietre del cono centrale di un trullo in
ristrutturazione. Intorno alle ore 15,00 veniva lasciato solo in cantiere dal
datore di lavoro, che si allontanava per verificare l’andamento dei lavori in
altri cantieri. Ripetutamente contattato dal datore di lavoro, ad un’ora di
distanza, non rispondeva al telefono. A quel punto, F. decideva di raggiungerlo
in cantiere, ove lo trovava sul terrazzino del trullo in ginocchio che
rantolava e vomitava. In attesa dei soccorsi F. tentava di rianimare il
lavoratore, che aveva perso i sensi, non riuscendo nell’intento. Giunto sul
posto il personale sanitario tentava, a sua volta, inutilmente la rianimazione,
constatando il decesso di C. alle ore 17,07.

All’interno dell’auto del lavoratore venivano
rinvenute una bottiglia di vino, praticamente vuota, nonché tre piccole
bottiglie vuote, della capacità di I. 0,03 con l’etichetta Stock 84, una
bottiglietta della capacità di 1.0,1 di brandy ed un’altra della medesima
capacità di “Caffè sport Borghetti”.

3. La sentenza di primo grado aggiunge: che dagli
accertamenti successivi all’evento, svolti dallo S., è emerso che il documento
di valutazione dei rischi non comprendeva la valutazione del rischio di caduta
per i lavori svolti in quota superiore a due metri di altezza, né quello dei
possibili danni da calore, per le attività svolte all’aperto nel corso della
stagione estiva; che il lavoratore non era stato sottoposto a visita medica
periodica, il cui termine di rinnovo annuale era scaduto il 12 giugno 2012; che
nel verbale di consegna dei dispositivi di protezione individuale non erano
indicata la consegna di copricapo per i lavoratori che debbono permanere sotto
l’azione prolungata dei raggi di sole e che l’altezza complessiva del manufatto
ove operava C. era di m. 2,80;

che dall’esame autoptico affidato al consulente del
pubblico ministero è emersa la sussistenza di un quadro di intenso edema
cerebrale e polmonare, nonché edema del tessuto miocardico, i segni tipici di
una condizione cardiopatica, nonché quelli di steatosi epatica, oltre che la
presenza di fratture della VI costa di destra e della V costa di sinistra, e
del naso; che le indagini di natura tossicologica avevano evidenziato un tasso
alcolemico pari a g1/1,52; che le lesioni di natura contusiva non assumevano
rilevanza nel determinismo del decesso del lavoratore, essendo collegabili ad
una caduta dovuta al frastornamento determinato dall’assunzione di alcool, così
come prive di rilievo erano le fratture costali, verosimilmente prodotte dal
tentativo di rianimazione del medesimo; che la morte era stata provocata da
insufficienza cardiorespiratoria acuta da colpo di calore, in soggetto affetto
da miocardiosclerosi, in stato di intossicazione da alcool, la cui assunzione
aveva provocato la vasodilatazione sinergica al collasso. Ciò premesso la
sentenza, tenute in considerazione le modalità di causazione del sinistro
-esclusa la rilevanza della mancata considerazione nel DVR del rischio di
caduta dall’alto, in quanto del tutto ininfluente- individua le violazioni
ascrivibili al datore di lavoro incidenti sulla causazione del sinistro,
nell’avere consentito l’attività lavorativa in condizioni climatiche avverse
per le elevate temperature, nel non avere fornito adeguato copricapo al
lavoratore, nel non avere comunque vigilato affinché indossasse l’elmetto
fornitogli, nel non avere vigilato sull’assunzione di alcolici da parte del medesimo,
nel non avere curato che il lavoratore si sottoponesse tempestivamente alla
visita medica annuale, dalla quale avrebbe potuto emergere il suo stato di
etilista cronico.

4. La sentenza di secondo grado, confermando la
penale responsabilità di F.F., ha escluso la rilevanza causale del ritardo
nell’effettuazione della visita medica annuale, nonché dell’omesso controllo
del datore di lavoro sull’assunzione di alcolici, tenuto conto dell’interesse
del lavoratore ad occultarla, affermando che la condotta ascrivibile
all’imputato è consistita, da un lato, nel non avere programmato l’attività
lavorativa in modo da impedire ai dipendenti di permanere sul luogo di lavoro
nell’orario più caldo – comportamento questo rilevante sotto il profilo della
colpa generica- a prescindere dall’assenza di allerta meteo da parte della
Protezione civile, dall’altro, nel non vigilare sull’utilizzo da parte del
lavoratore di un adatto copricapo, utile ad attenuare gli effetti negativi
dell’esposizione ai raggi solari, così contravvenendo alla disposizione di cui
all’art. 111, comma 7 d.lgs.
81/2008, comportamento rilevante sotto il profilo della colpa specifica.

5. Avverso la sentenza della Corte di appello
propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore,
affidandolo ad un motivo, articolato in tre doglianze.

6. Con la prima fa valere, ex art. 606, primo comma, lett.re b) ed e) cod. proc.
pen. la violazione dell’art. 589 cod. pen.
ed il vizio di motivazione. Rileva che la Corte territoriale nell’addebitare
all’imputato il mancato approntamento di iniziative e mezzi idonei a garantire
l’esercizio dell’attività lavorativa senza rischi per la salute riconducibili
all’elevata temperatura estiva, ha omesso di verificare se il comportamento
giuridico diligente preteso dal datore di lavoro fosse idoneo a scongiurare
l’evento. Ricorda che il lavoratore era affetto da miocardiosclerosi ed in
stato di intossicazione alcolica e che aveva assunto un consistente
quantitativo di alcool (tasso alcolemico g/l. 1,52). Sostiene che per
verificare l’incidenza della condotta contestata sul prodursi dell’evento si
sarebbe dovuto accertare se l’esposizione alla temperatura di 34°,
indipendentemente dall’assunzione di un consistente quantitativo di alcool,
fosse condizione sufficiente ad indurre un colpo di calore. Sottolinea che le
condizioni meteorologiche, peraltro tipiche dell’estate in Puglia, non avevano
impedito agli altri lavoratori ed allo stesso F., socio-lavoratore, di prestare
l’ordinaria attività lavorativa, senza necessità di adottare alcuna particolare
regola di cautela.

7. Con la seconda lamenta la carenza di motivazione
in ordine all’affermazione di responsabilità per omessa vigilanza sull’utilizzo
di idoneo copricapo. Osserva che l’elmetto dato in dotazione al lavoratore fu
rinvenuto nell’autovettura di C., ma che ciò non autorizza a ritenere che il
lavoratore non ne avesse fatto uso durante lo svolgimento dell’attività
lavorativa, rendendo, invece, probabile che egli se ne fosse liberato
allorquando, in assenza di F., si recò nell’auto per bere gli alcolici che
conservava nello zaino.

Sostiene che l’uso del casco protettivo – rinvenuto
nell’auto – non avrebbe salvaguardato il lavoratore dal colpo di calore,
essendo questo una condizione patologica dell’organismo consistente
nell’incapacità di rispondere alle variazioni ambientali, non necessariamente
collegata con la prolungata esposizione ai raggi solari, ben potendo
verificarsi anche in ambiente chiuso. Nel caso di specie, solo il grave abuso
di bevande alcoliche -non imputabile al datore di lavoro- da parte di soggetto
affetto da malattia cardiaca, anch’essa ignota al datore di lavoro, aveva
indotto il collasso e l’insufficienza cardiorespiratoria, da cui era derivata
la morte.

8. Con la terza doglianza censura il vizio di
motivazione nella parte in cui addebita al datore di lavoro il profilo di colpa
generica consistito nel non avere organizzato la propria attività in modo da
limitare l’attività lavorativa alle ore mattutine e del tardo pomeriggio, per
evitare condizioni favorenti i colpi di calore. Sottolinea che la temperatura
alle ore 19 del 4 luglio 2012 era di 35° – com’è risultato in giudizio dal verbale
di rinvenimento del cadavere- cioè tutt’altro che inferiore a quella registrata
nel corso della giornata (34°), sicché nell’invariabilità delle condizioni
meteorologiche, pur se fosse stato posto in essere il ritenuto comportamento
doveroso consistente nell’organizzare l’attività lavorativa nel tardo
pomeriggio, l’evento si sarebbe egualmente verificato.

Assume che, dunque, neppure l’asserita condotta
doverosa omessa avrebbe scongiurato la morte della persona offesa. Conclude per
l’annullamento della sentenza impugnata.

9. Con memoria in data 27 novembre 2020 F.F., a
mezzo del suo difensore ha ribadito i motivi e le conclusioni già formulate.

10. Con requisitoria scritta, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. 137/2020
il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è fondato.

2. Le doglianze possono essere affrontate
unitariamente in quanto strettamente connesse.

3. Per dare soluzione alle questioni poste con il
ricorso deve, innanzitutto, muoversi dalla considerazione che fra i numerosi
profili di colpa originariamente addebitati con l’imputazione, sono residuate
solo due contestazioni. La prima inerisce alla mancata vigilanza sull’utilizzo
del copricapo da parte del lavoratore, essendo stato acclarato che al
lavoratore era stato fornito un casco protettivo – ritenuto dalla Corte
equiparabile ad un berretto in funzione di protezione dai raggi solari-
rinvenuto nell’automobile dell’operaio deceduto. La seconda riguarda l’omessa
organizzazione dell’attività lavorativa con modalità tali da evitare
l’esposizione dei lavoratori a condizioni meteorologiche tali da metterne in
pericolo la salute individuale.

4. Conviene, per ragioni di ordine logico, partire
da quest’ultima. La Corte territoriale, invero, delinea l’obbligo di
pianificare l’attività produttiva in modo coerente rispetto alle condizioni
meteorologiche sia quale adempimento di ordinarie regole di prudenza, che quale
adempimento degli obblighi previsti dall’art. 111, comma 7 d.lgs. 81/2008.
Siffatta disposizione, secondo cui “Il datore di lavoro effettua i lavori
temporanei in quota soltanto se le condizioni meteorologiche non mettono in
pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori” è inserita fra le
previsioni inerenti gli “Obblighi del datore di lavoro nell’uso di attrezzature
per lavori in quota”.

5. Va preliminarmente osservato che già con la
sentenza di primo grado si era esclusa la rilevanza del difetto nel D.V.R. di
previsione dei rischi in ordine alle attività lavorative svolte in quota, posto
che il lavoratore non è morto a causa di una caduta, bensì per l’insufficienza
cardiorespiratoria acuta da colpo di calore, in soggetto affetto da
miocardiosclerosi ed in stato di intossicazione da alcool.

Tanto è vero che la condotta ascritta dal giudice di
prime cure all’imputato riguarda, da un lato, l’omessa fornitura al medesimo
dell’elmetto, o comunque l’omesso controllo sul suo utilizzo, dall’altro, la
mancata vigilanza sull’assunzione di alcolici, non essendo sufficiente, ai
sensi dell’art. 8 comma 1 d.lgs.
81/2008 la mera formazione dei lavoratore sul punto, essendo egli etilista
cronico, circostanza da ritenersi nota al datore di lavoro, che peraltro aveva
omesso di curare la tempestività della visita annuale di idoneità al lavoro. Ed
infine, il non avere impedito che il lavoratore operasse nelle ore più calde
della giornata, senza dare le opportune direttive.

6. La Corte territoriale che, come si è detto,
ulteriormente limita le contestazioni escludendo la rilevanza del ritardo nella
sottoposizione alla visita annuale -in quanto non necessariamente la condizione
di etilismo avrebbe potuto essere rilevata dal medico- nonché la rilevanza
della mancata vigilanza sull’assunzione di alcolici, avendo il lavoratore
interesse a nasconderla, al fine di mantenere il rapporto di lavoro.

7. Ora, la lettura dell’art. 111 comma 7 d.lgs. 81/2008,
consente di escludere la sussistenza del ritenuto profilo di colpa specifica.

8. Illuminano il significato della disposizione sia
la sua collocazione fra gli obblighi relativi ai lavori in quota, che la sua
lettera. Invero, la previsione che condiziona l’attività del datore di lavoro
alle condizioni meteorologiche collega il dovere di limitare l’attività in modo
da non mettere in pericolo la sicurezza e la salute dei lavoratori in
condizioni di tempo avverse proprio all’opera prestata in quota. E ciò, perché
il lavoro svolto ad un’altezza superiore ai due metri da un piano stabile
espone maggiormente il lavoratore a situazioni quali il vento, la pioggia la
neve o la nebbia e comunque ad ogni circostanza meteorologicamente sfavorevole,
condizionando l’equilibrio e la stessa attenzione del lavoratore e favorisce il
verificarsi di condizioni di pericolo.

9. E’ chiaro, dunque, che una simile normativa non
riguarda le ipotesi in cui si operi su un piano stabile, posto che simili
condizioni meteorologiche non incidono sulla stabilità del lavoratore.

10. Esclusa, pertanto, la ricorrenza della colpa
specifica, per violazione dell’art.
111, comma 7 d.lgs. 81/2008, in quanto la persona offesa – come emerge
dalle sentenze di merito- si trovava sulla parte superiore di un trullo,
intenta a riempire il cono di un trullo con delle pietre, operando su un piano
stabile, va verificata la sussistenza di un’ipotesi di colpa generica.

11. Entrambe le sentenze, infatti, addebitano al
datore di lavoro il non avere impedito all’operaio di lavorare nelle ore più
calde della giornata e, particolarmente, nel primo pomeriggio quando la
temperatura raggiungeva i 34° gradi centigradi.

Si tratta di una contestazione che contiene un
rimprovero di negligenza ed imprudenza, e che presuppone la violazione della
regola cautelare sostanzialmente rinvenuta nella necessità di valutare in
concreto la compatibilità delle condizioni atmosferiche con l’attività svolta,
in modo da modo da non mettere in pericolo la sicurezza e la salute dei
lavoratori.

12. Ora, è chiaro che una simile generalissima norma
di diligenza e prudenza deve senza dubbio connotare la condotta del datore di
lavoro, ma proprio per il suo contenuto generico occorre che essa sia ancorata
a parametri di prevedibilità individuabili da colui sul quale incombe
l’apprezzamento, ché, altrimenti, si incorre nel rischio di trasformare la
valutazione sulla conciliabilità fra condizioni atmosferiche ed attività
lavorativa in un giudizio ex post. E ciò, da un lato, per la variabilità delle
reazioni individuali alle situazioni climatiche e, dall’altro, perché il
prodursi di un evento avverso deve essere pronosticabile dal datore di lavoro.

13. Ecco che, allora, per elidere la vaghezza di un
simile norma comportamentale, tenendo presente la pluralità dei fattori che
determinano la condizione meteorologica sfavorevole, non dipendente solo dalla
temperatura (o, per ipotesi, dalla presenza di precipitazioni), ma anche dal
vento, dall’umidità dell’aria, dalla tipologia dell’area interessata, occorre
che, in concreto, il datore di lavoro possa riferirsi ad un quadro
meteorologico valutato in modo tecnico e non empirico ed individualistico, che
tenga conto dei fattori generali e di quelli specifici e che sia sintetizzato
in una previsione che, laddove determinati valori soglia siano superati in quel
preciso contesto territoriale, implichi il rispetto di una serie di
raccomandazioni generali impartite dall’autorità competente sul comportamento
da tenere in simili condizioni climatiche. Agevola l’individuazione del
contenuto della regola cautelare il riferimento alle situazioni di “allerta
meteo” del Dipartimento della protezione civile, ma possono essere tenute in considerazione
anche altre forme di allertamento, eventualmente locale, con cui venga reso
noto che una determinata condizione climatica prevista potrà comportare
problemi per la salute.

14. Nel caso di specie, al contrario, si contesta al
datore di lavoro semplicemente di non avere sospeso l’attività lavorativa in
una giornata calda, consentendo che il lavoratore riprendesse il lavoro nel
primo pomeriggio, nonostante una temperatura di 34° centigradi, ritenuta dai
giudici del merito di per sé incompatibile con lo svolgimento di lavori edili,
senza che ciò trovi alcun riscontro tecnico, né esperienziale e soprattutto
senza che una simile affermazione trovi aggancio in una condizione di allerta
meteorologica giustificante l’astensione dalle attività fisiche e lavorative
all’aperto. D’altro canto, è evidente che laddove si dovesse giungere ad
un’affermazione come quella contenuta nella sentenza si dovrebbe affermare che
in tutta la zona meridionale del Paese durante la stagione estiva è interdetta,
in quanto pericolosa per la salute, ogni prestazione lavorativa che implica uno
sforzo fisico all’aperto (i lavori edili, ma anche quelli svolti nei campi, la
mietitura o la raccolta della frutta) ogniqualvolta la temperatura salga, il
che è pacificamente contraddetto dai risultati dell’esperienza.

15. Deve, dunque, sotto questo profilo l’assenza di
qualsivoglia profilo di colpa specifica e generica connotante la condotta
dell’imputato.

16. Venendo al secondo addebito ascritto a F.F.,
relativo alla mancata vigilanza sull’uso del copricapo da parte del lavoratore
è sufficiente osservare che, come sottolinea proprio il giudice di seconda
cura, l’elmetto era stato fornito al lavoratore, mentre il medesimo, dopo avere
ingerito un consistente quantitativo di alcool ha deliberatamente scelto di non
indossarlo.

Come già chiarito da questa Corte in caso di
infortunio sul lavoro riconducibile a prassi comportamentali elusive delle
disposizioni antinfortunistiche, non è ascrivibile alcun rimprovero colposo
datore di lavoro -o a colui eventualmente preposto- sotto il profilo
dell’esigibilità del comportamento dovuto, laddove non si abbia la certezza che
egli fosse a conoscenza di tali prassi o che le avesse colposamente ignorate,
sconfinandosi altrimenti in una inammissibile ipotesi di responsabilità
oggettiva” (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 1096 del 08/10/2020, dep. 13/01/2021
Rv. 28018: In applicazione del principio la Corte ha annullato senza rinvio,
“perché il fatto non costituisce reato”, la sentenza che aveva
riconosciuto la responsabilità del capo reparto di un supermercato, preposto di
fatto da soli cinque giorni, per l’infortunio subito da un dipendente a causa
del mancato uso dei dispositivi di protezione; ma anche Sez. 4, Sentenza n.
32507 del 16/04/2019, Rv. 276797: con cui la Corte ha annullato senza rinvio,
“perché il fatto non costituisce reato”, la sentenza di condanna del
legale rappresentante di una società di raccolta rifiuti per l’omicidio colposo
di un lavoratore deceduto perché, dopo aver ritirato l’ultimo sacchetto di rifiuti,
anziché salire nella cabina del camion, si era aggrappato dietro allo stesso,
rilevando che la vigilanza che i veicoli venissero utilizzati in maniera
conforme alle prescrizioni contenute nel documento di valutazione dei rischi
era stata delegata ai capisquadra presenti sui mezzi, e che era impossibile una
diuturna vigilanza su mezzi circolanti ininterrottamente).

17. In assenza di condotte rimproverabili al datore
di lavoro la sentenza va annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce
reato.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il
fatto non costituisce reato.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 marzo 2021, n. 9824
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