In caso di annullamento giudiziale di un’operazione di cessione di azienda (o di un suo ramo), il lavoratore che abbia continuato a lavorare per il cessionario a seguito del rifiuto di reintegrazione del cedente non ha diritto alla retribuzione per il periodo successivo alla declaratoria di nullità se tale retribuzione è stata regolarmente pagata dal cessionario.

Nota a Trib. Roma 12 gennaio 2021, n. 113

Gennaro Ilias Vigliotti

Il lavoratore che, a seguito di trasferimento d’azienda, sia passato alle dipendenze di altro datore di lavoro (art. 2112 c.c.) ha diritto, in caso di declaratoria giudiziale della nullità di tale trasferimento, ad essere riammesso in servizio dall’impresa cedente, con conservazione del trattamento economico e normativo in essere al momento del passaggio. Qualora il dipendente intimi nelle forme prescritte al datore di lavoro cedente di dare seguito alla reintegrazione e quest’ultimo non ottemperi all’invito senza motivo legittimo, il datore verserà in mora credendi, con la conseguenza che dovrà riconoscere al lavoratore il risarcimento dei danni (ex art. 1207, co. 2, c.c.) e tutte le retribuzioni medio tempore maturate (art. 1207, co. 1, c.c.).

Il principio appena affermato – ribadito di recente sia dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 2990/2018, in q. sito con nota di A. TAGLIAMONTE) che dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 29/2019) – si presta a differenti interpretazioni nel caso in cui, nel periodo successivo alla sentenza che ha stabilito la nullità del trasferimento, il lavoratore, nonostante l’offerta delle sue prestazioni al datore cedente, abbia continuato a lavorare per il cessionario ricevendo la relativa retribuzione. Si pone infatti il problema se il pagamento dell’azienda che ha acquisito la risorsa a seguito del passaggio per l’attività svolta dopo la declaratoria di nullità e dopo l’intimazione della reintegra liberi, fino a concorrenza del dovuto, l’imprenditore cedente chiamato a riassumere il lavoratore.

In un primo momento, la Corte di Cassazione ha statuito che il pagamento della retribuzione al lavoratore ex ceduto, effettuato dall’ex cessionario dopo l’accertamento giudiziale della nullità del trasferimento d’azienda e l’ordine impartito all’ex cedente di ripristinare il rapporto con il lavoratore possiede un’efficacia satisfattiva del credito retributivo di cui l’ex ceduto è titolare nei confronti dell’ex cedente. Ciò, poiché una ed una sola è la prestazione lavorativa che il lavoratore svolge nel ramo illegittimamente ceduto.

Il pagamento della relativa retribuzione da parte dell’ex cessionario, dunque, costituisce un pagamento consapevolmente effettuato da un soggetto che non è il vero creditore della prestazione, cioè un adempimento del terzo, cui consegue la liberazione del vero obbligato in applicazione del medesimo principio generale previsto dall’art. 1180 c.c., co. 1. Il lavoratore non potrà quindi ottenere dal cedente la medesima retribuzione già corrispostagli da cessionario, ma solo l’eventuale differenza rispetto a quanto avrebbe percepito alle dipendenze del primo (così, ex pluris, Cass. 1° giugno 2018, n. 14136; Cass. 31 maggio 2018, n. 14109).

Più di recente, però, la Corte Suprema ha mutato il proprio indirizzo sul tema, affermando che dalle retribuzioni che spettano al lavoratore da parte del datore che abbia effettuato un trasferimento di azienda dichiarato illegittimo e che abbia senza motivo valido rifiutato di ripristinare il rapporto con il lavoratore e, quindi, di ricevere le sue prestazioni, non è detraibile quanto lo stesso lavoratore abbia percepito, a titolo di retribuzione, per l’attività prestata in favore dell’utilizzatore. Quindi, il pagamento delle retribuzioni, effettuate dall’ex cessionario, quale corrispettivo delle prestazioni eseguite in suo favore dal lavoratore ex ceduto, dopo l’accertamento dell’illegittimità del trasferimento di azienda, non produce effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sull’ex cedente, che abbia rifiutato illegittimamente la prestazione offertagli ritualmente dal lavoratore (Cass. 11 novembre 2020, n. 26417; Cass. 24 giugno 2020, n. 12442; Cass. 15 maggio 2020, n. 9093; Cass. 24 aprile 2020, n. 8162).

Secondo questo più recente indirizzo, dunque, in caso di accertamento della nullità di un trasferimento d’azienda e continuazione della prestazione alle dipendenze del cessionario vi sarebbe una duplicità di rapporti: uno, de iure, ripristinato dal giudice nei confronti dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l’altro, de facto, nei confronti del soggetto, già cessionario, che ha effettivamente utilizzato la prestazione. Pertanto, al lavoratore spetta in questi casi una “doppia retribuzione”, una dovuta dal datore ex cedente in funzione della mora credendi; l’altra dovuta dal datore ex cessionario per aver concretamente usufruito della sua collaborazione professionale.

Nonostante l’indirizzo di legittimità appena riportato sembrasse in corso di consolidamento, il Tribunale di Roma, con la recente sentenza n. 113 del 12 gennaio 2021 ha affermato che l’assunto per cui, nei casi di trasferimento d’azienda illegittimo con continuazione della prestazione alle dipendenze del cessionario, la prestazione di lavoro sarebbe duplice, non può trovare accoglimento. In dichiarato dissenso con l’orientamento più recente della Cassazione, infatti, il Giudice romano ha ritenuto che “non dovrebbero esservi dubbi che, nel caso di specie, il lavoratore non sia in grado di eseguire contemporaneamente la medesima prestazione in favore di due distinti datori di lavoro” e che dunque, “i due rapporti di lavoro subordinato […] hanno per oggetto la medesima prestazione di lavoro e […] anche la medesima unica controprestazione retributiva”. L’identità della prestazione economica in capo ai due datori deriverebbe, secondo il Tribunale, dal fatto che la retribuzione si riferisce alla medesima prestazione lavorativa – e cioè al lavoro svolto nel ramo (illegittimamente) ceduto – sebbene sia diversa la fonte dell’obbligazione: nel caso del rapporto de iure, la fonte sarebbe nella sentenza che dichiara la nullità del trasferimento; nel caso del rapporto de facto, invece, la fonte sarebbe nell’esecuzione concreta della prestazione. In una simile situazione, l’istituto applicabile è quello dell’adempimento del terzo ex art. 1180 c.c., anche perché la diversità della fonte giuridica delle obbligazioni non esclude la sussistenza di un vincolo di solidarietà, come da pacifico orientamento giurisprudenziale (Cass. 24 febbraio 2016, n. 3641; Cass. 13 luglio 2007, n. 15668; Cass. 14 ottobre 2004, n. 20294).

Trasferimento d’azienda illegittimo e “doppia retribuzione”
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