Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 marzo 2021, n. 7223

Licenziamento disciplinare, Abbandono del posto di lavoro per
venti minuti, Gravità delle mancanze ascritte al dipendente, Proporzionalità
della sanzione irrogata

 

Fatti di causa

 

La Corte d’appello di Bari con sentenza resa
pubblica il 28/5/2018 confermava la pronuncia del giudice di prima istanza con
la quale era stata respinta la domanda proposta ex art. 1 c.47 1.92/2012 da G. L.
nei confronti della S. s.p.a. volta a conseguire la declaratoria di
nullità/illegittimità del prova della impossibilità del repéchage intimatogli
in data 15-29/10/2015 sulla base di un duplice addebito: l’abbandono del posto
di lavoro per venti minuti, verificatosi il 13 ottobre 2015, e la violazione,
sempre nella medesima occasione, dell’obbligo di indossare il giubbotto
antiproiettile.

La Corte distrettuale perveniva a tale
convincimento, in estrema sintesi, dopo aver fatto richiamo ai principi invalsi
nella giurisprudenza di legittimità alla cui stregua la fattispecie
dell’abbandono del posto di lavoro presenta una connotazione di tipo oggettivo,
nella quale rileva la intensità dell’inadempimento agli obblighi di
sorveglianza, identificandosi l’abbandono nella totale dismissione del bene da
proteggere; ed una di tipo soggettivo, nella quale si prospetta come decisiva
ai fini della definizione dell’elemento volontaristico, la coscienza e volontà
della condotta, indipendentemente dalle finalità perseguite.

Dopo aver proceduto al vaglio delle acquisizioni
probatorie, la Corte di merito concludeva nel senso che esse recavano univoche
indicazioni confermative di tutti gli addebiti ascritti al lavoratore al lume
dei principi summenzionati, non senza rimarcare che gli ulteriori pregressi
procedimenti disciplinari richiamati nella lettera di licenziamento, non
integravano una ipotesi di contestazione di recidiva, ma un criterio – quale
precedente negativo della condotta – di determinazione della sanzione
proporzionata, da irrogare in relazione alla infrazione disciplinare commessa.

Avverso tale decisione G. L. interpone ricorso per
cassazione affidato ad unico articolato motivo.

Resiste la società intimata con controricorso
successivamente illustrato da memoria ex art.378
c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo profilo dell’articolato motivo si
denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.2106
e 2119 c.c.

Si criticano gli approdi ai quali è pervenuta la
Corte di merito per avere interpretato le risultanze istruttorie, pervenendo
alla configurazione della ipotesi di abbandono del posto di lavoro, dopo aver
conferito maggiore attendibilità alle deposizioni dei testimoni indicati dalla
parte datoriale.

Si valorizzano, invece, a tal uopo, le dichiarazioni
rese da taluni testimoni i quali avevano riferito in ordine ad un
allontanamento del ricorrente dalla postazione di lavoro, protrattosi per non
più di cinque minuti ed in ragione della necessità di rimozione dell’auto dal
luogo ove si trovava, a causa dello svolgimento di attività di manutenzione
proprio in tale area.

Si prospetta quindi come, nello specifico, si sia
verificata una ipotesi di allontanamento momentaneo dal posto di lavoro che,
secondo precedenti dicta di questa Corte, va individuato nel caso in cui il
lavoratore non intenda affatto sottrarsi ai propri obblighi, ma solo sospendere
brevemente la sua prestazione onde soddisfare esigenze di natura meramente personale.

In tal senso ci si duole che la Corte distrettuale
abbia omesso di esaminare un fatto decisivo oggetto di discussione fra le
parti, giacché “la piantina e l’area del parcheggio prospiciente la
postazione di lavoro, rappresentano la relazione esistente con il bene
protetto”; si deduce che la piantina – solo genericamente oggetto di
contestazione da parte della società – evidenziava come la distanza del vano
tecnico interessato dall’intervento manutentivo dalla postazione di lavoro,
fosse di soli 100 metri, e come tale dato fosse oggettivamente compatibile con
la asserita brevità del lasso temporale entro cui si è protratto
l’allontanamento – del ricorrente dal posto di lavoro.

Nell’ottica descritta si deduce l’erroneità della
qualificazione della condotta posta in essere dal lavoratore, elaborata dai
giudici del gravame in termini di abbandono del posto di lavoro, essendo tale
condotta priva del requisito della definitività.

Si critica altresì, l’enunciato dei giudici del
gravame non solo per la non riconducibilità della condotta ascritta al catalogo
espresso dalla contrattazione collettiva di settore, ma anche per il giudizio
di proporzionalità della sanzione irrogata, che non avrebbe tenuto conto né
dell’elemento geografico (distanza del parcheggio dalla postazione di soli 100
metri), né dell’elemento quantitativo, nella specie connesso -alla temporaneità
dello spostamento dal luogo di lavoro.

2. Si sottopone, quindi, a censura, l’imputazione al
lavoratore del mancato utilizzo del giubbotto antiproiettile per il quale la
contrattazione collettiva non prevedeva sanzioni tipizzate, reputandosi
insufficiente al riguardo la deposizione del teste D.R., il quale aveva
acquisito notizie de relato in ordine alla consegna da parte di altro
dipendente, di detto indumento al L.; si critica, da ultimo, il giudizio
espresso in ordine alla valutazione complessiva anche delle condotte pregresse
assunte dal lavoratore.

3. Il ricorso non è meritevole di accoglimento per
le ragioni di seguito esposte.

Le censure attengono al momento valutativo del
compendio istruttorio riservato al giudice di merito e non sindacabile nella
presente sede.

Deve al riguardo rimarcarsi che in tal senso, le
critiche articolate dalla difesa di parte ricorrente non hanno il tono proprio
di una censura di legittimità.

Esse, sotto l’apparente deduzione del vizio di
violazione e falsa applicazione di legge, degradano in realtà verso
l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici
da cui è originata l’azione (cfr. Cass., Sez. Un., 17/12/2019 n.33373, Cass. S.U. 27/12/2019 n.34476), in quanto tendono
a dare ingresso ad una surrettizia revisione del giudizio di merito, attraverso
il controllo in sede di legittimità della motivazione della sentenza gravata,
inducendo a prendere in considerazione sotto un’angolazione diversa,
coincidente con le proprie ragioni, il materiale probatorio assunto dal giudice
a fondamento della propria decisione.

Ma siffatte critiche non possono trovare ingresso, a
maggior ragione nel regime di sindacato minimale ex art.360
c. 1 n.5 c.p.c. novellato.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai
consolidata (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n.
8053; Cass., Sez. Un., 18/4/2018, n. 9558;
Cass., Sez. Un., 31/12/2018, n. 33679) nell’affermare che: il novellato testo
dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. ha
introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di
un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo
della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; l’omesso esame di
elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto
decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in
considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le
risultanze probatorie; neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento
delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio
rilevante ai sensi della predetta norma; nel giudizio di legittimità è
denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di
legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati
dall’art. 12 delle preleggi, in quanto attiene
all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della
sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

4. Nella specie, come riportato nello storico di
lite, la sentenza impugnata ha convalidato, sulla base della valutazione delle
risultanze probatorie acquisite, il giudizio del collegio territoriale circa
tempi e modi entro i quali si sarebbe dispiegata la condotta attorea oggetto
della lettera di contestazione. Ha elaborato un compiuto scrutinio delle
acquisizioni probatorie, esplicando le ragioni sottese alla maggiore
attendibilità delle dichiarazioni rese da taluni testimoni, in ragione del
compito di accertare il corretto esercizio del servizio di vigilanza loro
ascritto.

Dalle dichiarazioni rese, era emerso che la
postazione di lavoro del ricorrente era rimasta scoperta per almeno venti
minuti, tempo peraltro, ritenuto compatibile con la necessità di percorrere a
piedi cento metri, raggiungere il luogo ove l’auto era posteggiata, trovare
un’altra area di parcheggio e ritornare alla propria postazione; e che di tale
assenza non era stata data comunicazione alla centrale.

Al cospetto di tale congrua definizione delle
acquisizioni probatorie, parte ricorrente si è limitata a contrapporre alla
ricostruzione offerta dalla Corte distrettuale una difforme, non censurando
puntualmente quella svolta in sentenza, ma proponendo una diversa
valorizzazione degli elementi probatori raccolti, non consentita nella presente
sede.

In tale prospettiva, priva di fondamento si palesa
la critica che attinge la statuizione con la quale il giudice del gravame ha
confermato l’accertamento della responsabilità del lavoratore nel mancato
utilizzo del giubbotto antiproiettile, attenendo la stessa, pur sempre, alla
valutazione dello strumento probatorio, che risulta congruamente svolta dalla
Corte distrettuale.

La quaestio facti rilevante in causa è stata,
infatti, trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, pur
pervenendo il giudice del gravame a conclusioni opposte a quelle indicate da
parte ricorrente, con approccio congruo – oltre che conforme a diritto – che si
sottrae allo scrutinio di legittimità in base ai parametri tracciati dal
novellato testo dell’art.360 comma primo n.5 c.p.c.
nella interpretazione resa dalle sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass. S.U. 7/4/2014 n.8053).

5. Non può, sotto, altro versante, sottacersi che la
Corte di merito, nello scrutinare la vicenda delibata, si è attenuta ai
principi consolidati espressi da questa Corte alla cui stregua la fattispecie
dell’abbandono del posto di lavoro, di cui all’art. 140 del c.c.n.l. Istituti di
vigilanza privata presenta una duplice connotazione: sotto il profilo
oggettivo, rileva l’intensità dell’inadempimento agli obblighi di sorveglianza,
dovendosi l’abbandono identificare nel totale distacco dal bene da proteggere,
mentre la durata nel tempo della condotta contestata va apprezzata non già in
senso assoluto, ma in relazione alla sua possibilità di incidere sulle esigenze
del servizio, dovendosi comunque escludere che l’abbandono richieda una durata
protratta per l’intero orario residuo dei turno di servizio svolto; sotto il
profilo soggettivo, è richiesta la semplice coscienza e volontà della condotta
di abbandono, indipendentemente dalle finalità perseguite e salva la
configurabilità di cause scriminanti, restando irrilevante il motivo
dell’allontanamento (vedi Cass. 1/7/2020 n.13410,
Cass. 26/7/2016 n.15441).

6. Quanto alla valutazione della cd.
“recidiva” ai fini del giudizio di proporzionalità della sanzione
espulsiva irrogata, la pronuncia impugnata si palesa, del pari, congrua e
conforme a diritto.

La Corte territoriale, condividendo l’iter
argomentativo percorso dal giudice di prima istanza, ha infatti chiarito che il
riferimento ai precedenti illeciti disciplinari, contenuti nella lettera di
contestazione, era meramente funzionalizzato alla definizione della gravità
delle mancanze ascritte al dipendente onde sostenere il giudizio di
proporzionalità della sanzione irrogata, non essendo riconducibili i
comportamenti descritti, ad alcuna ipotesi di recidiva specificamente prevista
dalle disposizioni contrattualcollettive di riferimento.

In tal senso ha mostrato di conoscere e condividere
l’insegnamento di questa Corte secondo cui la preventiva contestazione
dell’addebito al lavoratore incolpato deve necessariamente riguardare, a pena
di nullità della sanzione o del licenziamento disciplinare, anche la recidiva,
e i precedenti disciplinari che la integrano, solo quando la recidiva medesima,
secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva applicabile,
rappresenti un elemento costitutivo della mancanza addebitata e non già un mero
criterio, quale precedente negativo della condotta, di determinazione della
sanzione proporzionata da irrogare per l’infrazione disciplinare commessa (vedi
Cass. 25/1/2018 n.1909). E proprio Corte di
quest’ultimo era il caso oggetto di delibazione, in cui il licenziamento era
stato intimato perché era risultato che il 13/10/2015 il ricorrente aveva
abbandonato il posto di lavoro senza autorizzazione e, nella stessa occasione,
non indossava il giubbotto antiproiettile, in violazione dell’art.2104 c.c. e del c.c.n.l. di settore. Solo per
ragioni di opportunità (“Allo stesso modo appare opportuno il richiamo
alla sanzione di 4 ore di multa…”) si menzionava la irrogazione di
pregresse sanzioni disciplinari onde avvalorare il giudizio di gravità del
vulnus arrecato all’elemento fiduciario sotteso al vincolo lavorativo e
giustificare la proporzionalità della sanzione irrogata alla mancanza ascritta.

La fattispecie scrutinata è stata, dunque, oggetto
di corretta sussunzione nel concetto di proporzionalità della sanzione
disciplinare, che rientra nella generale categoria delle clausole generali e si
realizza mediante valorizzazione di fattori relativi alla coscienza generale ed
individuazione degli elementi fattuali che integravano il parametro normativo,
ravvisati nel comportamento posto in essere dal lavoratore richiamato nella
lettera di contestazione in quanto suscettibile di porre in dubbio la futura
correttezza dell’adempimento; si tratta, dunque, per quanto sinora detto, di
accertamento conforme a diritto, oltre che del tutto congruo sotto il profilo
della concreta ricorrenza degli elementi fattuali considerati, sotto tale
aspetto non risultando sindacabile in questa sede in quanto riservato ai
giudici di merito (vedi per tutte Cass. 26/3/2018
n. 7426).

In definitiva, alla stregua delle argomentazioni
sinora esposte, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente
giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo
liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002
– della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte
della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per
esborsi ed euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13,
ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 marzo 2021, n. 7223
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