Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2021, n. 7360

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Chiusura
dell’unità locale, Prova della impossibilità del repéchage

 

Fatti di causa

 

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza resa
pubblica il 6/2/2017, in riforma della pronuncia del giudice di prime cure,
rigettava la domanda proposta da M.D. nei confronti della G.I. s.r.l. volta a
conseguire pronuncia di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo irrogatole in data 3/4/2014, per la chiusura dell’unità locale ove la
ricorrente era impiegata con inquadramento nel II livello c.c.n.l. commercio e
terziario, espletando mansioni di store manager.

Nel pervenire a tali conclusioni la Corte
distrettuale muoveva, in estrema sintesi, dal richiamo ai principi affermati da
questa Corte in tema di repechage, alla cui stregua in materia di licenziamento
per giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro l’allegazione e la
prova della impossibilità del repéchage del dipendente licenziato in quanto
requisito di legittimità del recesso datoríale, senza che sul lavoratore
incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli
ordinari principi processuali una divaricazione fra i suddetti oneri.

Osservava, tuttavia, il giudice del gravame, che
detto principio andava coordinato con quello dell’interesse ad agire del
ricorrente, avuto riguardo alle condizioni alle quali sarebbe stato disposto a
rimanere inserito nel contesto organizzativo della parte datoriale.

Nello specifico era emerso che la ricorrente aveva
chiaramente espresso il proprio interesse ad impugnare il recesso datoriale
nella dedotta possibilità di essere ancora utilizzata in una delle sedi della
Campania o del basso Lazio; tale possibilità era, peraltro, rimasta esclusa
alla stregua della produzione documentale versata in atti dalla parte
datoriale.

Questa aveva infatti adeguatamente assolto l’onere
assertivo e probatorio sulla stessa gravante, inerente alla impossibilità di
continuare ad utilizzare a tempo indeterminato le energie lavorative della
reclamata presso una degli esercizi indicati da quest’ultima in Campania,
avendo dimostrato altresì di non possedere alcun punto vendita nell’area del
basso Lazio.

Avverso tale decisione M.D. interpone ricorso per
cassazione affidato ad unico motivo al quale oppone difese la società intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria
illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Considerato che

 

1. Con unico motivo si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 3
e 5 l. 604 del 1966 e dell’art. 2697 c.c.

Si addebita ai giudici del gravame di avere solo
formalmente asserito di condividere i principi enunciati dalla Corte di
legittimità in tema di allegazione e prova della impossibilità di repéchage del
dipendente licenziato, concludendo con l’affermazione di un obbligo di collaborazione
da parte del lavoratore nell’accertamento di un possibile repéchage al fine di
esplicitare adeguatamente i termini entro i quali la sentenza non sarebbe
inutíliter data. Nell’ottica descritta si prospetta come del tutto
insostenibile la tesi fatta propria dalla Corte di merito, di una rinuncia
implicita della lavoratrice a qualsiasi altra ricollocazione nel complessivo
contesto aziendale, per avere a tal fine indicato solo alcune aree geografiche,
in quanto l’indicazione di alcuni dei luoghi di possibile ricollocazione non
esaurisce l’onere di allegazione e di prova a carico del datore di lavoro.

2. Il motivo non è fondato per le ragioni di seguito
esposte.

La sentenza impugnata non è, infatti, nei suoi esiti
applicativi, in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale di legittimità
al quale questa Corte ha dato continuità, al fine di consolidarlo, secondo cui
in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore
di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repéchage del
dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso
datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti
assegnabili, non essendo configurabile sotto il profilo processuale, una
divaricazione tra i suddetti oneri (vedi Cass.
22/3/2016 n.5592, Cass. 13/6/2016 n.12101,
Cass. 5/1/2017 n.160).

Ed invero, il giudice del gravame nel proprio iter
argomentativo, ha innanzitutto vagliato l’incontestata sussistenza di un calo
di fatturato e della effettività del processo di contrazione della produzione
comprovato dalla chiusura del punto vendita in Napoli cui la ricorrente era
addetta quale Responsabile inquadrata nel II livello c.c.n.l. di settore,
secondo un approccio che si palesa in sintonia con la costante giurisprudenza
di questa Corte, la quale non ha mai smesso di insegnare che “al giudice
spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore”
restando “saldo il controllo sulla effettività e non pretestuosità della
ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del
recesso” affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito (vedi Cass. 15/2/2017, n.4015, Cass. 3/5/2017 n.10699);

quindi, ha proceduto ad una accurata interpretazione
della domanda attorea.

All’esito di tale procedimento ermeneutico, fondato
sullo specifico profilo allegatorio che ha connotato il ricorso introduttivo
del giudizio, è quindi pervenuto alla conclusione che l’interesse sotteso alla
impugnazione del recesso risiedeva “nella dedotta possibilità di essere
ancora utilizzata in una delle sedi lavorative della Campania o al più del
basso Lazio”. Il giudice del gravame ha, dunque, argomentato come la
condizione dell’interesse ad agire che qualificava la domanda attorea fosse
correlata alla riassunzione in una definita area geografica, la asserita
illegittimità del licenziamento traendo fondamento dalla mancata ricollocazione
presso i punti vendita in tale area inscritti.

3. Al riguardo, è bene rammentare che secondo
l’insegnamento di questa Corte, la rilevazione ed interpretazione del contenuto
della domanda, è attività riservata al Giudice di merito ed è insindacabile se
non nei ridotti limiti in cui:

a) l’errore ridondi in un vizio di nullità
processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del Giudice dal
paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di
legittimità ex art. 360 co 1 n. 4 c.p.c ,

b) l’errore si traduca in un vizio del ragionamento
logico decisorio, ma anche in tal caso, se la inesatta rilevazione del
contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del
“petitum”, potrà aversi una violazione del principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere dedotto come vizio
di nullità processuale ex art. 360 co 1 n. 4 c.p.c.;

c) ove poi l’errore coinvolga la
“qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo,
ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da
ritenere decisivo”, allora in tal caso, la censura va proposta,
rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando” ex art. 360 co 1 n. 3 c.p.c., o al vizio di
“error facti”, nei limiti consentiti dall’art.
360 co 1 n. 5 c.p.c., come modificato dall’art. 54 del DL n. 83/2012 conv.
in legge n. 134/2012 (in termini vedi ex anis,
Cass. 10/6/2020 n.11103, cui adde Cass. 24/7/2012 n.12944 secondo cui anche nel
processo del lavoro, l’interpretazione della domanda rientra nella valutazione
del giudice di mèrito e non è censurabile in sede di legittimità ove motivata
in modo sufficiente e non contraddittorio).

4. Nello specifico, tuttavia, la statuizione non
risulta validamente censurata sotto alcuno dei profili enunciati, essendosi la
ricorrente limitata a dedurre genericamente la violazione dei principi di
diritto enunciati in sede di legittimità in tema di ripartizione dell’onus
probandi nella materia del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e
del cd. repéchage, ossia della possibilità di utile ricollocazione del
lavoratore nell’ambito della struttura organizzativa aziendale, ritenendo del
tutto insostenibile la tesi di una rinuncia implicita da parte della
lavoratrice a qualsiasi diversa collocazione.

Non ha proceduto, parte ricorrente, ad una analitica
critica che investisse il profilo interpretativo della domanda, né la sua
individuazione nei suoi elementi costitutivi, che fosse idonea a smentire
l’assunto posto a fondamento della pronuncia impugnata con il quale è stata
perimetrata la condizione sottesa alla azione proposta, entro l’ambito
geografico esplicitamente definito dalla lavoratrice.

La questione che si pone nel caso in esame attiene,
infatti, al significato da attribuire alle epressioni utilizzate nel contenuto
della domanda introduttiva, venendo in rilievo pertanto l’interpretazione della
domanda che è operazione riservata al giudice del merito, il cui risultato è
censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso
letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che
la parte intende perseguire (vedi ex aliis, Cass.
Sez. L, Sentenza 5/2/2004 n. 2148), e dunque risulti “travisato”
il contenuto della domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio.

In tal senso, pertanto, gli approdi ai quali è
pervenuta la Corte distrettuale si sottraggono alle critiche formulate.

5. Le ricordate conclusioni risultano, peraltro,
congrue e conformi a diritto perché si collocano nell’alveo del condiviso
orientamento di legittimità, anche di recente consolidatosi, secondo cui in
tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sebbene non sussista
un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti
esistenti in azienda ai fini del “repéchage”, ove il lavoratore
medesimo, in un contesto di accertata e ‘grave crisi economica ed organizzativa
dell’impresa, indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste
risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al
fine di escludere la possibilità del predetto repéchage (vedi Cass. 23/5/2018 n. 12794, Cass. 22/11/2018 n.30259, Cass. 20/7/2020 n.15401).

La fattispecie sottoposta allo scrutinio della Corte
di merito è stata, dunque, congruamente definita nei suoi elementi costitutivi,
e sottoposta ad un argomentato ragionamento interpretativo che esclude il vizio
di violazione di legge denunciato, ossia di erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una previsione
normativa, implicante un problema interpretativo della stessa, così come di
falsa applicazione della legge, che consiste nella sussunzione della
fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice
perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla,
oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta,
conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione
(vedi ex plurimis, Cass. 30/4/2018 n. 10320; Cass.
25/9/2019 n. 23851).

Nella descritta prospettiva deve concludersi che
l’impianto argomentativi che innerva l’impugnata sentenza non vulneri i
consolidati dicta che governano la materia delibata, secondo le linee
interpretative innanzi enunciate.

6. Al lume delle sinora esposte considerazioni, il
ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente
giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo
liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002
– della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte
della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.250,00 per
compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13, ove
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2021, n. 7360
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