Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 marzo 2021, n. 7228

Professionista, Avvocato, Iscrizione presso la Cassa
Nazionale Forense, Reddito inferiore ai minimi previsti, Prova della natura
abituale dell’attività svolta

 

Fatti di causa

 

Con sentenza depositata il 6.5.2019, la Corte
d’appello di Bari ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva
dichiarato l’Avv. B.B. non tenuta ad iscriversi presso la Gestione separata in
relazione ai periodi nei quali aveva prodotto un reddito inferiore ai minimi
previsti per l’obbligatorietà dell’iscrizione presso la Cassa Nazionale
Forense.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che, sebbene
non potesse in linea generale dubitarsi dell’obbligatorietà dell’iscrizione
alla Gestione separata per coloro che esercitano abitualmente la professione di
avvocato e che non sono tenuti a iscriversi presso la Cassa Nazionale Forense,
il fatto che la professionista avesse percepito redditi di importo inferiore a
€ 5.000,00 rappresentasse un indizio della natura occasionale dell’attività
svolta, rispetto al quale l’Istituto non aveva dato prova alcuna a supporto
della sua natura abituale.

Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per
cassazione l’INPS, deducendo un unico motivo di censura, successivamente
illustrato con memoria. L’Avv. B.B. ha resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Con l’unico motivo di censura, l’INPS denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 2, commi 26 ss., I. n.
335/1995, 18, commi 1 e 2,
d.l. n. 98/2011 (conv. con I. n. 111/2011),
21 comma 8, I. n. 247/2012, e
44, d.l. n. 269/2003 (conv.
con I. n. 326/2003), per avere la Corte di
merito ritenuto che la produzione di un reddito inferiore alla soglia di €
5.000,00, di cui alla norma ult. cit., costituisse elemento sintomatico
decisivo ai fini della valutazione dell’occasionalità della prestazione, senza
considerare le ulteriori circostanze acquisite al processo e rimaste incontestate,
vale a dire il mancato inserimento del reddito da lavoro autonomo tra i redditi
diversi ai fini fiscali e la titolarità di partita IVA.

Il ricorso è infondato.

Va premesso che, ricostruendo la portata precettiva
dell’art. 2, comma 26, I. n.
335/1995, per come autenticamente interpretato dall’art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011
(conv. con I. n. 111/2011), questa Corte,
sulla scorta di Cass. S.U. n. 3240 del 2010,
ha avuto modo di affermare più volte che l’obbligo di iscrizione alla Gestione
separata è genericamente rivolto a chiunque percepisca un reddito derivante
dall’esercizio abituale (ancorché non esclusivo) ed anche occasionale (oltre la
soglia monetaria indicata nell’art.
44, comma 2, d.l. n. 269/2003, conv. con I. n.
326/2003) di un’attività professionale per la quale è prevista l’iscrizione
ad un albo o ad un elenco, tale obbligo venendo meno solo se il reddito
prodotto dall’attività professionale predetta è già integralmente oggetto di
obbligo assicurativo gestito dalla cassa di riferimento (così, espressamente, Cass. n. 32167 del 2018, in motivazione, cui
hanno dato continuità, tra le numerose, Cass. nn.
519 del 2019, 317 e 1827 del 2020, 477 e 478
del 2021). E trattasi di affermazione che discende agevolmente dalla
lettura del combinato disposto degli artt. 2, comma 26, I. n. 335/1995,
e dell’art. 44, d.l. n. 269/2003,
entrambi cit., il primo dei quali, per quanto qui rileva, prevede
l’obbligatorietà dell’iscrizione a carico dei «soggetti che esercitino, per
professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di
cui al comma 1 dell’articolo 49 del
testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente
della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni ed
integrazioni», mentre il secondo, a decorrere dal 1° gennaio 2004, estende tale
obbligo anche ai «soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale
[…] solo qualora il reddito annuo derivante da dette attività sia superiore
ad euro 5.000».

Nell’intento del legislatore, reso palese dalla
lettera delle disposizioni citate, l’obbligatorietà dell’iscrizione presso la
Gestione separata da parte di un professionista iscritto ad albo o elenco è
collegata, infatti, all’esercizio abituale, ancorché non esclusivo, di una
professione che dia luogo ad un reddito non assoggettato a contribuzione da
parte della cassa di riferimento; la produzione di un reddito superiore alla
soglia di euro 5.000,00 costituisce invece il presupposto affinché anche
un’attività di lavoro autonomo occasionale possa mettere capo all’iscrizione
presso la medesima Gestione, restando invece normativamente irrilevante qualora
ci si trovi in presenza di un’attività lavorativa svolta con i caratteri dell’abitualità.

Dirimente è, insomma, il modo in cui è svolta
l’attività liberoprofessionale, se in forma abituale o meno; e se
nell’accertamento di fatto di tale requisito ben possono rilevare le
presunzioni ricavabili, ad es., dall’iscrizione all’albo, dall’accensione della
partita IVA, dalle dichiarazioni rese ai fini fiscali o dall’organizzazione
materiale predisposta dal professionista a supporto della sua attività, non è
meno vero che trattasi pur sempre di forme di praesumptio hominis, che non
impongono all’interprete conclusioni indefettibili, ma semplici regole di
esperienza per risalire al fatto ignoto da quello noto.

Sotto questo profilo, deve escludersi che – come
invece preteso dall’Istituto ricorrente – tali regole di esperienza siano
passibili di irrigidirsi in virtù della normazione positiva dettata dagli artt. 61 e 69-bis, d.lgs. n. 276/2003, così
da trapassare nel campo della presunzione legale: tanto l’art. 61, comma 3, d.lgs. n. 276/2003,
nella parte in cui prevede che «sono escluse dal campo di applicazione del
presente capo le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è
necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali», quanto il successivo art. 69-bis, comma 3, che esclude
dalla presunzione di continuatività di cui al precedente comma 1 le
«prestazioni lavorative svolte nell’esercizio di attività professionali per le
quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad un ordine professionale», sono
preordinati a dettare discipline di favore per i committenti e i prestatori di
attività riconducibili ad una professione intellettuale per il cui esercizio
sia necessaria l’iscrizione ad apposito albo professionale, stabilendo
rispettivamente che esse non necessitano dell’individuazione di uno specifico
progetto per essere dedotte in un contratto di collaborazione e che, ai fini
fiscali, non possono presumersi continuative; si tratta, in altri termini, di
disposizioni che operano l’una nell’ambito dei rapporti tra le parti contraenti
e l’altra nei confronti dell’Erario, ma dalle quali non è possibile desumere
alcuna presunzione iuris et de iure tale per cui un’attività
libero-professionale che possa essere svolta solo previa iscrizione ad un albo
o elenco debba necessariamente qualificarsi come “abituale” ai fini
dell’iscrizione alla Gestione separata.

Resta piuttosto da osservare che, una volta chiarito
che il requisito dell’abitualità dev’essere accertato in punto di fatto,
valorizzando all’uopo le presunzioni ricavabili ad es. dall’iscrizione
all’albo, dalle dichiarazioni rese ai fini fiscali, dall’accensione della
partita IVA o dall’organizzazione materiale predisposta dal professionista a
supporto della sua attività, ben può la percezione da parte del libero
professionista di un reddito annuo di importo inferiore a € 5.000,00 rilevare
quale indizio per escludere che, in concreto, l’attività sia stata svolta con
carattere di abitualità, così come in concreto ritenuto dalla Corte
territoriale: fermo restando che l’abitualità di cui si discute dev’essere
apprezzata nella sua dimensione di scelta ex ante del libero professionista,
coerentemente con la disciplina ch’è propria delle gestioni dei lavoratori
autonomi, e non invece come conseguenza ex post desumibile dall’ammontare di
reddito prodotto, dal momento che ciò equivarrebbe a tornare ad ancorare il
requisito dell’iscrizione alla Gestione separata alla produzione di un reddito
superiore alla soglia di cui all’art.
44, d.l. n. 269/2003, cit., che invece, come detto, rileva ai fini
dell’assoggettamento a contribuzione di attività liberoprofessionali svolte in
forma occasionale, non si tratta che di un ragionamento presuntivo mediante il
quale si utilizzano circostanze note per risalire ad un fatto ignoto. Ed è
appena il caso di soggiungere che, sebbene l’Istituto ricorrente abbia
lamentato che, nel caso di specie, non sarebbero state adeguatamente
valorizzate ulteriori circostanze fattuali acquisite al processo (l’accensione
di partita IVA e il mancato inserimento del reddito da lavoro autonomo tra i
redditi diversi), nulla della loro sussistenza è dato leggere nella sentenza
impugnata, né l’Istituto ha specificamente illustrato in quale luogo e in quale
grado del processo di merito esse sarebbero state veicolate nel giudizio e
discusse tra le parti, con la conseguenza che, per questa parte, la censura
deve reputarsi radicalmente inammissibile.

Il ricorso, pertanto, va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza nella misura
liquidata in dispositivo, con distrazione in favore dell’avvocato B.E.B. che ha
reso la prescritta dichiarazione.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 500,00
per compensi, oltre ad euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura
del 15% e spese accessorie di legge, da distrarsi in favore dell’avvocato
B.E.B..

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 marzo 2021, n. 7228
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