Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2021, n. 7363

Licenziamento collettivo, Violazione dei criteri di scelta,
Procedura di mobilità, Comunicazione, Elemento essenziale

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 2 dicembre 2016, la Corte d’appello
di Roma, adita in sede di rinvio, ha dichiarato l’illegittimità del
licenziamento intimato il giorno 18/12/2005 dalla C.I. s.r.l. a T.B., V.D. e
G.T. e, per l’effetto, ha condannato il Fallimento di B.A.M.E.S. s.r.l. (già
C.I. s.r.I.) alla reintegra dei tre lavoratori nel posto di lavoro
precedentemente occupato, nonché al risarcimento del danno nei confronti dei
medesimi ai sensi dell’art. 18
L. n. 300/70.

La vicenda prende le mosse dal licenziamento
collettivo intimato ai dipendenti della C. in data 18/12/2002 e dalla
conseguente impugnativa, da parte degli stessi, per violazione dei criteri di
scelta anche nei confronti della società S.E. S.p.A. che si era impegnata ad
assumerli con mantenimento dei livelli di inquadramento e di retribuzione per
una durata non inferiore a 36 mesi.

2.1. Respinta la domanda in primo e in secondo
grado, questa Corte di legittimità, su ricorso dei lavoratori, ha reputato
erronea la configurazione dell’accettazione da parte degli stessi della
proposta irrevocabile di assunzione da parte della S. e della correlativa messa
in mobilità da parte della B. S.p.A. (frattanto subentrata alla C.) in termini
di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e, cassando la decisione
impugnata, ha rinviato la causa alla Corte d’appello perché procedesse
all’esame delle censure mosse alla procedura di licenziamento collettivo,
inerenti ai criteri di scelta.

3. Per la cassazione della sentenza di accoglimento
emessa dalla Corte territoriale in sede di rinvio propone ricorso, assistito da
memoria, il Fallimento di B.A.M.E.S. s.r.l., affidandolo ad undici motivi.

3.1. Resistono, con controricorso, T.B., V.D. e G.T.

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la
violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in
relazione all’art. 100 cod. proc. civ., e, in
subordine, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. per motivazione apparente
sul sopravvenuto difetto d’interesse ad agire dei ricorrenti in riassunzione.

1.1. Il secondo motivo censura la decisione
impugnata per violazione degli artt.
52, 92, 93, 95, 96, 101 e 112 per non essere stata
ritenuta dalla Corte l’indefettibilità della domanda di ammissione al passivo
da parte dei lavoratori mentre, con il quinto motivo, sempre sotto il medesimo
profilo, si denunzia la violazione dell’art. 52 della legge fallimentare
deducendosi che qualsiasi azione avrebbe dovuto essere intrapresa in sede
fallimentare.

1.3. I tre motivi, da esaminarsi congiuntamente per
l’intima connessione, sono infondati.

Giova premettere, al riguardo, che la differenza fra
l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 cod.
proc. civ. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia
di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.
consiste nel fatto che, nel primo caso, l’omesso esame concerne direttamente
una domanda od un’eccezione introdotta in causa, autonomamente apprezzabile,
ritualmente ed inequivocabilmente formulata, mentre, nel secondo, l’omessa
trattazione riguarda una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe
comportato una diversa decisione (Cass. n. 20961 del 08/09/2017; Cass. n. 25714
del 04/12/2014; Cass. n. 25761 del 05/12/2014).

Con riguardo a tale ultima violazione, poi, va
rilevato che, in seguito alla riformulazione dell’art.
360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 co 1, lett. b), del DL 22
giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la
impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di
motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la
conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di
legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del
requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale”
richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed
individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della
Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note
ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del
provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile
contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono
nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4),
c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del
prescritto requisito di validità ( fra le altre, Cass. n. 23940 del 2017);

Relativamente, infine, alla denunziata motivazione
apparente, va rilevato che questa Corte ha affermato che in caso di censura per
motivazione mancante, apparente o perplessa, spetta al ricorrente allegare in
modo non generico il “fatto storico” non valutato, il
“dato” testuale o extratestuale dal quale esso risulti esistente, il
“come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di
discussione processuale e la sua “decisività” per la definizione
della vertenza (Cass. n. 13578 del 02/02/2020) e, d’altra parte, per aversi
motivazione apparente occorre che la stessa, pur se graficamente esistente ed
eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola
la fattispecie dedotta in giudizio, non consenta alcun controllo sull’esattezza
e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del
“minimo costituzionale” richiesto dall’art.
111 comma 6 Cost. (sul punto, fra le altre, Cass. n. 13248 del 30/06/2020);

1.4. Nel caso di specie, deve escludersi che la
Corte abbia omesso di pronunziarsi sul dedotto sopravvenuto difetto di
interesse ad agire dei tre lavoratori nei confronti del Fallimento dovuto
all’omessa domanda di ammissione al passivo, né, sul punto, la motivazione
della Corte territoriale può dirsi solo apparente.

Invero, sicuramente non si versa in ipotesi di
omessa pronunzia né, tantomeno, di motivazione apparente là dove si consideri
che il giudice di secondo grado, motivando sulla propria competenza a delibare
circa la domanda formulata dai ricorrenti in riassunzione, ha richiamato la
giurisprudenza di questa Corte (fra le altre, Cass. n. 19308 del 29709/2016),
secondo la quale, in caso di fallimento della società datrice, compete al
giudice del lavoro la cognizione non soltanto sulle domande del lavoratore di
impugnazione del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di
lavoro, in quanto dirette ad ottenere una pronunzia costitutiva, ma anche su
quella di condanna generica al risarcimento dei danni, non comportando tale
pronunzia alcun accertamento aggiuntivo circa il “quantum” dei
risarcimento, né imponendo lo scorporo della domanda per la preventiva verifica
in sede di accertamento dello stato passivo innanzi ai competenti organi della
procedura fallimentare a tutela degli altri creditori, dovendosi ritenere, sul
piano della ratio legis, l’inutilità di una simile verifica, idonea ad
appesantire ingiustificatamente la durata del processo.

La Corte ha poi aggiunto che la propria competenza a
decidere è stata espressamente stabilita dalla Corte di cassazione con la
sentenza di rinvio, talché non avrebbe potuto essere modificata; la motivazione
della Corte d’appello è diffusa ed articolata sul punto.

1.5. Esclusa la ipotizzabilità di motivazione
apparente ovvero di un difetto di pronuncia, va rilevato come non possano che
essere reputate infondate le censure di parte ricorrente con riguardo
all’omessa presentazione di istanza di ammissione al passivo da parte dei
controricorrenti, alla luce della mentovata giurisprudenza di legittimità.

Può, conclusivamente, affermarsi, al riguardo, che
non v’è dubbio che la domanda di ammissione al passivo rappresenti un atto del
creditore indefettibile per la sua partecipazione al concorso, nondimeno, ciò
non gli preclude la possibilità di ottenere l’accertamento del proprio credito
dinanzi al giudice del lavoro.

2.1. Con il quarto motivo si deduce la nullità della
sentenza per violazione degli artt.
42, 43, 44, 52 e 56 della legge fallimentare
ovvero violazione della medesima normativa ai sensi dell’art. 360 comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per
l’inopponibilità della sentenza rescindente alla Curatela essendo stata la
stessa emessa nei confronti del fallito dopo la dichiarazione di fallimento.

La censura è infondata e, pertanto, non può trovare
accoglimento.

Al riguardo va rilevato che l’intervenuta modifica
dell’art. 43 I. fall. per
effetto dell’art. 41 del d.lgs. n.
5 del 2006, nella parte in cui stabilisce che “l’apertura del fallimento
determina l’interruzione del processo”, non comporta l’interruzione del
giudizio di legittimità, posto che in quest’ultimo, in quanto dominato
dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di
interruzione del processo previste in via generale dalla legge (Cass. n. 27143
del 15/11/2017).

Il processo di cassazione, infatti, caratterizzato
dall’impulso d’ufficio, non è soggetto ad interruzione in presenza degli eventi
previsti dagli artt. 299 e seguenti cod. proc. civ.,
ivi compresa la dichiarazione di fallimento di una delle parti, poiché tali
norme si riferiscono esclusivamente al giudizio di merito e non sono
suscettibili di applicazione analogica a quello di legittimità.

Come correttamente evidenziato dal giudice di
secondo grado, d’altro canto, l’impossibilità di applicare, in via analogica,
l’istituto della interruzione per uno degli eventi di cui all’art. 299 cod. proc. civ., vale a maggior ragione
ove detti eventi si riferiscano alla parte, considerato che quello per
cassazione è un giudizio “ab initio” fra difensori, volto
esclusivamente alla soluzione di questioni giuridiche cui solo il difensore può
dare un suo contributo (sul punto, Cass. n. 20004 del 14/10/2005; Cass. n.
19500 del 12/09/2006, Cass. n. 195 del 09/01/2007).

Sul punto, la Corte Costituzionale (sent. n.
109/05), con riferimento ad un procedimento in cui era deceduto il difensore,
pur prendendo atto della presenza di un problema di costituzionalità sul
rilievo che non erano idonei a giustificare l’esclusione dell’interruzione né
il carattere officioso del giudizio di Cassazione né la tesi con cui si
vorrebbe attribuire scarso valore alla discussione orale in udienza – ha
dichiarato inammissibile la questione, sostenendo che esso implicava la
soluzione di delicate questioni in ordine ai meccanismi di riattivazione del
giudizio che solo il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità,
avrebbe potuto definire (Cass., n. 20004 del 14.10.2005 cit.).

3. Con il sesto motivo si allega la violazione dell’art. 434 cod. proc. civ. denunziandosi che l’atto
d’appello avrebbe contenuto esclusivamente la pedissequa ripetizione degli atti
dei precedenti gradi di giudizio.

Premesso che attiene alla violazione di legge la
deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato,
della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando
necessariamente una attività interpretativa della stessa, va rilevato che la
Corte d’appello, a fronte della censura della attuale ricorrente, ha
correttamente escluso che potesse ipotizzarsi qualsivoglia violazione delle
prescrizioni inerenti al ricorso di cui all’art.
434 cod. proc. civ., ed ha, quindi motivato circa il rispetto del requisito
di specificità, considerato che i lavoratori avevano richiamato tutte le
proprie precedenti difese, il contenuto della sentenza di rinvio, e riproposto
le proprie originarie domande.

4. Con il settimo motivo si denunzia la nullità
della sentenza per violazione dell’art. 112 cod.
proc. civ., in relazione all’art. 18 L. n. 300 del 1970 in
combinato disposto con gli artt. 1223 e 1227 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ. con
riguardo alla dedotta mancata pronunzia circa l’aliunde perceptum o all’aliunde
percipiendum.

La censura, difettando dei requisiti di cui all’art. 366 comma 1 n. 6 cod. proc. civ. è
inammissibile.

4.1. Hanno precisato, al riguardo, le Sezioni Unite
di questa Corte (Cass. n. 34469 del 27/12/2019), non solo che sono
inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma
1, n. 6, c. p. c., le censure afferenti a domande di cui non vi sia
compiuta riproduzione nel ricorso, ma anche quelle fondate su atti e documenti
del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e
documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza
fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con
riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla
documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di
renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel
fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione
in sede di giudizio di legittimità.

D’altra parte, è consolidato il principio secondo
cui i requisiti di contenuto forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c. p. c., nn. 3, 4 e 6, devono
essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da
altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il
ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata
indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato,
producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si
dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e
in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o
riassumendone il contenuto nel ricorso (ex plurimis, Cass. n. 29093 del
13/11/2018).

Nel caso di specie, appare evidente dalla piana
lettura del motivo di ricorso come non solo non appaia riportata l’eccezione
che si assume avanzata in secondo grado, ma, inoltre, non ne sia nemmeno
indicata la collocazione, talché è inibito a questa Corte verificare se la
stessa fosse stata correttamente e tempestivamente proposta in sede di merito.

5. Con l’ottavo motivo si censura la decisione
impugnata per violazione del limite del devolutum di cui al combinato disposto
degli artt. 384, comma 2, e 394 cod. proc. civ., con il nono motivo si allega
la nullità della sentenza per violazione dell’art.
132 cod. proc. civ. in relazione all’art. 111
Cost., con il decimo e l’undicesimo motivo si deduce la violazione dell’art. n. 4 L. n. 223/1991 in relazione rispettivamente
agli artt. 156, comma III, cod. proc. civ., 1367, 1419, 1424 cod. civ. 2697 cod.
civ., nonché l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione fra le
parti, con riguardo ai criteri di scelta.

5.1. I quattro motivi, da esaminarsi congiuntamente
per l’intima connessione, sono infondati.

Va preliminarmente richiamato quanto già osservato
al punto 1.3. circa la nuova formulazione dell’art.
360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 co 1, lett. b), del DL 22
giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la
impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di
motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la
conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di
legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del
requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale”
richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost.

Giova, poi, evidenziare come la Corte territoriale
abbia effettivamente deciso nei limiti del devolutum sulla base delle censure
rivolte alla procedura di licenziamento collettivo avanzate dai tre lavoratori
ed entro il perimetro tracciato dalla Corte di cassazione.

Essa ha infatti escluso che si fosse verificata una
risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, sulla base dei fatti successivi
all’accordo del 15/03/2005 – con cui i lavoratori avevano accettato l’offerta
di assunzione da parte della società S.E. – atteso che, in dispregio di tale
accordo, con successivo verbale negoziale del 28/11/2005, era stata stabilita
la loro collocazione in C.I.G.S. per 24 mesi con soli sei mesi di effettivo
lavoro: a tale accordo i ricorrenti avevano reagito mediante l’invio di atti
formali di messa in mora ad entrambe le società.

Quanto alla legittimità del recesso, che è stato
ritenuto tempestivamente impugnato, la Corte ha rilevato la sussistenza di una
vera e propria omissione dei criteri per l’individuazione dei lavoratori da
licenziare, non essendosi provveduto, altresì, all’invio delle prescritte
comunicazioni non solo alla organizzazione sindacale UGL ma anche alla DPL.

5.2. Il giudice di secondo grado ha correttamente
richiamato, al riguardo, la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte,
secondo cui, nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 luglio 1991 n. 223, finalizzata alla
tutela, oltre che degli interessi pubblici e collettivi, soprattutto degli
interessi dei singoli lavoratori coinvolti nella procedura, la sanzione
dell’inefficacia del licenziamento, ai sensi dell’art. 5, terzo comma, ricorre
anche in caso di violazione della norma di cui al nono comma dell’art. 4, che impone al datore
di lavoro di dare comunicazione, ai competenti uffici del lavoro e alle
organizzazioni sindacali, delle specifiche modalità di applicazione dei criteri
di scelta dei lavoratori da licenziare; tale inefficacia può essere fatta
valere da ciascun lavoratore interessato nel termine di decadenza di sessanta giorni
previsto dal citato art. 5,
mentre al relativo vizio procedurale può essere dato rimedio mediante il
compimento dell’atto mancante o la rinnovazione dell’atto viziato (Cfr., SU 11/05/2000, n. 302 e SU
13/06/2000, n. 419).

Come noto, non essendo prescritta alcuna
comunicazione dei motivi del recesso al singolo lavoratore, essendo richiesto
esclusivamente l’atto scritto, soltanto attraverso le comunicazioni di cui all’art. 4 comma 9 è reso
possibile all’interessato conoscere, in via indiretta, le ragioni della propria
collocazione in mobilità; afferma questa Corte, infatti, che la comunicazione
che l’impresa che intende avviare la procedura di mobilità e quindi di
licenziamento collettivo è tenuta a dare all’ufficio regionale del lavoro ai
sensi dell’art. 5 della legge
23 luglio 1991 n. 223 non può considerarsi mero adempimento formale ed
accessorio, ma elemento essenziale della procedura, come si evince dall’art. 4 della citata legge
(cfr., sul punto, Cass. n. 11258 del 28/08/2000).

Non v’è dubbio che la motivazione della Corte
d’appello sul punto si atteggi in modo particolarmente sintetico; nondimeno,
essa consta di quanto appare necessario a comprendere che, in violazione del
combinato disposto degli artt.
5 comma quinto e 4 comma
nono della legge n. 223 del 1991, il datore di lavoro ha omesso di indicare
i criteri per l’individuazione dei lavoratori da licenziare, nonché le modalità
attuative di tali criteri, non provvedendo, altresì, non solo alla
comunicazione degli stessi alla UGL, ma anche al competente ufficio
territoriale per il lavoro e nulla è stato allegato in contrario dalla difesa
della attuale ricorrente.

6. A fronte di tale omissione datoriale, la
motivazione resiste anche là dove si ritenga correttamente non dovuta la
comunicazione alla UGL per non essere la stessa presente in azienda, alla luce
del disposto di cui all’art. 4,
comma 2 (richiamato dalla comma 9) che prescrive che la comunicazione debba
essere inviata alle rappresentanze sindacali aziendali, nonché alle rispettive
associazioni di categoria.

L’omissione della indicazione dei criteri di scelta
e della comunicazione al competente ufficio territoriale del lavoro inficia,
comunque, la legittima produttività di effetti dell’atto.

7. Il terzo motivo, con cui si allega la violazione
dell’art. 18 L. n. 300 del
1970, sulla cui base avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile la
richiesta di emissione dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro per
effetto della integrale cessazione dell’attività aziendale del datore di lavoro
è fondato e, pertanto, deve essere accolto.

Questa Corte ha più volte affermato (da ultimo, Cass. 28/01/2020, n. 1888, V. anche Cass. n. 28703 del 2011), che la reintegra è un
effetto della pronuncia emessa ex art. 18 I. n. 300 del 1970,
estranea all’esercizio di diritti potestativi del datore di lavoro, che quindi
in ogni momento può dedurne la totale o parziale inapplicabilità al caso
oggetto di lite.

La tutela reale del posto di lavoro non può
spingersi fino ad escludere la possibile incidenza di successive vicende
determinanti l’estinzione del vincolo obbligatorio.

Va compresa tra queste ultime la sopravvenuta
materiale impossibilità totale e definitiva di adempiere l’obbligazione, non
imputabile a norma dell’art. 1256 cod. civ.,
che è ravvisabile nella sopraggiunta cessazione totale dell’attività aziendale,
da accertare, caso per caso, per es. anche ove l’imprenditore sia stato ammesso
alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori (sul
punto, Cass. n. 7267 del 1998).

71. La definitiva cessazione dell’attività
aziendale, nel senso della disgregazione del relativo patrimonio, rende
impossibile il substrato della prestazione lavorativa, legittimando – secondo
la disciplina degli artt. 1463 e 1256 cod. civ., da coordinare con quella specifica
dei licenziamenti individuali (in particolare con la legge
n. 604 del 1966) – il recesso del datore di lavoro per giustificato motivo
oggettivo: ne consegue che la sussistenza di tale cessazione vada accertata
caso per caso.

Pertanto, qualora nelle more del giudizio promosso
dal lavoratore per la declaratoria della illegittimità di un licenziamento
precedentemente intimato, sopravvenga un mutamento della situazione
organizzativa e patrimoniale dell’azienda tale da non consentire la prosecuzione
di una sua utile attività, il giudice che accerti l’illegittimità del
licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di
lavoro ma deve limitarsi ad accogliere la domanda di risarcimento del danno,
con riguardo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della
sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto.

La sopraggiunta impossibilità totale della
prestazione si estrinseca, infatti, in una vera e propria causa impeditiva
dell’ordine di reintegrazione e della tutela ripristinatoria apprestata dall’art.18 della L. 20 maggio 1970 n.
300 precludendo al lavoratore illegittimamente licenziato la possibilità di
ottenere il soddisfacimento del suo diritto alla continuazione del rapporto
(Così, Cass. n. 1888 del 2020 cit., nonché,
Cass. sent. n. 12245 del 1991; n. 12249 del 1991; n.
1815 del 1993; n. 7189 del 1996).

Questa Corte ha affermato, d’altro canto, (cfr. Cass. n. 16136 del 2018 e Cass. n. 2983 del 2011) che la reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro può essere disposta anche nei confronti di
società poste in liquidazione, ma solo se l’attività sociale non sia
definitivamente cessata e non vi sia stato l’azzeramento effettivo
dell’organico del personale. Tale presupposto, tendenzialmente insussistente in
presenza di un intervenuto fallimento, può, tuttavia, verificarsi là dove sia
stato previsto un esercizio provvisorio dell’attività. Deve, pertanto,
escludersi che, stabilito l’assoggettamento della fattispecie al regime di
tutela reale, sia irrilevante, ai fini dell’emissione di un ordine di
reintegra, il venir meno dell’attività produttiva, quale fatto sopravvenuto in
corso di giudizio e idoneo, qualora venga provato, a costituire ipotesi di
impossibilità sopravvenuta della prestazione e art.
1463 cod. civ..

L’accertamento in questione non è stato effettuato
nella specie, nella quale la Corte di appello ha del tutto pretermesso tale
profilo nel proprio iter motivazionale, non avendo proceduto ad esaminare la
conseguibilità in fatto della reintegra nel posto di lavoro ed occorrendo, invece,
all’uopo verificare, alla stregua degli elementi probatori addotti, se
l’attività aziendale fosse o meno completamente cessata con azzeramento
dell’organico aziendale, secondo quanto come allegato dalla società oggi
ricorrente.

8. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il
terzo motivo di ricorso deve essere accolto, dichiarato inammissibile il
settimo motivo, rigettati gli altri.

La sentenza va cassata in relazione al motivo
accolto e la causa rinviata alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione,
anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il terzo motivo di ricorso, inammissibile
il settimo, rigettati gli altri.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa
composizione, anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di
legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2021, n. 7363
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