Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 marzo 2021, n. 7407

Società tra avvocati, Compensi, Applicazione ritenuta
d’acconto, Legittimità

 

Fatti di causa

 

1. Lo Studio Legale M.S. & Partners S.t.p.r.l.
(d’ora in poi, “studio legale”) ricorre, sulla base di un unico
motivo, per la cassazione della sentenza n. 832/18, dell’11 giugno 2018, del
Tribunale di Locri, che – respingendo il gravame da esso esperito avverso la
sentenza n. 124/17, del 18 febbraio 2017, dei Giudice di pace di Locri – ha confermato
l’accoglimento dell’opposizione ex art. 645 cod.
proc. civ., proposta dalla società C.I. Assicurazioni S.p.a. (d’ora in poi,
“C.I.”) avverso il provvedimento monitorio che le ingiungeva il
pagamento, in favore dello studio legale, dell’importo di € 508,90, dalla prima
trattenuto a titolo di ritenuta d’acconto sulla maggior somma di € 3.626,97,
corrisposta all’odierno ricorrente a titolo di onorario per la composizione
bonaria di una controversia, pendente innanzi ad altra autorità giudiziaria.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di
aver richiesto ed  ottenuto il
summenzionato decreto ingiuntivo sul presupposto che la società C.I. avesse
indebitamente operato la ritenuta d’acconto, non applicabile nel caso di specie,
come chiarito dall’Agenzia delle Entrate con circolari dell’8 maggio e 16
ottobre 2014, essendo lo studio legale costituito nella forma della società di
capitali e, dunque, dovendo considerarsi, per “attrazione”, quale
reddito di impresa la somma dovutagli come onorario per l’avvenuta transazione.

Proposta, come detto, opposizione al decreto
ingiuntivo dalla società C.I., lo stesso veniva accolto dal primo giudice, con
decisione confermata da quello di appello, che rigettava il gravame esperito
dall’odierno ricorrente, sul rilievo che al reddito prodotto dallo studio
legale, ancorché lo stesso fosse costituito in forma societaria, si applichi la
disciplina di cui all’art. 5, comma
3, lett. c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante “Testo Unico
delle Imposte sui Redditi”.

3. Avverso la sentenza del Tribunale locrese ricorre
per cassazione lo studio legale, sulla base – come detto – di un unico motivo.

3.1. Esso – proposto a norma dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. –
denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 5, comma 3, 6, comma 53, 73 e 81 del suddetto d.P.R. 22 dicembre
1986, n. 917 (cd. “TUIR”), nonché dell’art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n.
600.

Assume il ricorrente che la sentenza impugnata
sarebbe incorsa in un vizio di sussunzione, che si profilerebbe “in
relazione a due aspetti fondamentali”.

La decisione, infatti, è censurata innanzitutto
nella parte in cui afferma che i redditi prodotti dalle s.r.l. tra
professionisti rientrano, al pari di quanto previsto per le associazioni di cui
all’art. 5, comma 3, lett. c),
del TUIR, tra quelli di lavoro autonomo, ai sensi del successivo art. 53, comma 1, del medesimo
testo unico. La censura investe la sentenza, in particolare, nella parte in cui
afferma che il lavoro autonomo si caratterizza per l’assenza di subordinazione,
per la professionalità, l’abitualità e la non imprenditorialità, nel senso che
“prevale l’aspetto personale rispetto al capitale”, di talché, nella
specie, “la sola costituzione in forma societaria non dimostra il
requisito della imprenditorialità”, non essendo stata fornita la prova
“del capitale investito e della attività in concreto esercitata per
l’appunto in forma societaria – .

Errato sarebbe, poi, il riferimento all’art. 28 (in realtà, 27) del disegno
di legge “Semplificazioni fiscali in materia societaria”, secondo cui
alle società tra professionisti costituite per l’esercizio di attività
professionali si applica il regime fiscale delle associazioni  senza personalità giuridica, e ciò in quanto
– sottolinea il ricorrente – il suddetto disegno di legge venne stralciato dal
Parlamento, sicché la presente decisione si fonda su una norma inesistente.

Il Tribunale di Locri, inoltre, non ha considerato
la disciplina generale degli artt.
73 e 81 del TUIR, dal momento che il secondo di tali articoli prevede che
“i! reddito complessivo delle società degli enti commerciali di cui alle
lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo
73, da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito di impresa”,
mentre l’art. 73, a propria
volta, prescrive essere soggetti all’imposta sul reddito delle società “le
società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità
limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le
società europee di cui ai regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società
cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel
territorio dello Stato”.

Quanto, poi, all’attuale disciplina in materia di
società tra professionisti, essa è recata dall’art. 10 della legge 12 novembre
2011, n. 183, dal regolamento di attuazione emanato con decreto del Ministro della giustizia dell’8 febbraio
2013, n. 34, normativa che consente di costituire società, anche di
capitale, tra professionisti, per l’esercizio di attività professionali
regolamentate in un sistema ordinistico.

Per completezza, poi, il ricorrente segnala la nota
del 19 dicembre 2017, n. 43619, della Direzione della legislazione tributaria e
federalismo fiscale del Dipartimento delle Finanze, secondo cui la società a
responsabilità limitata, costituita per lo svolgimento di attività forense,
deve adottare il regime fiscale previsto per la società di capitali e deve
assoggettare il proprio reddito ad IRES e il valore della produzione ad IRAP,
giacché, in assenza di un’esplicita norma, “l’esercizio della professione
forense svolta in forma societaria costituisce attività di impresa, in quanto
risulta determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria,
piuttosto che lo svolgimento di un’attività professionale”. Di analogo
tenore è anche la risoluzione n. 35 del 7 maggio
2018 dell’Agenzia delle Entrate Errata, dunque, sarebbe stata la scelta del
Tribunale di non tenere conto di tali circolari, motivata con loro natura dì
atti interni, dal momento che con la disapplicazione delle stesse esso ha
finito col porsi contro il dato normativo.

Quanto, poi, al secondo profilo, il ricorrente
denuncia la mancata applicazione dell’art.
25 del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo cui la ritenuta d’acconto non deve
essere operata “per prestazioni effettuate nell’esercizio di
imprese”.

4. Ha resistito la società C. I., con controricorso,
all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità,
ovvero, in subordine, di infondatezza.

Quanto all’inammissibilità, essa è dedotta sul
rilievo che, nella specie, più che un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di
legge, sarebbe stata dedotta l’allegazione di un’erronea ricognizione della
fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, non idonea ad integrare
il cd. “vizio di sussunzione”. In relazione, invece, al merito della
censura, la controricorrente ritiene non condivisibile l’affermazione secondo
cui l’ordinamento farebbe discendere, automaticamente, l’inquadramento del
reddito come di impresa dalla semplice circostanza che sia stato prodotto in
forma societaria. Sul punto, osserva, infatti, come le società tra avvocati,
costituite ai sensi del d.lgs. 2 febbraio 2011, n.
96, malgrado la forma societaria non siano per ciò solo annoverabili tra le
società commerciali, come anche precisato dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione del 31 marzo 2008, n. 118/E, dalla
quale emerge, piuttosto, l’esigenza di valorizzare la prestazione professionale
dei soci, sottolineandosi, inoltre, come il rinvio alle disposizioni che
regolano il modello societario operi solo a fini civilistici, mentre a fini
fiscali, per ragioni di coerenza del sistema impositivo, occorre dare risalto
al reale contenuto professionale dell’attività svolta. D’altra parte, a
sostegno della natura non imprenditoriale delle società tra professionisti,
rileva anche la ritenuta non assoggettabilità delle stesse al fallimento.

5. Entrambe le parti hanno presentato memoria, ex art. 378 cod. proc. civ., insistendo nelle proprie
argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

 

Ragioni della decisione

 

6. Il ricorso va rigettato, per le ragioni di
seguito precisate.

6.1. Nell’affrontare la questione oggetto dell’unico
motivo di ricorso, occorre muovere da una duplice premessa.

Per un verso, infatti, va sottolineato come
l’assenza di una espressa previsione normativa, che qualifichi la natura, ai
fini fiscali, del reddito prodotto dalle società tra professionisti renda
necessaria un’attività ermeneutica che, tuttavia, conduce ad esiti
diametralmente opposti, a seconda che si scelga di privilegiare il presupposto
soggettivo (vale a dire, la natura del soggetto che produce il reddito), ovvero
quello oggettivo, che ha riguardo, invece, ai caratteri dell’attività svolta da
tali società.

Per altro verso, poi, deve sottolinearsi quello che
è stato definito, in dottrina, come “un affastellarsi disordinato e
contraddittorio di risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate”, e ciò proprio
in ragione di questa “alternatività” di Angoli visuali dai quali
affrontare la questione, sicché le posizioni “(quantomeno) ondivaghe”
assunte – almeno inizialmente – dall’Amministrazione finanziaria, non hanno
certo favorito lo scioglimento dei dubbi interpretativi.

Di qui, allora, la necessità – come si dirà più
avanti – di una soluzione ermeneutica che, sulla scorta dei rilievi svolti
dalla già indicata dottrina, superi lo stallo “determinato dall’inazione
dei nostro legislatore”, ravvisando la soluzione nelle norme civilistiche,
ed in particolare nell’art. 2238 cod. civ.

6.2. Per addivenire a tale esito, tuttavia, occorre
procedere per ordine.

6.2.1. Come sopra premesso, la “dualità”
di soluzioni ipotizzabili in relazione alla questione in esame dipende dal
punto di vista da cui si muova.

Invero, in un’ottica puramente
“soggettiva”, siccome le società tra professionisti possono essere
costituite secondo i modelli regolati dai Titoli V e VI del Libro V del codice
civile, dunque, anche nella forma delle società commerciali, il loro reddito,
ai fini delle imposte relative, dovrebbe essere qualificato come di impresa.

Invero, ai fini fiscali, le società in nome
collettivo e in accomandita semplice (art.
6, comma 3, del Testo Unico delle imposte sui redditi – di seguito,
“TUIR” – approvato con d.P.R. 22 dicembre
1986, n.917) generano redditi di impresa a prescindere dalla fonte
reddituale e dall’oggetto sociale, così come il reddito complessivo delle
società e degli enti commerciali di cui alle lett. a) e b) del comma 1 dell’art. 73 del TUIR è sempre
considerato reddito di impresa (art.
81, comma 1, del medesimo Testo Unico) e determinato secondo le rispettive
disposizioni.

Tuttavia, sul piano oggettivo, il medesimo reddito
andrebbe più correttamente qualificato come da lavoro autonomo. Infatti, ai
sensi dell’art. 10, comma 3,
della legge 12 novembre 2011, n. 183, le società tra professionisti sono
espressamente costituite per l’esercizio di attività professionali
regolamentate all’interno del sistema ordinistico. Inoltre, la qualifica di
società tra professionisti può essere assunta unicamente da quelle il cui atto
costitutivo preveda l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da
parte dei soci. Tale attività, ai sensi di quanto disposto dall’art. 53 del TUIR, genera, però,
redditi di lavoro autonomo.

 La discrasia
tra natura commerciale del tipo societario eventualmente utilizzato e la natura
eminentemente professionale dell’attività svolta – discrasia che, peraltro, era
ignota ai codice civile del 1865, nel quale, infatti, era presente una Sezione
II, intitolata “Delle società particolari”, che all’art. 1706 legittimava espressamente l’esercizio in
forma societaria della professione intellettuale – determina una situazione
antinomica, che non ha trovato soluzione a livello normativo, anche in ragione
della coesistenza di norme, persino all’interno di una stessa fonte legislativa
(è il caso degli artt. 53, da un
lato, e 73 e 81, dall’altro, del TUIR), che
legittimano interpretazioni diverse.

6.2.2. Non è quindi un caso se analoghe
incertezze  interpretative si siano
manifestate anche sul piano delle prassi applicative dell’amministrazione
finanziaria.

Invero, l’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione 28 maggio 2003, n. 118/E, non sembrava
nutrire dubbi sul fatto che, per le società tra avvocati di cui agli articoli 16 e ss. del d.lgs. 2
febbraio 2001, n. 96 (le quali, ove non diversamente disposto, sono
disciplinate dalle norme che regolano la società in nome collettivo), il
reddito prodotto dovesse intendersi come reddito di lavoro autonomo.

La citata risoluzione traeva spunto dalla relazione
governativa al decreto legislativo “de quo”, la quale, dopo aver
sottolineato in più occasioni il carattere professionale della società,
afferma, altresì, che il richiamo alle norme sulla società in nome
collettivo  “non implica la
qualificazione della società tra avvocati come società commerciale” e che
l’esclusione della società in oggetto dal fallimento “conferma la
specificità del tipo e la natura non commerciale dell’attività svolta”.
Impostazione che si indicava come coerente con le disposizioni dell’art. 2238 cod. civ., il quale nega, anche se in
modo indiretto, la natura commerciale delle attività dei professionisti
intellettuali e degli artisti.

Sul punto si è, peraltro, osservato che lo
“strumento societario non può comunque vanificare i requisiti della
personalità e della professionalità del soggetto esercente”, volendosi
esprimere, con tale affermazione, che l’attività di assistenza legale svolta
nella forma societaria mantiene lo stesso contenuto che ne caratterizza
l’esercizio in forma individuale. Il rinvio alle disposizioni in materia di
società in nome collettivo opererebbe, pertanto, secondo la citata risoluzione,
ai soli fini civilistici, in quanto consente di determinare le regole di
funzionamento del modello organizzativo, mentre ai fini fiscali, per ragioni di
coerenza del sistema impositivo, occorrerebbe dare risalto al reale contenuto
professionale dell’attività svolta.

In base a queste considerazioni, la risoluzione n. 118/E del 2003 ha concluso che i
redditi prodotti dalla società tra avvocati costituiscono redditi di lavoro
autonomo, ai quali si applica la disciplina dettata per le associazioni senza
personalità giuridica, costituite tra persone fisiche per l’esercizio, in forma
comune, di arti e professioni, di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del TUIR.

Di diverso avviso, però, l’Agenzia delle Entrate si
è mostrata per le società di ingegneria, visto che la risoluzione 4 maggio 2006, n. 56/E, dopo aver
ribadito che dette società si costituiscono in forma di società di capitali e
hanno come oggetto sociale l’esecuzione di studi di fattibilità, ricerche,
consulenze, progettazioni o direzioni dei lavori, valutazioni di congruità
tecnicoeconomica o studi di impatto ambientale, ha affermato che nella
qualificazione del reddito prodotto da dette società non assume alcuna
rilevanza il presupposto oggettivo, essendo viceversa determinante il solo
presupposto soggettivo. È stato, pertanto, ritenuto che la natura del reddito
prodotto da dette società, sulla base del richiamato art. 81 del TUIR, rientri nella
categoria del reddito di impresa per il solo fatto di essere realizzato da un
soggetto costituito sotto forma di società di capitali.

Provando a trasporre siffatte conclusioni alle
società tra professionisti, va osservato che le due fattispecie non sono
perfettamente sovrapponibili. Infatti, sebbene entrambe svolgano un’attività
professionale, nella società tra professionisti detta attività deve essere
svolta in via esclusiva. Inoltre, esse possono essere costituite non solo come
società di capitali ma anche sotto forma di società di persone, risultando,
infine, soggette al regime disciplinare dell’ordine al quale risultano
iscritte. La presenza di queste caratteristiche peculiari non consente, dunque,
di estendere in via immediata alle società fra professionisti le conclusioni
raggiunte dalla prassi amministrativa con riferimento alle società di
ingegneria.

Nondimeno, l’Agenzia delle Entrate, rispondendo ad
un interpello relativo proprio ad una società tra professionisti operante nelle
forme di una società a responsabilità limitata (si trattava, per l’esattezza,
dì una società costituita per svolgere le attività di dottore commercialista,
esperto contabile, revisore legale e consulente del lavoro), si è pronunciata,
l’8 maggio 2014, ribadendo che, ai fini dell’individuazione del regime fiscale,
occorre dare rilevanza alla veste giuridica societaria con la quale il soggetto
agisce, mentre non verrebbe in considerazione l’esercizio dell’attività
professionale. Peraltro, il quesito era finalizzato ad ottenere chiarimenti in
merito alla tipologia del reddito prodotto, alla sua determinazione nell’ambito
dell’imposizione diretta e dell’IRAP, nonché all’eventuale assoggettamento dei
compensi a ritenuta di acconto e del reddito a contribuzione previdenziale.
Successivamente, su sollecitazione dello stesso Ordine dei dottori Commercialisti
e degli esperti Contabili, l’Agenzia delle Entrate, con parere reso il 18
ottobre 2014, ha ribadito tale tesi, riaffermando che “dette società
professionali non costituiscono un genere autonomo con causa propria ma
appartengono alle società tipiche disciplinate dai Titoli V e VI del Libro V
del codice civile e, pertanto, sono soggette integralmente alla disciplina
legale del modello societario prescelto, salve le deroghe e le integrazioni
previste dalla disciplina speciale contenuta nella legge
n. 183 del 2011 e dal regolamento attuativo” e che “non assume
alcuna rilevanza l’esercizio dell’attività professionale, risultando a tal fine
determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria”.

Orbene, siffatta qualificazione del reddito delle
società tra professionisti come reddito di impresa, è stata successivamente
ribadita dall’Agenzia delle Entrate anche con riferimento alle società tra
avvocati costituite ai sensi della legge 31
dicembre 2012, n. 247, come modificata dalla legge
4 agosto 2017, n. 124, che consente l’esercizio della professione forense
in forma societaria a società di persone, di capitali o cooperative iscritte in
apposita sezione dell’albo tenuto dall’ordine territoriale di riferimento.

Per tali società, la risoluzione
7 maggio 2018, n. 35/E ha, difatti, precisato che risulta prevalente la
veste giuridica assunta secondo le forme tipiche del codice civile, piuttosto
che lo svolgimento di un’attività professionale, con conseguente
riconducibilità del reddito prodotto nella categoria dei redditi di impresa. La
diversa soluzione adottata nella risoluzione n. 118
del 2003 per le società tra avvocati di cui al D.Igs.
n. 96 del 2001 rimarrebbe, però, valida, ad avviso dell’Agenzia,
considerata l’autonoma disciplina dì queste ultime società.

L’interpretazione espressa nella risoluzione n. 35/E del 2018 era già stata
adottata dalla Direzione legislazione tributaria e federalismo fiscale del
Dipartimento delle finanze che, a seguito di una richiesta di parere della
stessa Agenzia, aveva fornito risposta, con nota del 19 dicembre 2017, n.
43619, in cui si evidenziava che per tali società, in mancanza di deroghe
normative espresse, “sembra difficile valorizzare l’elemento oggettivo
della professione forense esercitata a discapito dell’elemento soggettivo dello
schermo societario”.

6.2.3. Ciò premesso, poiché il ricorrente, nel
lamentare il dedotto vizio di sussunzione, censura anche il richiamo operato
dalla sentenza impugnata ad una norma indicata, correttamente, come inesistente
(nella specie, un articolo di un disegno di legge mai approvato), reputa questa
Corte utile svolgere alcune considerazioni proprio su tale d.d.I., recante
“misure di  semplificazione degli
adempimenti per í cittadini e le imprese e di riordino normativo”,
presentato al Senato il 23 luglio 2013 (A.S. 958), il quale aveva tentato di
introdurre una specifica disciplina sul punto.

In particolare, l’art. 27, comma 4, del citato
disegno di legge prevedeva che “alle società costituite ai sensi dell’articolo 10 della legge 12 novembre
2011, n. 183, indipendentemente dalla forma giuridica”, si applicasse,
“anche ai finì dell’imposta regionale sulle attività produttive di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, il
regime fiscale delle associazioni senza personalità giuridica costituite tra
persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni di cui
all’articolo 5, comma 3, lettera
c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917”. Riconoscendo, dunque, alle società tra professionisti
il medesimo trattamento fiscale riservato alle associazioni professionali, il
reddito da queste prodotto veniva, pertanto, qualificato come reddito di lavoro
autonomo e attribuito per trasparenza ai soci; con l’unica eccezione di quei
soci non professionisti che, avendo assunto – per altro verso – la qualifica di
imprenditori, avessero considerato la partecipazione detenuta nella società tra
i beni relativi all’impresa esercitata. In quest’ultimo caso, l’utile
attribuito per trasparenza dalla società si sarebbe configurato, infatti, come
un provento che, rinvenendo da un bene relativo all’impresa, restava
irrimediabilmente attratto alla formazione del reddito di impresa, unitamente
agli altri componenti positivi e negativi afferenti ai beni e alle attività
relative all’impresa stessa.

Tale disciplina non ha, però, trovato codificazione
normativa, avendo il Governo successivamente rinunciato alla sua approvazione,
su richiesta formulata in sede di parere delle Commissioni parlamentari (si
tratta, esattamente, del parere rilasciato dalla Commissione Finanze della
Camera dei deputati, il 7 agosto 2014, sull’art. 11 del decreto
“Semplificazioni fiscali”), in quanto la medesima avrebbe reso
“estremamente difficile” la possibilità di adottare questa tipologia
di società. Secondo il citato  parere,
siffatto intervento non avrebbe costituito, infatti, una semplificazione per le
società tra professionisti costituite come società di capitali o società
cooperative, le quali avrebbero dovuto tenere una duplice contabilità e
redigere un doppio bilancio: uno civilistico, basato sul principio di
competenza economica, e uno fiscale, ispirato al criterio di cassa.

6.2.4. Da segnalare, infine, per completare questo
quadro sull’evoluzione conosciuta dalle prassi interpretative
dell’amministrazione finanziaria, due recenti risposte dell’Agenzia delle
Entrate ad altrettanti interpelli, sempre in ordine alla corretta
qualificazione del reddito prodotto dalle STP: la risposta
del 12 dicembre 2018, n. 107 e quella del 27
dicembre 2018, n. 128. Nella prima risposta, essa, richiamando
espressamente la soluzione interpretativa adottata per le società tra avvocati
con la risoluzione 7 maggio 2018, n. 35/E, ha
affermato che le società costituite nelle forme di società commerciali
producono un reddito che, ai sensi di quanto disposto dagli articoli 6, comma 3 e 81 del TUIR, va qualificato come
reddito d’impresa. L’Agenzia, tuttavia, ha precisato che “va da sé che per
le prestazioni effettuate dalla S.a.s. nell’esercizio d’impresa non deve essere
operata alcuna ritenuta sulla base di quanto disposto dall’articolo 25, comma 1, del d.P.R. n. 600
del 1973”.

Analoghe conclusioni sono state rassegnate nella risposta a interpello del 27 dicembre 2018, n. 128,
nella quale l’Agenzia ha ulteriormente specificato che “sul piano fiscale,
le società tra professionisti, costituite per l’esercizio di attività
professionali per le quali è prevista l’iscrizione in appositi albi o elenchi
regolamentati nel sistema ordinistico, producono reddito d’impresa in quanto
non costituiscono un genere autonomo, appartenendo alle società tipiche
disciplinate dal codice civile e, conseguentemente, sono soggette alla
disciplina legale del modello societario prescelto, salvo deroghe o integrazioni
espressamente previste”.

In sostanza, stando agli orientamenti della prassi
amministrativa, ai fini della qualificazione del reddito prodotto dalle società
tra professionisti, non assume alcuna rilevanza l’elemento oggettivo dello
svolgimento di un’attività professionale, risultando viceversa predominante
l’elemento soggettivo, cioè il fatto di operare in una veste giuridica
societaria tipica del codice civile. Di conseguenza, a dette società si
applicherebbero le previsioni di cui agli
articoli 6, comma 3, e 81 del
TUIR, per effetto delle quali il reddito delle società in nome collettivo e
in accomandita semplice, nonché delle società e degli enti commerciali di cui
alle lett. a) e b) del comma 1 dell’art.
73 del TUIR, è considerato reddito d’impresa da qualsiasi fonte provenga il
reddito dalle stesse prodotto.

6.3. Orbene, per quanto “le circolari
ministeriali in materia tributaria non costituiscano fonte di diritti ed
obblighi, non discendendo da esse alcun vincolo neanche per la stessa
Amministrazione finanziaria che le ha emanate” (cfr., “ex
multis”, Cass. Sez. 5, sent. 30 settembre
2009, n. 20819, Rv. 658996-02), le loro risultanze costituiscono un dato
che, in questa sede, non può essere ignorato, e con il quale confrontarsi.

Nondimeno, reputa questa Corte – secondo quanto si
accennava in premessa – che la risoluzione della questione in esame debba
ricercarsi, sulla scorta dell’impostazione dottrina sopra ricordata, prendendo
atto sia dell’esistenza di attività caratterizzate, contestualmente, “da
personalità della prestazione ed impersonalità della società”, sia della
“tendenza alla «commistione» di categorie da sempre considerate
distinte”. Con la conseguenza, quindi, che la qualificazione del reddito
di una società tra professionisti, come reddito di impresa, deve farsi
dipendere dalla concreta configurazione della società, ed in particolare dalla
presenza all’interno di essa (da accertarsi, dunque, caso per caso), di un
autonomo profilo organizzativo, rispetto al lavoro professionale, “capace
di spersonalizzare l’attività svolta” – come osservato in dottrina – e
“di fornire, come struttura a sé stante, quella stessa prestazione
professionale che connota l’attività personale tipica del professionista”.

6.3.1. Siffatta impostazione muove dalla premessa
secondo cui, in assenza di una previsione specifica nella disciplina di secondo
grado (quella fiscale), torna ad avere applicazione diretta quella civilistica
(ovvero, di primo grado), e ciò in quanto, ponendosi quella di cui al codice
civile come normativa generale, che normalmente “cede il passo alla
normativa fiscale «speciale» che disciplina un determinato aspetto
dell’istituto nell’ambito di una imposta, o di gruppo di imposte”, in
assenza di quest’ultima è la prima che ritorna ad essere direttamente
applicabile. In questa prospettiva, la norma chiave è costituita dall’art. 2238 cod. civ., la quale, se in linea
generale nega – ancorché in modo indiretto – la natura commerciale delle
attività dei professionisti intellettuali e degli artisti, stabilisce, nel
contempo, che a tali attività intellettuali e artistiche si applichino le
disposizioni dettate in relazione all’impresa commerciale, allorché le
prestazioni professionali costituiscono elemento di una attività organizzata in
forma  d’impresa. In sostanza, quando
l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata
in forma di impresa, ovvero quando prevalga il carattere dell’organizzazione
del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale, il
professionista – secondo questa impostazione dottrinaria, che questa Corte
reputa di fare propria – acquista la qualità di imprenditore ai sensi dell’art. 2082 cod. civ., con conseguente applicabilità
della relativa disciplina.

 In altri
termini, perché in una società tra professionisti possa aversi attività
imprenditoriale, occorre anche una attività diversa e ulteriore rispetto a
quella professionale, per cui il conferimento dell’apporto intellettuale si
configura solo come una delle componenti dell’organizzazione, e ciò in quanto
l’attività autonomamente organizzata non potrebbe identificarsi in quella
tipica svolta dal professionista intellettuale, connotata dal carattere della
personalità (art. 2232 cod. civ.),
presupponendo quel profilo di autonoma organizzazione di cui agli artt. 2082 e 2238 cod.
civ.

D’altra parte, proprio l’elemento della
organizzazione è il medesimo che consente di qualificare come produttivo di reddito
d’impresa la prestazione di servizi, visto che ai sensi dell’art. 2 del d.lgs.
15 dicembre 1997, n. 546, l’esigibilità dell’imposta regionale sulle attività
produttive presuppone l’esercizio abituale di un’attività “autonomamente
organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla
prestazione di servizi”.

6.3.2. Un riscontro di tali assunti è, del resto,
offerto dalla sentenza 21 maggio 2001, n. 156,
della Corte costituzionale.

Essa, nel ribadire che l’IRAP colpisce il valore
aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, ha anche affermato
che “mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di
impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo,
ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile
ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di
capitali o lavoro altrui”. Così confermando che, “in presenza di
svolgimento di attività professionale di lavoro autonomo”, ai fini della
qualificazione del reddito dalla stessa prodotto, “occorre verificare se
questa venga svolta in presenza o assenza di organizzazione”. Autonoma
verifica, viceversa, non necessaria per l’attività “tout court” di
impresa, visto che l’elemento dell’organizzazione ha carattere costitutivo
delle nozioni di imprenditore e di azienda, poiché l’art.
2082 cod. civ. definisce l’imprenditore come colui che esercita
professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o
dello scambio di beni o di servizi; mentre, l’art. 2555 cod. civ. definisce
l’azienda come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per
l’esercizio dell’impresa.

In conclusione, similmente a quanto accade ai fini
del riconoscimento della debenza dell’IRAP da parte dei liberi professionisti,
da escludersi “nel caso di una attività professionale che fosse svolta in
assenza di elementi di organizzazione”, risultando, in tal caso,
“mancante il presupposto stesso” della pretesa impositiva (così, tra
le prime, Cass. Sez. 5, sent. 2 aprile 2007, n. 8172, non massimata, in senso
analogo, tra le più recenti, Cass. Sez. 5, ord. 2
aprile 2020, n. 7652, Rv. 657537-01), anche ai fini dell’applicazione della
ritenuta di acconto alle società tra professionisti, la qualificazione come
reddito di impresa, del reddito dalle stesse prodotte, presuppone che le
prestazioni di lavoro autonomo costituiscano elemento di un’attività organizzata
in forma d’impresa, risultando, così, inserite in strutture che sono frutto
dell’impiego del capitale, ovvero che il lavoro del professionista ed il
capitale concorrano entrambi nella produzione del reddito, sicché quest’ultimo
non potrà ritenersi derivante dal – solo lavoro, ma dall’intera struttura
imprenditoriale.

6.4. Nondimeno, proprio alla stregua di tale
impostazione, deve pervenirsi al rigetto del ricorso, in difetto di
dimostrazione della sussistenza di un’attività diversa e ulteriore, nel caso in
esame, rispetto a quella professionale, che permetta di qualificare il reddito
della società, nelle cui forme è costituito lo studio professionale odierno
ricorrente, come reddito di impresa.

Il Tribunale di Locri, infatti, a prescindere da
ogni altra considerazione pure presente nella decisione adottata, è pervenuta
al rigetto del gravame, sul presupposto della impossibilità di qualificare il
reddito dello studio professionale come di impresa, “non essendo stata
fornita la prova da parte degli appellanti anche mediante la produzione dì
visure societarie, del capitale investito e dell’attività in concreto
esercitata per l’appunto in forma societaria e il suo estrinsecarsi
diversamente rispetto all’attività esercitata da una associazione tra
professionisti”.

Tanto basta, dunque, per ritenere che sia stato
compiuto – e con esito negativo – l’accertamento sopra indicato, ovvero se
l’esercizio della professione costituisca, o meno, elemento di un’attività
organizzata in forma di impresa, con prevalenza del carattere
dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di
lavoro intellettuale.

7. Le spese del presente giudizio di legittimità
vanno integralmente compensate tra le parti ai sensi dell’art. 92, comma 1, cod. proc. civ., nel testo
modificato dall’art. 13, comma 1,
del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni,
dalla legge 10 novembre 2014, n. 162 (ed
applicabile “ratione temporis” al presente giudizio, essendo stata
l’opposizione ex art. 645 cod. proc. civ.
proposta avverso decreto ingiuntivo emesso il 29 marzo 2016).

L’assenza, infatti, di precedenti specifici, nella
giurisprudenza di questa Corte, sulla questione oggetto del presente ricorso
integra l’ipotesi della “assoluta novità della questione trattata”,
idonea ad integrare giusto motivo di compensazione, ai sensi della norma sopra
richiamata.

8. A carico del ricorrente sussiste l’obbligo di
versare, se dovuto, l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai
sensi dell’art. 13, comma 1-quater,
del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le
parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti
per il versamento da parte del ricorrente, se dovuto,  dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello
stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 marzo 2021, n. 7407
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