Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2021, n. 7355
Trattamento pensionistico, Contribuzione maturata in qualità
di dirigente di aziende industriali, Retribuzione pensionabile, Calcolo
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 17
settembre 2014, confermava la statuizione di primo grado che aveva condannato
l’INPS a riliquidare la pensione, spettante all’attuale intimato, sulla base
della media pensionabile delle ultime 520 settimane di retribuzione antecedenti
la decorrenza della pensione, considerando tutto il periodo assicurato come se
fosse stato soggetto alla contribuzione dell’assicurazione generale
obbligatoria per i lavoratori dipendenti, anche in riferimento alla
contribuzione maturata in qualità di dirigente di aziende industriali.
2. La Corte, in particolare, riteneva che l’art. 42 della legge n. 289 del 2002,
sopprimendo l’INDPAI, e trasferendo le relative posizioni all’INPS, aveva
stabilito che il regime pensionistico dei dirigenti di aziende industriali
venisse uniformato a quello degli iscritti al Fondo pensioni per i lavoratori
dipendenti con effetto dal 10 gennaio 2003, e si applicasse soltanto ai
lavoratori che, alla data di soppressione dell’INPDAI, erano ancora assicurati
presso quest’ultimo e non anche a quelli che, come l’assicurato, erano nelle
more passati alla gestione INPS per avere mutato il proprio rapporto di lavoro;
conseguentemente, ha ritenuto che la retribuzione pensionabile andasse calcolata
con riferimento a quella maturata negli ultimi cinque e dieci anni, essendo la
disposizione dell’art. 42
dettata per salvaguardare le aspettative pensionistiche dei dirigenti.
3. Ricorre contro tale statuizione l’INPS,
formulando un unico motivo di censura cui resiste, con controricorso, B.D.;
entrambe le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
4. Con l’unico motivo di censura, l’Istituto
ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 42, legge n.289 del 2002, per
avere la Corte di merito ritenuto che la disposizione, nel prevedere che «il
regime pensionistico dei dirigenti di aziende industriali è uniformato, nel
rispetto del principio del pro-rata, a quello degli iscritti al Fondo pensioni
per i lavoratori dipendenti con effetto dal 1 gennaio 2003», si applicasse solo
ai dirigenti che, alla data di soppressione dell’INPDAI, fossero ancora
assicurati presso quest’ultimo, e non anche a quelli che, come parte
controricorrente, erano nelle more passati alla gestione INPS per effetto del
mutamento del proprio rapporto di lavoro, e conseguentemente che, per questi
ultimi, la retribuzione pensionabile andasse calcolata con riferimento a quella
maturata negli ultimi cinque e dieci anni, non già in relazione alle
retribuzioni maturate durante il periodo di iscrizione all’INPDAI, nonostante
che l’art. 42 cit. preveda che
la quota di pensione corrispondente alle anzianità contributive maturate al
31.12.2002 presso l’INPDAI sia determinata applicando, nel calcolo della
retribuzione pensionabile, il massimale annuo di cui al d.lgs. 21 aprile 1997, n. 181, art.
3, comma 7, pari a L. 250 milioni.
5. Il ricorso è fondato.
6. Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che,
dal momento che la legge n. 289 del 2002 ha
operato il trasferimento dei contributi dall’INPDAI all’INPS mediante
iscrizione «con evidenza contabile separata», ossia in carenza di
un’unificazione assimilabile alla ricongiunzione dei contributi prevista dal d.p.r. n. 58 del 1976, l’art. 42 comma 3, prima parte,
della legge citata, disponendo che il regime pensionistico dei dirigenti di
aziende industriali è uniformato, nel rispetto del criterio del pro-rata, a
quello degli iscritti al Fondo pensioni lavoratori dipendenti con effetto dal
1° gennaio 2003, ha introdotto un principio di carattere generale, senza
distinzione tra soggetti ancora iscritti e soggetti non più in costanza di
assicurazione INPDAI alla data del 31.12.2002, con la conseguenza che, ai fini
della liquidazione della pensione, la retribuzione pensionabile propria
dell’assicurato già iscritto all’INPDAI deve essere individuata in relazione
alle retribuzioni che sarebbero state utili nel caso di un’ipotetica
liquidazione del trattamento pensionistico da parte dell’INPDAI, non anche con
riguardo alle retribuzioni percepite negli ultimi cinque e dieci anni calcolati
a ritroso dalla data del pensionamento, in quanto il rinvio della L. n. 289 del 2002, art. 42, al D.Lgs. n. 181 del 1997, art. 3,
comma 7, nonché lo stesso meccanismo del pro-rata adottato nell’art. 42 cit., costituiscono
manifestazione della volontà del legislatore di tenere distinti i due periodi
assicurativi, in considerazione della diversità dei sistemi di calcolo adottati
per ciascuno di essi, dando luogo a due distinte quote di pensione, da
determinare secondo autonomi criteri (v., da ultimo, Cass. n,. 2715 del 2020; 23573, 19519, 19036, 15144 del 2019 e i
precedenti ivi richiamati).
7. Né appare decisivo, al fine di inficiare la
consistenza del superiore principio di diritto, l’assunto secondo cui la
soppressione dell’INPDAI avrebbe, in realtà, comportato una sorta di
ricongiunzione ex lege delle posizioni contributive dei dirigenti già iscritti
all’INPDAI nell’assicurazione generale obbligatoria, al punto che l’INPS non
avrebbe dato ulteriore corso alle domande di ricongiunzione della posizione
previdenziale presentate dopo il 1°.1.2003: ciò che rileva è piuttosto che,
avendo il legislatore manifestato la volontà di uniformare il regime
pensionistico dei dirigenti industriali a quello dei lavoratori dipendenti «nel
rispetto del principio del pro-rata» (L. n. 289 del 2002, art. 42, comma
3), non vi è spazio alcuno per sostenere che, per i dirigenti che alla data
della soppressione dell’INPDAI avevano una posizione contributiva presso tale
ultimo ente, il calcolo della retribuzione pensionabile non debba essere pro
parte riferito (anche) alle retribuzioni sulle quali è stata versata la
contribuzione presso l’INPDAI.
8. Né miglior sorte merita l’ulteriore rilievo
secondo cui, così operando, i dirigenti ex INPDAI subirebbero un trattamento
discriminatorio e deteriore, essendo impossibilitati a chiedere la
ricongiunzione gratuita (d.P.R.
n. 58 del 1976, ex art. 22), e dovendo per contro subire un calcolo della
pensione meno favorevole di quello previsto dal d.lgs. n. 503 del 1992, art. 3:
in disparte il rilievo, qui invero decisivo, che parte controricorrente non ha
offerto alcun elemento per effettuare codesto giudizio comparativo, che deve
aver riguardo non solo all’anzianità ed alla retribuzione, ma anche alla
contribuzione (v. Cass. nn. 4897 e 19036 del
2017), vale la pena di evidenziare che siffatta interpretazione – come del
resto quella patrocinata dalla Corte territoriale – poggia sull’assunto, invero
indimostrato, secondo cui il regime introdotto dalla L. n. 289 del 2002, art. 42 costituirebbe
una misura di salvaguardia delle aspettative pensionistiche maturate dei
dirigenti industriali, laddove appare piuttosto una misura per porre argine al
notorio e crescente disavanzo cagionato dal pregresso regime di favore di cui
essi beneficiavano, caratterizzato da basse aliquote di calcolo dei contributi,
alte aliquote di rendimento e più elevate fasce di retribuzione pensionabile.
9. La sentenza impugnata va conseguentemente cassata
e, per non essere necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa va decisa
nel merito con il rigetto dell’originaria domanda.
10. Tenuto conto che il principio di diritto cui il
Collegio ha inteso dare continuità è stato affermato in epoca successiva alla
proposizione della domanda, si ravvisano giusti motivi per compensare tra le
partì le spese dell’intero processo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e,
decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda; spese compensate
dell’intero processo.