Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 marzo 2021, n. 6719

Rapporto di lavoro, Assistente sociale coordinatore,
Trattamento economico proprio del primo dirigente, Diritto, Accertamento

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Napoli, in riforma della
sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso, ha
rigettato la domanda proposta da C.P., assistente sociale coordinatore
inquadrata nella ex VII qualifica funzionale, la quale aveva convenuto in
giudizio il Ministero della Giustizia per ottenere l’accertamento del diritto a
percepire, ai sensi della legge n. 449/1997,
con decorrenza dal 1° gennaio 1998 e sino al primo rinnovo contrattuale, il
trattamento economico proprio del primo dirigente del comparto Ministero,
quantificato in ragione dei maggiori importi previsti dall’art. 2 dell’accordo
di rinnovo del C.C.N.L. per la dirigenza ministeriale, stipulato il 26 novembre
1996;

2. la Corte territoriale, esclusa l’eccepita
inammissibilità dell’appello, ha ricostruito il quadro normativo ed ha in
sintesi osservato che già alla data di entrata in vigore della legge n. 449/1997 il legislatore aveva modificato
la carriera dirigenziale, prevedendo un ruolo unico articolato in due fasce, e,
pertanto, il rinvio contenuto nell’art. 41, comma 4, della legge
in parola all’art. 4 bis del d.l. n. 356/1987, che aveva attribuito il
trattamento economico del primo dirigente agli impiegati della carriera
direttiva che potevano vantare quindici anni di anzianità, non consentiva di
tener conto degli sviluppi contrattuali successivi previsti per la qualifica di
equiparazione;

3. infatti, qualora il legislatore avesse voluto
tener conto del trattamento retributivo previsto per il dirigente di seconda
fascia, avrebbe richiamato le disposizioni contrattuali e non il d.l. n.
356/1987, tanto più che solo quest’ultimo rinvio consentiva di differenziare il
trattamento economico a seconda dell’anzianità di quindici o venticinque anni;

4. per la cassazione della sentenza C.P. ha proposto
ricorso affidato a tre motivi, ai quali ha resistito con tempestivo
controricorso il Ministero della Giustizia.

 

Considerato che

 

1. il primo motivo denuncia «violazione e falsa
applicazione dell’art. 434 c.p.c. – omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio» e addebita alla Corte
territoriale di non avere pronunciato sull’eccezione di inammissibilità
dell’appello essendosi limitata al rinvio per relationem ad altra decisione con
la quale era stata decisa, quanto al profilo processuale, una questione
diversa;

1.1. sostiene la ricorrente che con l’atto d’appello
il Ministero non aveva individuato con chiarezza le statuizioni investite dal
gravame, non aveva indicato le censure mosse alla motivazione della sentenza
del Tribunale, non aveva sviluppato alcuna argomentazione volta a censurare in
modo specifico le ragioni poste a fondamento della decisione impugnata;

2. la seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 nn. 3, 4 e 5 cod. proc. civ., prospetta
la «violazione e falsa applicazione di legge (art. 41, comma 4, I. n. 449/1997;
4 bis d.l. n. 356/1987, convertito in legge n. 436/1987) – erronea
interpretazione e valutazione delle circostanze di fatto e delle risultanze
istruttorie – error in procedendo – omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio»;

2.1. sostiene, in sintesi, la ricorrente che alla
data di entrata in vigore della legge n. 449/1997
la qualifica di primo dirigente era confluita in quella unica dirigenziale per
cui il calcolo del trattamento economico andava effettuato tenendo conto
dell’assetto normativo e contrattuale vigente al momento del rinvio, non
essendo logico ipotizzare che il legislatore avesse voluto utilizzare, quale
parametro retributivo per la perequazione, quello risalente al gennaio 1991, di
gran lunga inferiore al trattamento retributivo riconosciuto alla categoria di
comparazione, nei frattempo confluita nella qualifica unica dirigenziale;

3. la medesima rubrica la ricorrente antepone al
terzo motivo con il quale sostanzialmente addebita al giudice d’appello di non
avere considerato “l’interpretazione autentica” fornita dalla
Presidenza del Consiglio del Ministri che, nel rispondere alla richiesta di
chiarimenti formulata dal Ministero della Giustizia, aveva appunto affermato
che «la parametrazione del relativo trattamento economico deve essere
effettuata con riferimento al vigente assetto normativo (ivi incluso quello
contrattuale) della categoria, come è noto radicalmente innovato rispetto
quello esistente al momento dell’entrata in vigore del citato at. 4 bis del
d.l. n. 356/1987»;

4. il primo motivo è inammissibile perché formulato
senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione
imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.;

4.1. la giurisprudenza di questa Corte è consolidata
nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo,
rispetto al quale la Corte è giudice del «fatto processuale», l’esercizio del
potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle
regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in
nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del
giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012 e Cass. S.U. n. 20181/2019);

4.2. la parte, quindi, non è dispensata dall’onere
di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore
denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito
il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di
Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in
condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere
solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca;

4.3. dal principio di diritto discende che, qualora,
come nella fattispecie, il ricorrente assuma che l’appello doveva essere
dichiarato inammissibile per difetto della necessaria specificità dei motivi di
impugnazione, la censura potrà essere scrutinata a condizione che vengano
riportati nel ricorso, nelle parti essenziali, la motivazione della sentenza di
primo grado e l’atto di appello;

4.4. occorre, poi, che il ricorrente assolva al
distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 n. 4 cod. proc. civ., indicando la sede
nella quale l’atto processuale è reperibile, perché l’art. 366 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 5 del d.lgs. n. 40 del 2006,
richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi
necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità
di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere
l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai
fini dell’accoglimento del ricorso (fra le tante, sulla non sovrapponibilità
dei due requisiti, Cass. n. 19048/2016);

4.5. il ricorso si limita ad argomentare sulle
ragioni giuridiche per le quali la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere
l’appello del Ministero privo della necessaria specificità, ma non riporta il
contenuto degli atti rilevanti né indica la sede di allocazione degli atti
stessi nel fascicolo processuale;

4.6. non determina nullità della sentenza impugnata
il rinvio per relationem ad altra pronuncia della stessa Corte territoriale
resa in fattispecie analoga perché «la motivazione per relationem della sentenza,
ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c.,
può fondarsi anche su precedenti di merito, e non solo di legittimità, allo
scopo di massimizzare, in una prospettiva di riduzione dei tempi di definizione
delle controversie, l’utilizzazione di riflessioni e di schemi decisionali già
compiuti per casi identici o caratterizzati dalla decisione di identiche
questioni» (Cass. n. 17640/2016 e Cass. n. 2861/2019);

5. il secondo ed il terzo motivo, da trattare
congiuntamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono
infondati perché la sentenza impugnata è conforme al principio di diritto che
questa Corte, in continuità con quanto già statuito da Cass. S.U. n.
23855/2012, ha affermato nel respingere il ricorso proposto avverso la
decisione richiamata per relationem dal giudice d’appello, principio secondo
cui «l’art. 41, comma 4, della
I. n. 449 del 1997, che ha previsto l’estensione, in funzione perequativa e
transitoria, a decorrere dall’i gennaio 1998 sino al primo rinnovo
contrattuale, del trattamento economico di cui all’art. 4-bis del d.l. n. 356
del 1987, conv., con modif., dalla I. n. 436 del 1987, al personale civile
dell’Amministrazione penitenziaria transitato nella 7^ qualifica funzionale,
appartenente ai profili professionali di assistente sociale coordinatore e di
educatore coordinatore, in presenza dei presupposti di cui alla medesima norma,
contiene un rinvio statico al trattamento economico ivi previsto per la
previgente figura del “primo dirigente” » (Cass. n. 12725/2017);

5.1. il Collegio intende dare continuità
all’orientamento già espresso perché ne condivide le ragioni, alle quali si
rinvia ex art. 118 disp. att. cod. proc. civ.,
e perché il ricorso non prospetta argomenti che possano indurre a rinneditare
il principio affermato;

5.2. in particolare la tesi sostenuta dalla Pavia
contrasta con il dato, particolarmente significativo, costituito dal fatto che
la legge n. 449/1997 è intervenuta quando già
era stato sottoscritto il CCNL per la dirigenza del comparto ministeri sicché
il richiamo al trattamento economico previsto dal d.l. n. 356/1987, ormai
superato per il personale con qualifica dirigenziale, rivela senza alcun dubbio
la scelta consapevole del legislatore di attribuire, in funzione perequativa e
transitoria, proprio quel trattamento da poco cessato;

5.3. né a diverse conclusioni si può giungere
facendo leva sull’interpretazione fornita dal Dipartimento della Funzione
Pubblica con la circolare del 15 ottobre 1998 perché, come già evidenziato
nella pronuncia sopra citata, gli atti unilaterali adottati dalla Pubblica
Amministrazione non vincolano i giudici, non costituiscono fonte del diritto e,
pertanto, la loro violazione non può essere denunciata ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. in sede di
legittimità;

6. in via conclusiva il ricorso deve essere
rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese
del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo;

7. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n.
228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U.
n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla
legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in € 5.000,00 per
competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

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