Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 marzo 2021, n. 7220

Contratto a tempo determinato, Illegittimità del termine,
Mancato rispetto della percentuale di contingentamento,Sussistenza di un
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del
9.9.2014, respingeva il gravame proposto dalla s.p.a. A. CAI avverso la
decisione del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato l’illegittimità
del termine apposto al contratto stipulato con A.R. il 24.2.2010, accertando la
sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato con decorrenza dal 1.3.2010, con ordine di ripristino dello
stesso e condanna della società al pagamento di un’indennità, quantificata in
tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

2. Disattesa l’eccezione di decadenza, reiterata
dalla società, la Corte distrettuale rilevava come il R. avesse espressamente
impugnato i contratti sotto il profilo del mancato rispetto della percentuale
di contingentamento e che, a fronte di tale deduzione, la società non aveva
indicato il numero di lavoratori assunti a tempo indeterminato e di quelli
invece a termine, non potendo sopperirsi a tale lacuna mediante ammissione di
prova testimoniale, stante la genericità dei capitoli di prova articolati, per
non essere la mera circostanza negativa del mancato superamento del limite
percentuale adeguata all’efficace espletamento della relativa prova
testimoniale che avrebbe, invece, dovuto vertere sul dato positivo concernente
il numero dei dipendenti assunti a termine.

3. Quanto alla riserva di produzione del libro
matricola, formulata da A. nella memoria difensiva, la stessa non poteva
rilevare, secondo la Corte, a fronte delle carenze istruttorie evidenziate.

Analogamente era stata correttamente disattesa
l’istanza di ammissione di CTU agli stessi fini. In ordine all’indennità
liquidata, la Corte rilevava la congruità della relativa misura ed affermava
che in relazione alla sua natura sanzionatoria non poteva rilevare l’aliunde
perceptum

4. Di tale decisione ha domandato la cassazione la
società, affidando l’impugnazione quattro motivi, cui ha resistito, con
controricorso, il R.

5. La causa, rinviata a nuovo ruolo nell’adunanza
camerale del 16.4.2019, per consentirne la trattazione pubblica, è stata
fissata all’odierna udienza.

6. Il R. ha depositato memorie illustrative.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, la Compagnia aerea
ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1 bis, I. 183/2010,
sul rilievo che il differimento introdotto con il cd. decreto Milleproroghe
riguardi esclusivamente il termine decadenziale di 60 gg. relativo
all’impugnazione del licenziamento di cui all’art. 6, comma primo, legge 604/66
e che il principio di irretroattività escluda che la norma giuridica possa
applicarsi a situazioni verificatesi prima della sua entrata in vigore.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione dell’art. 2 d. Igs. 368/2001 per
avere A. Cai avuto riguardo, ai fini del rispetto della percentuale del 15%
dell’organico aziendale, all’organico addetto ai servizi aeroportuali e non a
quello adibito allo svolgimento “dei servizi operativi di terra e di volo,
di assistenza a bordo ai passeggeri e merci”.

3. Con il terzo motivo, la società si duole della
violazione degli artt. 421 e 437 c.p.c., rilevando come la pista probatoria
emersa avrebbe necessitato di chiarimenti ed approfondimenti attraverso il
ricorso ai poteri officiosi del giudice, idonei a supplire alle lacune delle
risultanze di causa.

4. Con il quarto motivo, la ricorrente ascrive alla
decisione impugnata violazione dell’art. 2697 c. c.,
sul rilievo che, per ottenere la conversione del rapporto a tempo
indeterminato, il lavoratore avrebbe dovuto dimostrare che, al momento delle
costituzione del rapporto, A. Cai aveva già violato la percentuale prevista.

5. Il primo motivo è infondato.

5.1. Questa Corte ha ritenuto che, con riguardo ai
contratti già conclusi alla data di entrata in vigore del Collegato Lavoro –
stipulati anche in base alla normativa vigente prima del D. Lgs. n. 368 del 2001 e con riferimento a quelli
i cui termini siano comunque decorsi prima dell’entrata in vigore della L. n. 10 del 2011 – possa trovare applicazione la
proroga dei termini di decadenza (cfr. Cass. 2494/2015): è stato evidenziato
come anche per i contratti a tempo determinato, deve, invero, intendersi
differita al gennaio 2012 l’operatività del sistema delle decadenze previsto
dalla L. n. 183 del 2010, art. 32,
ed anche per essi – va qui ribadito – deve ritenersi che la L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32,
comma 1 bis, introdotto dal D.L. 29 dicembre 2010,
n. 225, convertito dalla L. 26 febbraio 2011,
n. 10, nel prevedere “in sede di prima applicazione” il differimento
al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al
termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, riguardi tutti
gli ambiti di novità di cui al novellato art. 6 della L. 15 luglio 1966, n.
604, e, dunque, non solo l’estensione dell’onere di impugnativa
stragiudiziale ad ipotesi in precedenza non contemplate, ma anche l’inefficacia
di tale impugnativa, prevista dal comma 2 del medesimo art. 6 anche per le ipotesi
già in precedenza soggette al relativo onere, per l’omesso deposito, nel
termine di decadenza stabilito, del ricorso giudiziale” (cfr. Cass.
2.7.2015 n. 13563, alle cui argomentazioni si rinvia).

5.2. In proposito questa Corte, a ss. uu., con sentenza n. 4913 del 14.3.2016, ha affermato che
“L’art. 32, comma 1 bis,
della legge n. 183 del 2010, introdotto dal d.l.
n. 225 del 2010, conv. con mod. dalla l. n. 10
del 2011, nel prevedere “in sede di prima applicazione” il
differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni
relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, si
applica a tutti i contratti ai quali tale regime risulta esteso e riguarda
tutti gli ambiti di novità di cui al novellato art. 6 della I. n. 604 del 1966,
sicché, con riguardo ai contratti a termine non solo in corso ma anche con
termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell’intervallo di
tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore del cd.
“collegato lavoro”) e il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di
sessanta giorni per l’entrata in vigore della novella introduttiva del termine
decadenziale), si applica il differimento della decadenza mediante la
rimessione in termini, rispondendo questo alla “ratio legis” di
attenuare, in chiave costituzionalmente orientata, le conseguenze legate
all’introduzione “ex novo” del suddetto e ristretto termine di
decadenza”.

5.3. La Corte di appello di Milano si è attenuta
all’enunciato principio, confermato tra le altre, da Cass. 10.7.2018 n. 18166.

6. Quanto al secondo motivo, i rilievi vanno
disattesi, in quanto sul punto l’interpretazione del dato normativo, conforme
all’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in
generale, porta a concludere che il confronto tra l’organico aziendale,
costituito dai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato, e il
numero dei contratti a termine non può essere limitato, ai fini della verifica
del rispetto della c.d. clausola di contingentamento, alle sole mansioni del
singolo lavoratore assunto a tempo determinato, dovendo per contro essere
esteso all’intero complesso dei servizi indicati (“servizi operativi di
terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci”), sicché
appare chiara la succitata previsione normativa laddove eccezionalmente
consente le assunzioni de quibus ex art. 2, pur in assenza di una specifica
causale, all’impresa esercente le attività ivi contemplate, purché nel limite
nel 15% massimo relativo all’intero organico aziendale (avuto riguardo anche
l’impiego dell’avverbio “complessivamente” riferito all’organico
adibito ai servizi sopra indicati, perciò senza alcuna distinzione di sorta
riguardo pure alle varie possibili sedi interessate) (cfr. da ultimo, in tali
sensi, Cass. 23.8.2019, n. 21674, Cass. 14.10. 2020 n. 22215).

7. In ordine al terzo motivo, è sufficiente
osservare che, nel rito del lavoro, il mancato esercizio da parte del giudice
dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c.,
preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di
giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per
cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una richiesta
in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori (cfr. Cass. 12.3.2009 n. 6023).

7.1. In ogni caso, gli indicati poteri di ufficio
non possono essere dilatati fino a richiedere che il giudice supplisca in ogni
caso alle carenze allegatorie e probatorie delle parti, in assenza di una pista
probatoria rilevabile dal materiale processuale acquisito agli atti di causa.
Al riguardo deve richiamarsi l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui il
mancato esercizio dei poteri istruttori del giudice (previsti nel rito del
lavoro dall’art. 421 c.p.c.) anche in difetto
di espressa motivazione sul punto, non è sindacabile in sede di legittimità se
non si traduce in un vizio di illogicità della sentenza(cfr., ex aliis, Cass.
18.2.2019 n. 4688): e tale vizio nei termini suddetti non è ravvisabile nella
gravata pronuncia.

8. La violazione dedotta con il quarto motivo non
integra, infine, violazione dell’art. 2697 c.c.,
in quanto l’onere probatorio spettava alla società e comunque un’autonoma
questione di malgoverno dell’art. 2697 c.c. può
porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia
invertito gli oneri probatori, situazione che non è, tuttavia, quella
rappresentata nel motivo anzidetto, in quanto anche qui la doglianza deve
ritenersi mal prospettata, in difformità a consolidati principi
giurisprudenziali (cfr. Cass. 9212/2012; Cass.
4764/2015 e, da ultimo, Cass. 16.4.2019 n. 9307).

9. Il ricorso va, pertanto, complessivamente
respinto.

10. Le spese del presente giudizio seguono la
soccombenza della ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in
dispositivo.

11. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115
del 2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro
200,00 per esborsi, euro 5250,00 per compensi professionali, oltre accessori
come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13,
comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1 bis, del citato D.P.R.,
ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 marzo 2021, n. 7220
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: