Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2021, n. 7364

Perdurante esistenza di detto rapporto di lavoro, Cessione
del ramo d’azienda, Illegittimità e inefficacia della successione, Esclusa
l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ossia destinazione al compimento delle
operazioni che l’unità ceduta svolgeva

Fatti di causa

1. La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del
30 gennaio 2017, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva accolto le
domande di lavoratori già dipendenti della Banca M.P.S. Spa volte ad accertare
la perdurante esistenza di detto rapporto di lavoro in ragione della
“dedotta illegittimità e inefficacia della successione di F. Srl in tali
rapporti ex art. 2112 c.c. in esito alla cessione
da parte della Banca del ramo d’azienda cui i lavoratori erano addetti”;
la Corte, su appello incidentale dei lavoratori, ha riliquidato poi le spese
del primo grado “tenuto conto del corrispondente scaglione e tenuto conto
delle attività svolte inizialmente sui singoli procedimenti e successivamente
sull’unico risultante dalla riunione”, condannando altresì le società
appellanti al pagamento delle spese del secondo grado.

2. La Corte fiorentina ha premesso che “su
analoga questione questa Corte si è pronunciata nella sentenza di pari data
promossa da F. Srl e Banca M.P.S. c. A. ed altri … con motivazione che qui si
riporta perché valga anche per la presente stante la sovrapponibilità della
fattispecie”. Dopo aver richiamato un precedente di legittimità (Cass. n. 17366 del 2016) al quale ha dichiarato
di uniformarsi, la Corte di Appello – in estrema sintesi – ha condiviso
“la conclusione in fatto del primo giudice secondo cui la cessione da BMPS
a F. srl non ha realizzato il trasferimento di un ramo d’azienda nel senso
inteso dalla direttiva 2001/23/CE e dall’art. 2112 c.c.”; in particolare ha escluso
l’autonomia funzionale del ramo ceduto.

3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto
separati ricorsi Banca M.P.S. Spa e F. Sri: la prima società con 6 motivi e la
seconda con 4.

Hanno resistito con distinti controricorsi i
lavoratori in epigrafe; in quello che resiste al ricorso della BMPS vi è anche
una impugnazione incidentale sulle spese, affidata a 3 motivi, alla quale la
Banca ha replicato con controricorso.

4. Nelle more del giudizio sono stati depositati
verbali di conciliazione sottoscritti in sede protetta tra le società ed i
seguenti lavoratori: F.C., P.F., F.S., C.S., R.C., M.E., P.A., L.M., F.M.,
G.V., A.B., D.N.F., A.C., P.R., G.E., P.S., P.L., T.A., S.S., Z.P., R.M., C.F.,
Z.S., R.E., F.E., F.R.M., L.A., L.A., R.N., M.F., G.P., D.M.B., F.F., C.G.,
V.C., C.M., Z.A., V.M., P.A.L., V.V., G.F., F.L., S.M., A.S., P.N., D.C.M.,
A.E., B.M., C.M., C.S., G.M., T.C., P.M.F., B.G., D.P., C.M.G..

 

Ragioni della decisione

 

1. Preliminarmente deve essere dichiarata la
cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il
conseguente sopravvenuto difetto di interesse alla prosecuzione del processo,
in ragione dei verbali di conciliazione sottoscritti tra le parti innanzi
indicate e le società in epigrafe, con compensazione delle spese del giudizio
di legittimità tra dette parti.

Non risultano,. invece, aver conciliato la lite i
seguenti lavoratori: R.S., L.L., F.C., P.C., C.P., G.M., S.A.M., S.D.G. di J.,
C.P., F.M., S.F., A.M., A.P., D.M., U.B., F.C., E.V., S.M..

Per essi occorre, quindi, delibare i ricorsi
proposti.

2. I motivi di ricorso di Banca M.P.S. Spa,
accompagnati da una istanza di rinvio pregiudiziale alla CGUE, possono essere
come di seguito sintetizzati.

Con il primo, ex art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., si denuncia “violazione e falsa applicazione
dell’art. 2112 c.c. per non avere la Corte di
Appello ritenuto sussistente il requisito dell’autonomia funzionale del ramo
ceduto”, errando nell’interpretare la 
disciplina codicistica e comunitaria e, più in particolare,
nell’individuare gli elementi decisivi che qualificano il requisito
dell’autonomia funzionale di un ramo d’azienda oggetto di cessione.

Con il secondo motivo si denuncia “violazione e
falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. nella
parte in cui la sentenza, respingendo il sesto motivo di appello BMPS, ritiene
implicitamente necessario il requisito della preesistenza del ramo ceduto, non
richiesto dalla norma in esame”.

Il terzo motivo denuncia, ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., “nullità
della sentenza per violazione degli artt. 111 Cost.,
comma 6, Cost., 132, comma 2, n. 4), 156, commi 2 e 3, c.p.c., sotto il profilo della
carenza assoluta di motivazione o “motivazione apparente” in ordine alla
sussistenza nei fatti del requisito della preesistenza”, avendo, la Corte
territoriale, trascurato di illustrare le ragioni per le quali il requisito
della preesistenza dovrebbe a tutt’oggi valere.

Il quarto motivo denuncia “violazione e falsa
applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. per avere la Corte di Appello omesso di
porre a fondamento della decisione fatti specificamente non contestati e per
aver omesso di considerare le istanze istruttorie dedotte da BMPS sulla
sussistenza in capo ai lavoratori del ramo ceduto di un particolare know how e
di una specifica professionalità”.

Il quinto mezzo lamenta, ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., “nullità
della sentenza per violazione degli artt. 111 Cost.,
comma 6, Cost., 132, comma 2, n. 4), 156, commi 2 e 3, c.p.c. sotto il profilo della
carenza assoluta di motivazione o “motivazione apparente” in ordine alla natura
non labour intensive delle attività di back office svolte dal ramo
ceduto”.

Il sesto motivo denuncia “violazione e falsa
applicazione degli artt. 1406 e 2112 c.c. per avere la Corte di Appello ritenuto
che la fattispecie in esame sia riconducibile ad una cessione individuale di
contratti e non ad un trasferimento di ramo d’azienda”, integrandosi –
s.econdo la ricorrente – tutti i presupposti individuati dalla giurisprudenza
interna e comunitaria per la valida cessione di un ramo di azienda.

3. La società F. Srl ha articolato i motivi di
ricorso che possono essere come di seguito sintetizzati.

Con il primo motivo, ex art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., si denuncia violazione dell’art. 2112 c.c., commi 1 e 5, anche in relazione
agli artt. 1, 3, 4 e 6 della
direttiva 2001/23/CE, per avere la Corte distrettuale assunto una errata
nozione di “autonomia” del ramo aziendale, che va intesa non già come
“autosufficienza” imprenditoriale assoluta della frazione ceduta,
bensì come autonomia funzionale, ossia destinazione al compimento delle
operazioni che l’unità ceduta svolgeva.

Con il secondo motivo, ex art.
360, primo comma, n. 4, c.p.c, si denuncia la violazione degli artt. 111, comma 6, Cost., e 132, comma 2, n. 4 c.p.c., avendo, la Corte
territoriale, omesso qualsiasi motivazione sul requisito della preesistenza
del  ramo d’azienda (oggetto dei motivi
di appello), concentrandosi esclusivamente sul requisito dell’autonomia
funzionale. In subordine, ove si dovesse ritenere che l’autonomia funzionale
del ramo ceduto equivalga alla sua autosufficienza, si formula istanza di
sospensione del processo e rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Il terzo mezzo lamenta violazione degli artt. 2697 c.c. e 115
c.p.c. avendo la Corte territoriale errato nel ritenere che il gruppo di
lavoratori trasferiti non fosse dotato di un particolare know how.

Il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. ovvero, in subordine, degli artt. 111, comma 6, Cost., e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., per non avere la
Corte territoriale pronunciato sul motivo di appello riguardante l’eccezione di
decadenza formulata ai sensi dell’art.
32, comma 4, lett. c), I. n. 183 del 2010.

4. Taluni motivi di entrambi i ricorsi possono
essere esaminati in connessione in quanto il primo motivo del ricorso B.M.P.S.,
in parallelo con il primo motivo del ricorso F., lamenta l’errore di diritto in
cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel non ritenere sussistente
l’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto; il secondo e terzo motivo del
ricorso B.M.P.S., parallelamente con il secondo motivo del ricorso F.,
criticano la sentenza impugnata per aver ritenuto, implicitamente ovvero con
motivazione apparente, la necessità della preesistenza del ramo ceduto e la
Banca, con il quinto mezzo, invoca pure la nullità della sentenza per aver
negato la natura labour intensive dell’attività di back office; infine il
quarto motivo del ricorso B.M.P.S., analogamente al terzo del ricorso F.,
denuncia la violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c..

La Corte giudica tali doglíanze non condivisibili
per le ragioni che seguono.

5. In premessa occorre ribadire l’oramai costante
insegnamento di questa Corte secondo il quale la verifica dei presupposti fattuali
che consentano l’applicazione o meno del regime previsto dall’art. 2112 c.c. implica una valutazione di merito
che, ove espressa con motivazione sufficiente e non contraddittoria, sfugge al
sindacato di legittimità (v. Cass. n. 20422 del
2012; Cass. n. 5117 del 2012; Cass. n. 1821 del 2013; Cass. n. 2151 del
2013; Cass. n. 24262 del 2013; Cass. n. 10925 del 2014; Cass. n. 27238 del
2014; Cass. n. 22688 del 2014; Cass. n. 25382 del 2017; di recente, ancora,
Cass. n. 2315 del 2020 e Cass. n. 6649 del 2020).

Ciò inevitabilmente, considerato che l’accertamento
in concreto dell’insieme degli elementi fattuali idonei o meno a configurare la
fattispecie legale tipica del trasferimento di ramo d’azienda, delineata in
astratto dal comma 5 dell’art. 2112 c.c.,
implica prima una individuazione ed una selezione di circostanze concrete e,
poi, il loro prudente apprezzamento, traducendosi in attività di competenza del
giudice di merito, cui non può sostituirsi il giudice di legittimità.

In particolare non può negarsi che la valutazione,
nella concretezza della vicenda storica, dell’autonomia funzionale del ramo
d’azienda ceduto e della sua preesistenza è di certo una quaestío facti che
opera, come tale, sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del
merito, per l’accertamento della ricorrenza, nella fattispecie dedotta in
giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo dell’art. 2112 c.c.. Come già ritenuto da questa Corte
“spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative
dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini
della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi
normativa” (testualmente in motivazione Cass. n. 15661 del 2001, con la
copiosa giurisprudenza ivi citata; v. pure Cass.
n. 18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).

Da tale pregiudiziale rilievo derivano conseguenze
rilevanti dal punto di vista dei limiti del sindacato di legittimità di questa
Corte e dei vizi che possono essere utilmente denunciati nei ricorso per
cassazione in tali controversie. Infatti, salvo i casi in cui si lamenti che la
sentenza impugnata abbia errato nella ricognizione degli elementi legali
identificativi del trasferimento del ramo d’azienda e, quindi, errato
nell’ascrizione di significato alla disposizione normativa astratta, nelle
altre ipotesi l’alternativa praticabile è che: o si denuncia un errore di
diritto ex art. 360, n. 3, c.p.c., sub specie
di errore di sussunzione commesso dai giudici del merito (v. in proposito Cass.
SS.UU. n. 5 del 2001 e, più di recente, Cass. n. 13747 del 2018); oppure si
denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo ex art.
360, n. 5, c.p.c., ovvero, alternativamente, una motivazione che violi il
cd. “Minimo costituzionale”.

Nella prima prospettiva è indispensabile, così come
in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla
ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di
merito e cioè da quel fatto così come da costoro accertato, in quanto è solo
l’applicare ad un accadimento accertato giudizialmente una norma dettata per
disciplinare ipotesi diverse a costituire una falsa applicazione della legge,
usualmente definita “vizio di sussunzione” (cfr. tra le altre: Cass.
n. 6035 del 2018; Cass. n. 8760 del 2019); diversamente si trasmoderebbe nella
revisione di un accertamento che appartiene al dominio dei giudici ai quali
esso compete. Infatti il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una
norma di diritto (cfr. Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007)
presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata (tra
molte: Cass. n. 4125 del 2017; Cass. n. 23851 del 2019); al contrario, laddove
si critichi la ricostruzione della vicenda storica quale risultante dalla
sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito di operatività dell’art. 360, n. 3, c.p.c., e la censura è attratta
inevitabilmente nei confini del sindacabile esclusivamente ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nella
formulazione tempo per tempo vigente, vizio che appunto postula un fatto ancora
oggetto di contestazione tra le parti.

In questa seconda prospettiva, inevitabilmente
legata alla quaestio facti, potrà essere denunciato l’omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le
parti, ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
Ma in tal caso dovranno essere rispettati gli enunciati posti
nell’interpretazione della novellata formulazione della disposizione dalle
Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn.
8053 e 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse
Sezioni unite, v. sentenze n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del
2015, oltre che dalle Sezioni semplici).

Solo ove vengano rispettati tali enunciati potrà
valutarsi, in sede di legittimità, se la totale trascuratezza ad opera dei
giudici del merito di un fatto storico connesso alla vicenda traslativa del
trasferimento d’azienda avrebbe condotto, per la sua sicura decisività, ad un
opposto esito della lite.

In entrambi i casi resta fermo quanto ancora di
recente ribadito dalle Sezioni unite civili circa l’inammissibilità di censure
che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa
applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso
l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici
da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale
di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360
c.p.c., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito
degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n.
34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950
del 2020).

6. Tanto premesso dal punto di vista dei limiti del
controllo di legittimità, i motivi di ricorso di entrambe le società non
possono, come si anticipava, trovare accoglimento.

Le pretese violazioni o false applicazioni di legge
in realtà propongono un diverso apprezzamento del peso da attribuire alle varie
circostanze di fatto che hanno dato origine alla vicenda contenziosa,
collocandosi al di fuori, per quanto innanzi chiarito, del paradigma dettato
dal n. 3 dell’art. 360 c.p.c., nonostante lo
sforzo defensionale di fornire loro una sostanza coerente con la forma del
vizio prospettato, che costituisce invece un mero involucro.

Sintomatico in tal senso anche l’inappropriato
richiamo sia alla violazione dell’art. 2697 c.c.
che dell’art. 115 c.p.c.: per il primo aspetto
la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile
per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3
c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere
della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le
regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti
costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la
valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass.
n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella sentenza impugnata
non è in alcun modo ravvisabile un sovvertimento dell’onere probatorio,
interamente gravante su chi intendeva avvalersi degli effetti previsti dall’art. 2112 c.c. (Cass.
n. 4500 del 2016 e Cass. n. 206 del 2004); per l’altro aspetto, in tema di
valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a
fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano
dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la
denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito
non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un
errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma
normativo  del difetto di motivazione, e
dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, co. 1,
n. 5, c.p.c. (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n. 4699 e
26769 del 2018; Cass. n. 1229 del 2019; v., da ultimo, pure Cass. n. 24395 del
2020).

Quanto poi alla nullità della sentenza, eccepita da
entrambe le società per apparenza o assenza della motivazione a mente dell’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., è appena il caso di
ricordare che le Sezioni unite già citate (Cass.
SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno sancito come l’anomalia
motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante,
integri un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza solo nei
casi di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e
grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto
irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; si è ulteriormente precisato
che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e
incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le
ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente
inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del
convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo
sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass.
SS.UU. n. 22232 del 2016; v. pure Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016). Pertanto chi
ricorre per cassazione può dedurre la nullità della sentenza che accerti o
neghi l’applicabilità dell’art. 2112 c.c. solo
laddove la motivazione della sentenza impugnata – avuto riguardo naturalmente
alla ricostruzione dei fatti e non alle questioni di diritto – presenti i vizi
radicali così delineati. Mentre nella specie è sufficiente ripercorrere il
testo della pronuncia ‘per avvedersi come la Corte distrettuale abbia dato
ampiamente conto delle ragioni che hanno orientato il suo convincimento, non
essendo certo idonea a determinare la radicale nullità dell’intera sentenza
l’eventuale ritenuta inadeguatezza motivazionale – avuto riguardo a taluni
aspetti specifici ovvero alle istanze istruttorie – da parte dei soccombenti
che patrocinano un diverso opinamento.

7. In punto di diritto il Collegio reputa che il
giudice d’appello abbia deciso le questioni in modo conforme alla
giurisprudenza di questa Corte e l’esame dei motivi di ricorso non offre
elementi per mutare condivisi orientamenti.

In proposito, al cospetto dell’invito rivolto dai
procuratori delle società istanti a rimeditare precedenti indirizzi di
legittimità in materia, giova osservare quanto segue. Una volta che
l’interpretazione della regula iuris è stata enunciata con l’intervento
nomofilattico della Corte regolatrice essa “ha anche vocazione di
stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta prospettiva di supporto
al valore delle certezze del diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374 c.p.c.) e 2009 (art. 360 bis c.p.c., n. 1)” (Cass. SS.UU. n.
15144 del 2011).

Si è altresì rilevato che se la formula della legge,
la cui interpretazione è nuovamente messa in discussione, è rimasta inalterata,
una sua diversa interpretazione non ha ragione d’essere ricercata e la
precedente abbandonata, quando l’una e l’altra siano compatibili con la lettera
della legge, essendo da preferire – e conforme ad un economico funzionamento
del sistema giudiziario – l’interpretazione sulla cui base si è, nel tempo,
formata una pratica di applicazione stabile (cfr. Cass. SS.UU. n. 10864 del
2011, nell’occasione con specifico riguardo alle disposizioni del rito).

Il richiamo al valore del precedente di legittimità
è stato successivamente ribadito non solo con riferimento all’interpretazione
giurisprudenziale di norme processuali ma anche in relazione
all’interpretazione di norme di altra natura (Cass. SS.UU. n. n. 23675 del
2014). In tale significativo arresto si rileva che la ricorrente affermazione
nel senso della non vincolatività del precedente deve essere armonizzata con
l’esigenza di garantire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale
attraverso il ruolo svolto dalla Corte di .Cassazione, espressione di una linea
evolutiva sempre più tesa a preservare “la salvaguardia dell’unità e della
stabilità dell’interpretazione giurisprudenziale”, valori che vengono
assunti come “ormai da considerare – specie dopo l’intervento del d.lgs. n. 40 del 2006 e della I. n. 69 del 2009, in particolare con riguardo
alla modifica dell’art. 374 c.p.c. ed
all’introduzione dell’art. 360 bis – alla
stregua di un criterio legale di interpretazione delle norme giuridiche”,
con il conclusivo richiamo al rispetto dei precedenti, fondato sul
convincimento che l’affidabilità, prevedibilità e uniformità
dell’interpretazione delle norme “costituisca imprescindibile presupposto
di uguaglianza tra i cittadini”.

Tali principi sono stati ancora di recente
integralmente confermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 11747
del 2019) che, ricordato come anche la dottrina concordi sulla “esigenza
dell’osservanza dei precedenti e nell’ammettere mutamenti giurisprudenziali di
orientamenti consolidati solo se giustificati da gravi ragioni”, hanno
sottolineato inoltre che in un sistema che valorizza l’affidabilità e la
prevedibilità delle decisioni, il quale influisce positivamente anche sulla
riduzione del contenzioso, “l’adozione di una soluzione difforme dai
precedenti non può essere né gratuita, né immotivata, né immeditata, ma deve
essere frutto di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile”.

8. Ciò posto, la Corte non ravvisa ragioni
sufficienti a determinare un mutamento degli orientamenti di legittimità che si
sono andati consolidando in tema di autonomia funzionale del ramo d’azienda
ceduto e di preesistenza del medesimo.

8.1. Secondo un risalente principio di legittimità
la cessione di ramo d’azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di
beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria
autonomia organizzativa ed economica 
funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di
beni o servizi (Cass. n. 17919 del 2002; Cass. n.
13068 del 2005; Cass. n. 22125 del 2006). Detta nozione di trasferimento di
ramo d’azienda è coerente con la disciplina in materia dell’Unione Europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha
proceduto alla codificazione della direttiva 14
febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva
29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui “è considerato come
trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un’entità economica
che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati
al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o
accessoria” (art. 1, n.
1, direttiva 2001/23).

La ratio della disciplina comunitaria è intesa ad
assicurare la continuità dei rapporti di lavoro esistenti nell’ambito di
un’attività economica indipendentemente dal cambiamento del proprietario e,
quindi, è finalizzata a proteggere i lavoratori nella situazione in cui
siffatto cambiamento abbia luogo (Corte di Giustizia, 7 febbraio 1985,
C-186/83, Botzen e a., punto 6; Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85,
Spijkers, punto 11); essa, infatti, riguarda il “ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di
imprese o di stabilimenti”, per cui non è direttamente incidente nelle
ipotesi in cui non si controverta del “mantenimento dei diritti dei
lavoratori trasferiti” presso la cessionaria, in difetto dei presupposti
previsti dal diritto dell’Unione (cfr. Corte di
Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punti 35 e 37).

La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio
interpretativo del diritto comunitario vivente (ex plurimis: Cass. n. 19740 del 2008), ha ripetutamente
individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di
persone e di elementi che consenta l’esercizio di un’attività economica
finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo (cfr. Corte di
Giustizia, 11 marzo 1997, C- 13/95, Súzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20
novembre 2003, C- 340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre
2005; C- 232/04 e C-233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia
sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre
1998, Hemandez Vidal e a., C-127/96, C-229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di
Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini, C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6
settembre 2011, C-108/ 10, Scattolon, punto 60; Corte di Giustizia, 20 luglio
2017, C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 43; Corte di Giustizia, 13 giugno
2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punto 60).

Anche nel testo modificato dall’art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, questa Corte
ha ribadito che, ai fini del trasferimento di ramo d’azienda previsto dall’art. 2112 c.c., rappresenta elemento costitutivo
della cessione “l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità
di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere
ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi
di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da
parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato
nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione” (sul tema v.
diffusamente Cass. n. 11247 del 2016; di
analogo tenore, assunte in decisione nella medesima udienza pubblica del 26
febbraio 2016, Cass. nn. 9682, 10243, 10352,
10540, 10541, 10542, 10730, 11248 del 2016;
tra le successive conformi v.: Cass. n. 19034 del 2017; Cass. n. 28593 del
2018).

Tali pronunce sono significative anche nel caso che
ci occupa perché hanno confermato la sentenza d’appello che aveva escluso
l’operatività dell’art. 2112 c.c., nella sua
formulazione successiva al 2003, tra l’altro, per “la mancata cessione dei
programmi e dei sistemi informatici che venivano utilizzati dai dipendenti
prima dello scorporo”, sancendo poi, nel principio di diritto enunciato in
funzione nomofilattica, l’indipendenza “dal coevo contratto di fornitura di
servizi che venga contestualmente 
stipulato tra le parti” (analogamente v. poi Cass. n. 1316 del 2017 e Cass. n. 19034 del 2017, in ipotesi di cessione
di un call center in cui i programmi informatici erano rimasti nella proprietà
esclusiva della cedente).

Si è inoltre sottolineato che il “fatto che la
nuova disposizione abbia rimesso al cedente e al cessionario di identificare
l’articolazione che ne costituisce l’oggetto non significa che sia consentito
di rimettere ai contraenti la qualificazione della porzione dell’azienda ceduta
come ramo, così facendo dipendere dall’autonomia privata l’applicazione della
speciale disciplina in questione, ma che all’esito della possibile frammentazione
di un processo produttivo prima unitario, debbano essere definiti i contenuti e
l’insieme dei mezzi oggetto del negozio traslativo, che realizzino nel loro
insieme un complesso dotato di autonomia organizzativa e funzionale
apprezzabile da un punto di vista oggettivo”; tanto in continuità con una
tradizionale impostazione secondo cui non è consentita la creazione di una
struttura produttiva ad hoc in occasione del trasferimento o come tale
identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa
l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non
coordinate fra loro, di semplici. reparti o uffici, di articolazioni non
autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non
dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito (tra altre,
Cass. n. 2429 del 2008; Cass. n. 21711 del 2012;
Cass. n. 8757 del 2014; Cass. n. 19141 del
2015).

Negli arresti in discorso non si è poi disconosciuta
la legittimità di cessioni di rami aziendali “dematerializzati” o
“leggeri” dell’impresa, nei quali il fattore personale sia
preponderante rispetto ai beni, in conformità con principi, anche comunitari
(Corte di Giustizia 11 marzo 1997, Siizen, C-13/95, punto 18; Corte di
Giustizia, 10 dicembre 1998, C-127/96, C-229/96, C-74/97, Hernandez Vidal e a.,
punto 31; Corte di Giustizia, 20 gennaio 2011,
C-463/09, CLECE, punto 36), che si sono affermati essenzialmente nel campo
della successione negli appalti laddove sono i lavoratori ad invocare
l’applicazione dell’art. 2112 c.c. per
transitare nell’impresa subentrante, per i quali principi oggetto del
trasferimento del ramo può essere anche un gruppo organizzato di dipendenti
specificamente e stabilmente assegnati ad un compito comune, senza elementi
materiali significativi (in precedenza, tra molte, v. Cass. n. 17207 del 2002;
Cass. n. 206 dél 2004; Cass. n. 20422 del 2012;
Cass. n. 5678 del 2013; Cass. n. 21917 del
2013; Cass. n. 9957 del 2014); ma si è tuttavia confermato il compito del
giudice del merito di verificare quando il gruppo di lavoratori trasferiti sia
dotato “di un comune bagaglio di conoscenze, esperienze e capacità
tecniche, tale che proprio in virtù di esso sia possibile fornire lo stesso
servizio”, così “scongiurando operazioni di trasferimento che si
traducano in una mera espulsione di personale, in quanto il ramo ceduto
dev’essere dotato di effettive potenzialità commerciali che prescindano dalla
struttura cedente dal quale viene estrapolato ed essere in grado di offrire sul
mercato ad una platea indistinta di potenziali clienti quello specifico
servizio per il quale è organizzato” (in . termini Cass. n. 11247/2016 cit.; di recente anche Corte
di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE, punto 69, ha
sottolineato come l’autonomia del ramo ceduto, dopo il trasferimento, non debba
dipendere da scelte economiche effettuate “unilateralmente” da terzi,
senza che vi siano garanzie sufficienti che le assicurino l’accesso ai fattori
di produzione).

8.2. Nel complesso di pronunce assunte in decisione
nel febbraio del 2016, l’elemento costitutivo rappresentato dall’autonomia
funzionale del ramo d’azienda ceduto viene letto in reciproca integrazione con
il requisito della preesistenza di esso, “nel senso che il ramo ceduto
deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza
integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui
esso risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente
alla cessione”, perché l’indagine non deve “basarsi
sull’organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione,
eventualmente grazie alle integrazioni determinate da  coevi o successivi contratti di appalto, ma
all’organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso
produttivo costituita dal ramo ceduto”.

A conforto si richiama anche la giurisprudenza della
Corte di Giustizia, secondo cui l’impiego del termine “conservi”
nell’art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva, “implica che l’autonomia
dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento”, (Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12,
Amatori ed a., punto 34). Anche dopo le modifiche introdotte dall’art. 32 del d. Igs. n. 276 del 2003,
con l’insieme delle decisioni citate si conferma, dunque, la necessità della
preesistenza del ramo al fine di sussumere la vicenda circolatoria nell’alveo
dell’art. 2112 c.c.; principio già presente
nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 19842 del 2003; Cass. n. 8017
del 2006; Cass. n. 2489 del 2008; Cass. n. 8757 del 2014) – pure sul rilievo che la
conservazione dell’identità dell’entità ceduta di matrice comunitaria (da
ultimo v. Corte di Giustizia, 13 giugno 2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia
AE, punti 61, 62 e 63) postula che possa conservarsi solo qualcosa che già
esista – e costantemente ribadito sino ai giorni nostri con innumerevoli
sentenze (tra le più recenti v. Cass. n. 30667 
del 2019; Cass. n. 6649 del 2020; Cass. n. 18954 del 2020; Cass. n. 20240 del
2020), tanto da assurgere oramai a principio consolidato del diritto vivente,
dal quale, per evidenti ragioni dettate anche dall’esigenza di non recare
vulnus all’eguaglianza  dei cittadini
innanzi alla legge, non si ravvisa ragione per discostarsi.

9. Le società ricorrenti lamentano che la sentenza
impugnata avrebbe giudicato dell’insussistenza di una cessione di ramo
d’azienda ex art. 2112 c.c. sulla scorta di
elementi “non rilevanti”, quali il mancato trasferimento al
cessionario della proprietà di beni strumentali, la professionalità dei
lavoratori ceduti, la condizione di monocommittenza, la conservazione della
collocazione territoriale, l’eterogeneità dei servizi ceduti; si invoca a
sostegno delle critiche l’autorità di varie sentenze della Corte di Giustizia.

Appare chiaro l’errore di metodo sotteso alle
censure.

E’ proprio la Corte dell’Unione a ribadire
costantemente che, per determinare se siano soddisfatte o meno le condizioni
per l’applicabilità della direttiva in materia di trasferimento d’impresa,
occorre “prendere in considerazione il complesso delle circostanze di
fatto che caratterizzano l’operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano
in particolare il tipo d’impresa o di stabilimento in questione, la cessione o
meno degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore
degli elementi materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno
della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il
trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle
attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un’eventuale
sospensione di tali attività”, ma “questi elementi, tuttavia, sono
soltanto aspetti parziali di una valutazione complessiva cui si deve procedere
e non possono, perciò, essere valutati isolatamente” (v. Corte di Giustizia, 9 settembre 2015, C-160/14,
Joào Filipe Ferreira da Si/v5 e Brito e altri, punto 26; Corte di Giustizia, 18
marzo 1986, C-24/85, Spijkers, punto 13; Corte di Giustizia, 19 maggio 2002,
C-29/91, Redmond Stichting, punto 24; Corte di Giustizia, 11 marzo 1997,
C-13/95, Súzen, punto 14; Corte di Giustizia, 20
novembre 2003, C-340/01, Abler e a., punto 33); si è altresì evidenziato
che “l’importanza da attribuire rispettivamente ai singoli criteri varia
necessariamente in funzione dell’attività esercitata, o addirittura in funzione
dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell’impresa, nello
stabilimento o nella parte di stabilimento di cui trattasi” (v. Corte di
Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Súzen, punto 18; Corte di Giustizia, 10
dicembre 1998, C-127/96, C-229/96 e C-74/97, Hernàndez Vidal e a., punto 31;
Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998„ C-173/96 e C-247/96, Hidalgo e a., punto
31).

E’ quanto in questa sede intende ribadirsi avuto
riguardo al presente giudizio di legittimità ed ai suoi limiti – al cospetto di
doglianze di parte che invocano una rivalutazione atomistica degli eventi
storici – alla luce del mai superato insegnamento (Cass. SS.UU. n. 379 del
1999) secondo cui, allorquando ai fini di una certa qualificazione giuridica di
un rapporto controverso occorre avvalersi di una serie di elementi fattuali
sintomatici ai quali i giudici del merito hanno affidato la propria
valutazione, ciò che deve negarsi è soltanto l’autonoma idoneità di ciascuno di
questi elementi, considerato singolarmente, a fondare la riconduzione ad una
certa qualificazione, non anche la possibilità che, in una valutazione globale
dei medesimi, essi vengano assunti, come concordanti, gravi e precisi indici
rivelatori di ciò che si intende dimostrare.

Sicché, quando gli elementi fattuali da valutare
sono, in via sintomatica ed indiziaria, molteplici al fine di verificare
l’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto, trattandosi di una decisione
che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di circostanze, che
– per dirla con la Corte di Giustizia – “sono soltanto aspetti parziali di
una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere
valutati isolatamente”, chi ricorre, per ottenere la cassazione della
sentenza impugnata, non può invocare una diversa combinazione di tali elementi
oppure un diverso apprezzamento rispetto a ciascuno di essi, sollecitando
questa Corte ad un controllo estraneo al sindacato di legittimità (sui limiti
di tale sindacato in materia di ragionamento presuntivo, per tutte, v. Cass. n.
29781 del 2017 e la giurisprudenza ivi richiamata).

Non sfugge al Collegio l’eventualità che
l’arrestarsi sulla soglia del giudizio di merito possa consentire che analoghe
vicende fattuali vengano diversamente valutate dai giudicanti cui compete il
relativo giudizio. Tuttavia è noto che l’oggetto del sindacato di questa Corte
non è (o non immediatamente) il rapporto sostanziale intorno al quale le parti
litigano, bensì unicamente la sentenza di merito che su quel rapporto ha
deciso, di cui occorre verificare la legittimità negli stretti limiti delle
critiche vincolate dall’art. 360 c.p.c., così
come prospettate dalla parte ricorrente: ne deriva che contigue vicende possono
dare luogo a diversi esiti processuali, ma si tratta di esiti non altrimenti
evitabili, determinati dalla peculiare natura del controllo di legittimità (ad
ex., proprio in tema di trasferimento d’azienda, v. Cass. n. 10868, n. 10925 e
n. 22688 del 2014, in motivazione), ancor più da quando il legislatore ha
inequivocabilmente orientato il giudizio di cassazione nel senso della
preminenza della funzione nomofilattica, anche riducendo progressivamente gli
spazi di ingerenza sulla ricostruzione dei fatti e sul loro apprezzamento.

10. Possono essere esaminate, da ultimo, le
richieste di sospensione del presente procedimento e di rimessione alla Corte
di Giustizia dell’Unione Europea, ex art. 267 comma 3 del Trattato
per il funzionamento della Unione Europea, proposte dalla difesa delle
ricorrenti società in ordine a questioni interpretative aventi ad oggetto la
norma comunitaria in materia dei diritti dei lavoratori in caso di
trasferimento di parti di impresa: la Corte reputa che le stesse non siano
pregiudiziali ai fini del decidere, in parte per le ragioni già esposte, stante
la ritenuta conformità del diritto interno al diritto dell’Unione, ed in parte
per le ragioni che si andranno ad illustrare.

10.1. Le richieste sono state così sintetizzate
dalle società.

La Banca M.P.S. spa ha formulato le seguenti
istanze: 1) “se l’art.
1, paragrafo 1, lett. a) e b) della Direttiva 2001/23/CE, deve essere
interpretato nel senso che sia di ostacolo, o invece non lo sia, ad una
normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, e
segnatamente l’art. 2112 comma 5 c.c., come
interpretato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (e dalla pronuncia della
Corte di appello di Firenze oggetto del presente procedimento) la quale, in
presenza di una esternalizzazione, da parte di una Banca, dell’attività di
back-office bancario – intendendosi per tali le attività amministrative,
contabili e ausiliarie- verso una impresa operante nel settore dell’outsourcing
dei servizi di back-office, non consenta la successione di quest’ultima alla
Banca nei rapporti di lavoro dei dipendenti addetti a tale attività,
nell’ipotesi in cui la Banca (rectius nel caso in esame un soggetto terzo, il
COGMPS) abbia mantenuto la proprietà degli applicativi e delle infrastrutture
IT utilizzate per lo svolgimento delle stesse, concedendoli in uso a titolo oneroso
alla cessionaria”; 2) “se l’art.1 paragrafo 1 lett. a) e b) e l’art. 8 della direttiva
2001/23/CE devono essere interpretati nel senso che siano di ostacolo, o
invece non lo siano, ad una normativa nazionale, come quella oggetto del
procedimento principale, e segnatamente l’art. 2112
co. 5 c.c., così come interpretata dalla giurisprudenza della Suprema Corte
(e della pronuncia qui impugnata) la quale -in presenza di un trasferimento di
una entità economica, pur funzionalmente autonoma, ma non preesistente al
trasferimento ed invece identificata come tale dal cedente e dal cessionario al
momento del trasferimento- non consenta la successione automatica dal cessionario
al cedente nei rapporti di lavoro dei lavoratori addetti a tale entità
economica funzionalmente autonoma”.

La F. srl ha chiesto di sottoporre alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea i seguenti quesiti) 1) “se la disciplina
dell’Unione Europea in tema di ‘trasferimento di parte di impresa o parte di
uno stabilimento’ (in particolare l’articolo 1, paragrafo 1,
lett. a) e b), in riferimento all’art. 3, par. 1, e all’art. 6, paragrafo 1, quarto
comma, nonché all’art. 4,
paragrafo 1, primo comma della Direttiva 2001/23/CE), osti ad una norma
come l’art. 2112, commi 5 e 6 c.c., la cui
formulazione, presupponendo espressamente il mantenimento della “identità”,
intesa come mantenimento di una preesistente “entità produttiva autonoma”
successivamente alla cessione della parte di impresa o di stabilimento dopo la
cessione medesima, escluda l’applicazione degli effetti della direttiva
previsti dall’art. 3 alle ipotesi di cessione di una porzione dell’impresa o
dello stabilimento destinata allo svolgimento di attività economica, intesa
come l’offerta di beni o servizi su un determinato mercato (sentenza CGE C-180/10 punto 43) che -in ragione del
proseguimento del proprio obiettivo è sufficientemente strutturata al fine
(sentenza CGE C-475/99 punto 19 e C-108/10
punto 42)- venga successivamente alla cessione integrata dal nuovo imprenditore
in strutture societarie diversamente organizzate per continuare a rendere la
medesima attività economica precedentemente resa dalla parte di impresa o di
stabilimento cedua, anche mediante la stipula di contratti di appalto”; 2)
“se la direttiva 2001/23, e in particolare
il suo articolo 1, par. 1, lett. a) e b) in riferimento all’art. 6 par. 1 comma
quarto, debba essere interpretata nel senso che la nozione di ‘trasferimento di
parti di impresa o di stabilimenti’ comprenda una situazione in cui una impresa
bancaria -seguendo le esigenze di modernizzazione imposte dal mercato e attivate
dai propri concorrenti del settore bancario nazionale ed internazionale-
trasferisca a terzi imprenditori dei servizi bancari in outsourcing parti di
impresa o di stabilimenti destinate allo svolgimento delle attività di
back-office qualora: a) le risorse trasferite siano organizzate in soggetto
giuridico autonomo costituito in impresa societaria al fine dello svolgimento
dell’attività economica trasferita verso il mercato, seppure sia preponderante
l’attività svolta per l’imprenditore cedente; b) l’impresa così costituita,
direttamente o mediante una propria struttura contrattuale di servizi, continui
a svolgere l’attività precedentemente svolta dalla parte di impresa o di
stabilimento ceduta od in ogni caso l’esercizio di attività economiche identiche
o analoghe a quella dell’alienante; c) l’impresa cessionaria impieghi parte
consistente del personale addetto allo svolgimento delle attività presso
l’imprenditore cedente, compreso il personale dirigenziale addetto, fatti salvi
i servizi che secondo lo statuto previsto dall’Autorità regolatrice del mercato
bancario (Banca d’Italia) non sono cedibili, per la conservazione della
governance bancaria; d) l’impresa cessionaria impeghi i suddetti lavoratori in
funzioni identiche a quelle precedentemente svolte presso il cedente; e)
l’impresa cessionaria impieghi servizi propri, nonché sistemi informativi in
parte propri ed in parte concessi in uso mediante contratti di appalto onerosi
da parte della banca cedente ed in ogni caso impieghi mezzi, per diretta proprietà
o contrattualmente procurati in modo da essere sufficientemente strutturata per
il perseguimento del proprio obiettivo consistente nella offerta di servizi sul
mercato dell’outsourcing di back-office bancario”; 3) “se la
disciplina dell’Unione Europea in tema di ‘trasferimento di parti di impresa o
di stabilimento’ (in particolare l’articolo 1, par. 1, lett.
a), in riferimento all’art.
3, par. 1, della direttiva 2001/23/CE) in relazione alla interpretazione
vincolante di essa (anche ai sensi dei principi degli artt. 267 e 189 co. 3 del Trattato, secondo
quanto affermato da C-160/14 e C-689/13)
fornita dalla sentenza della Corte di Giustizia
nella causa C-458/12 (Amatori ed altri), comporti che, in presenza di
cessione contrattuale di parti di impresa o di parti di stabilimento, una volta
identificate dai contraenti ai sensi della normativa nazionale come
interpretata dalla Corte di Giustizia e secondo la finalità da essa perseguita
di assicurare la continuità dei rapporti di lavoro con il cessionario, gli
effetti di cui all’art. 3
della direttiva si intendano applicabili a favore dei dipendenti trasferiti con
la parte di impresa o di stabilimento per effetto del contratto: ciò a
prescindere dalla preesistente attività economica, cioè di una organizzazione
volta alla fornitura di servizi, svolta dalle parti di impresa o di
stabilimento cedute, e se sia consentita o meno ai lavoratori la prova
contraria volta all’esclusione della applicazione degli effetti previsti dall’art. 3 della direttiva”.

10.2. A tal proposito, giova premettere che
l’obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la causa alla
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 citato (già art. 234 del Trattato che
istituisce la Comunità Europea), viene meno quando non sussista la necessità di
una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria, in quanto la questione
sollevata sia materialmente identica ad altra, già sottoposta alla Corte in
analoga fattispecie, ovvero quando sul problema giuridico esaminato si sia formata
una consolidata giurisprudenza di detta Corte (cfr., tra molte, Cass. n. 4776 del 2012); similmente, il rinvio
pregiudiziale, quantunque obbligatorio per i giudici di ultima istanza,
presuppone che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in
relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle
norme interne che lo disciplinano (cfr. Cass. SS.UU. n. 8095 del 2007). Invero
è noto (v. Cass. SS.UU. n. 20701 del 2013) che il rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia non costituisce un rimedio giuridico esperibile
automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice
stabilirne la necessità: infatti, esso ha la funzione di verificare la
legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell’Unione Europea e se
la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della
persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte di
Strasburgo e recepiti dal Trattato sull’Unione Europea; sicché il giudice,
effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perché
proveniente da istanza di parte (tra le altre, v. Cass. n. 6862 del 2014; Cass.
n. 13603 del 2011).

D’altro canto è incontrastato l’enunciato, più volte
ribadito da questa Corte a Sezioni unite, secondo cui la Corte di Giustizia
Europea, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato istitutivo
della Comunità economica europea, non opera come giudice del caso concreto,
bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere
da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la
funzione giurisdizionale (v. Cass. SS.UU. n. 30301 del 2017; in precedenza:
Cass. SS.UU. nn. 16886/2013, 2403/14, 2242/15, 23460/15, 23461/15, 10501/16 e
14043/16).

Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non
è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità
europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la
ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in
presenza di un “acte clair” che, in ragione dell’esistenza di
precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione,
rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (Corte di giustizia, 6
ottobre 1982, causa C- 283/81, Cilfit; e, per la giurisprudenza di questa
Corte, tra le altre: Cass. SS.UU. n. 12067 del 2007; Cass. n. 22103 del 2007; Cass. n. 4776 del 2012; Cass. n. 26924 del 2013).

10.3. Ciò premesso, non reputa questo Collegio che
le articolate difese delle istanti introducano nuovi elementi di valutazione,
pertinenti alla materia del contendere, tali da giustificare un rinvio alla
Corte di Giustizia che già si è espressa, più volte, sulle problematiche di
diritto sottese alle enunciate richieste ex art. 267 TFUE.

Invero, l’istanza di cui al punto 2) delle richieste
della Banca M.P.S. spa e quella di cui al punto 3) delle richieste della F. srl
attengono, in sostanza, entrambe al concetto di preesistenza di una attività
economica organizzata in occasione del trasferimento: in particolare, se la
preesistenza debba essere rapportata ad un profilo strutturale o funzionale; se
essa possa essere individuata come tale dai contraenti al momento della
cessione e se ai lavoratori sia consentito fornire la prova contraria volta
all’esclusione dell’applicazione degli effetti previsti dall’art. 3 della Direttiva. Le
altre istanze si riferiscono, invece, alla nozione di identità dell’azienda
dopo il trasferimento, con riguardo all’aspetto della tutela della libertà di
iniziativa del cessionario e alla possibilità (quomodo) di utilizzazione del
ramo ceduto (personale e mezzi) nell’ambito della propria struttura
organizzativa.

10.4. Orbene, deve osservarsi che in passato la
giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia, 18 marzo 1986,
C-24/85, Spdkers, punti 11 e 12) ha adottato un concetto di entità economica
per delineare la cd. “unità minima di impresa” funzionale  alla nozione di trasferimento d’azienda,
giudicando come criterio decisivo il “mantenimento dell’identità economica
trasferita”, al fine di non determinare una mera cessione di elementi
patrimoniali con l’esclusione del passaggio dei rapporti di lavoro, ma
successivamente (v. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C 13/95, Súzen, punto
14) ha iniziato a valorizzare – come si è detto – una valutazione
sistematico-complessiva di indici da cui desumere l’esistenza di una entità
economica organizzata (mezzi di gestione, organiz7azione del lavoro,
personale).

Tale scelta giurisprudenziale fu adottata dal
legislatore comunitario, in modo sistematico ed organico, appunto nella direttiva 2001/23/CE, e va qui ribadito che per
l’ordinamento comunitario il trasferimento deve riguardare una entità economica
organizzata in modo stabile (la cui attività non si limiti all’esercizio di
un’opera determinata) la quale sia costituita da qualsiasi complesso
organizzato di persone e di elementi, che consenta l’esercizio di una attività
economica che sia finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo e sia
sufficientemente strutturata ed autonoma, di talché l’entità economica deve, in
particolare, godere, anteriormente al trasferimento, di una autonomia
funzionale sufficiente (v., per tutte, Corte di
Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punto 34).

Il requisito della preesistenza (secondo la CGUE)
sta, quindi, ad indicare che il complesso organizzativo deve essere già
concretamente preordinato presso il cedente all’esercizio dell’attività
economica, in una sintesi tra elemento strutturale e profilo funzionale.

Per la Corte di Giustizia è escluso che il legame
tra autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto e la materialità dello
stesso possa derivare (soggettivamente) solo dalla qualificazione fattane dal
cedente e dal cessionario al momento del trasferimento, consentendo ai soggetti
stipulanti il negozio traslativo la libera definizione della fattispecie cui la
norma inderogabile si applica, perché ciò sarebbe in contrasto con la disciplina
comunitaria sulla inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di
trasferimento di azienda.

L’atto di identificazione da parte del cedente –
coerentemente con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di questa Corte
– deve, quindi, avere un contenuto accertativo e non costitutivo, nel senso che
la cessione presuppone l’individuazione del ramo nel contesto aziendale, ma non
la sua creazione.

10.5. Con riguardo, poi, alla possibilità per i
lavoratori di fornire prova contraria volta all’esclusione dell’applicazione
degli effetti previsti dall’art.
3 ella Direttiva 2001/23/CE, va ribadito l’assunto secondo cui l’attività
dei giudici interni nell’applicazione del diritto dell’Unione si informa al
principio dell’autonomia procedurale, in virtù del quale in assenza di
provvedimenti di armonizzazione, i diritti attribuiti dalle norme comunitarie
devono essere esercitati, innanzi ai giudici nazionali, secondo le modalità
stabilite dalle norme interne, nel rispetto dei principi di effettività e di
equivalenza.

In tema di trasferimento di azienda, secondo
l’ordinamento processuale italiano, il lavoratore ben può fare accertare in
giudizio la non ravvisabilità di un ramo di azienda in un complesso di beni
oggetto del trasferimento e, quindi, l’inefficacia di questo nei suoi confronti
in difetto del suo consenso, per l’inapplicabilità dell’art. 2112 cod. civ. e l’operatività della regola
generale di cui all’art. 1406 cod. civ. (cfr. Cass. n. 11832 del 2014).

10.6. Relativamente, poi, alla tematica
dell’identità dell’azienda, dopo il trasferimento (oggetto anche essa delle
altre richieste di rinvio pregiudiziale), è opportuno evidenziare che la
questione, così come prospettata, non risulta direttamente pertinente rispetto
alla ragione fondante il decisum della Corte territoriale, che è radicata
sull’assenza di autonomia funzionale del ramo ceduto piuttosto che
sull’utilizzazione del compendio da parte del cessionario in modo diverso,
nell’ambito della propria struttura organizzativa.

In ogni caso, con la sentenza del 12 febbraio 2009
(Corte di Giustizia, causa C- 466/07, Klarenberg, punti da 45 a 48) è stato
precisato che l’art. 1 n. 1
lett. b) della direttiva 2001/23/CE definisce esso stesso l’identità di una
entità economica facendo riferimento a un “insieme di mezzi organizzati al
fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”
ponendo, così l’accento non solo sull’elemento organizzativo dell’entità
trasferita, ma anche su quello del proseguimento della sua attività economica.

E’ stato affermato che la condizione relativa al
mantenimento dell’identità di una entità economica ai sensi della Direttiva 2001/23 va interpretata prendendo in
considerazione i due elementi, quali previsti dall’art. 1 n. 1 lett. b), della
direttiva 2001/23 che, considerati nel loro insieme, costituiscono tale
identità nonché l’obiettivo della protezione dei lavoratori contemplato da tale
direttiva. Il mantenimento di un siffatto nesso funzionale tra i vari fattori
trasferiti consente al cessionario di utilizzare questi  ultimi, anche se essi sono integrati, dopo il
trasferimento, in una nuova e diversa struttura organizzativa al fine di
continuare un’attività economica identica o analoga.

Parimenti, in altra sentenza (Corte di Giustizia, 27
febbraio 2020, causa C-298/18, Grafe, punto 26) è stato ribadito che il fatto,
per una entità economica, di rilevare l’attività economica di un’altra entità
economica, non consente di concludere nel senso che sia stata conservata
l’identità di quest’ultima, non potendo l’identità di siffatta entità essere
ridotta all’attività che le è affidata. L’identità emerge, secondo la CGUE, da
una pluralità di elementi inscindibili tra loro, quali il personale che la
compone, i suoi quadri direttivi, la sua organizzazione del lavoro, i suoi
metodi di gestione ed anche, eventualmente, i mezzi di gestione a sua
disposizione (cfr. anche Corte di Giustizia, 20
luglio 2017, causa C-416/16, Piscarreta Ricardo, punto 43), nonché il
trasferimento o meno della clientela, il grado di somiglianza delle attività
esercitate prima e dopo il trasferimento e la durata di una eventuale
sospensione di queste ultime. Il tutto in un’ottica secondo la quale tali
elementi costituiscono soltanto aspetti parziali della valutazione complessiva
cui si deve procedere e non possono, perciò, essere considerati isolatamente (Corte di Giustizia, 26 novembre 2015, causa C-509/14,
Administrador de Infraestructuras Ferro viarias, punto 32).

La Corte di Giustizia ha, quindi, sottolineato che
spetta sempre al giudice del rinvio valutare se, all’esito dell’accertamento
del procedimento principale, l’identità dell’entità trasferita sia stata
conservata (per tutte Corte di Giustizia, 20
luglio 2017, causa C- 416/16, Piscarreta Ricardo, punto 45; Corte di
Giustizia, 27 febbraio 2020, causa C- 298/18, Grafe, punto 36), in virtù, come
dinanzi più volte evidenziato, di un giudizio globale del complesso delle
circostanze che caratterizzano l’operazione.

10.7. Dato atto degli orientamenti della Corte di
Giustizia in materia (che devono ritenersi idonei – per la loro chiarezza – a
risolvere i quesiti di compatibilità avanzati dalle società ricorrenti) e non
essendo ravvisabili ulteriori elementi che impongano l’attivazione di un nuovo
rinvio pregiudiziale, perché le problematiche di diritto prospettate non si
pongono in contrasto con la normativa comunitaria ma richiedono  unicamente una valutazione di fatto degli
elementi da parte del giudice nazionale, 
vanno disattese tutte le richieste di rinvio alla Corte di Giustizia,
“non esistendo alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale
ogni qualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive,
bastando che le ragioni del diniego siano espresse (Corte EDU, caso Ullens de
Schooten & Rezabek c. Belgio) ovvero implicite laddove la questione
pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte
EDU, caso Wind Telecomunicazioni vs. Italia, §36)” (in termini: Cass. Sez.
Un. n. 14042 del 2016; conf. Cass. n. 14828 del 2018).

10.8. Pertanto, alla stregua di tutte le
argomentazioni esposte, deve essere ribadito il rigetto dei motivi di ricorso
in scrutinio.

11. Parimenti non possono trovare accoglimento il
sesto motivo del ricorso B.P.M.S. ed il quarto motivo di quello contenuto nel
ricorso di F. Srl. Quanto al primo, è evidente che correttamente la Corte
territoriale, una volta esclusa l’applicabilità dell’art.
2112 c.c. con un accertamento che ha anche superato il vaglio di
legittimità, ha ritenuto che, per la cessione individuale dei contratti di
lavoro, occorresse il consenso dei ceduti a mente dell’art. 1406 c.c.

In merito, poi, alla pretesa nullità della sentenza
d’appello perché non si sarebbe pronunciata sul motivo di gravame concernente
la decadenza ex art. 32, co. 4,
lett. c), I. n. 183 del 2010, formulata rispetto a taluni lavoratori da F.
Srl negli “atti di intervento” nel giudizio di primo grado, occorre
rilevare che la questione è priva di decisività, considerando che il soggetto
il quale intervenga in giudizio acquisendo la veste di interventore adesivo
dipendente non può, come tale, dedurre eccezioni non sollevate dal convenuto
(v. Cass. SS.UU. n. 23299 del 2011 e n. 7602 del 2010) e nella specie non viene
neanche specificamente dedotto che l’eccezione di decadenza era stata formulata
dalla Banca M.P. che era originariamente la sola convenuta in giudizio.

12. Con il ricorso incidentale proposto dai
lavoratori nei confronti di Banca M.P.S. si chiede la cassazione della sentenza
impugnata, limitatamente alla rideternninazione delle spese legali relative al
giudizio di primo grado, “dichiarando dovuta (anche) con riferimento alle
prime due fasi precedenti la riunione dei (quattro) giudizi proposti”, la
maggiorazione di cui all’art. 4,
comma 2, D.M. 55/2014.

Con il primo motivo si deduce la nullità della
sentenza impugnata per avere la Corte di appello, nel liquidare le spese legali
relative al giudizio di primo grado, escluso l’applicazione delle maggiorazioni
di cui all’art. 4, comma 2, D.M.
n. 55/2014 con riferimento alle- prime due fasi dei giudizi precedenti la
riunione, in assenza di qualsivoglia richiesta in tal senso, in violazione dell’art. 112 c.p.c.

Con il secondo mezzo si deduce ancora nullità della
medesima statuizione contenuta nella sentenza impugnata “per assoluta
carenza di motivazione”.

Da ultimo il terzo motivo denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 4,
comma 2, D.M. n. 55 del 2014, sostenendo che “il presupposto
ontologicamente necessario all’applicazione delle maggiorazioni è con tutta
evidenza costituito dall’assistenza a più 
parti, in qualunque fase del procedimento essa venga a svolgersi, e,
quindi, non solo nell’ipotesi in cui la pluralità degli assistiti sia
conseguenza della riunione”. I motivi del ricorso incidentale, esaminabili
congiuntamente per connessione reciproca determinata dalla medesima statuizione
della sentenza che impugnano, non risultano meritevoli di accoglimento.

Si controverte della rideterminazione delle spese
legali relative al primo grado di giudizio effettuata dalla Corte di Appello,
in accoglimento parziale dell’impugnazione proposta dai lavoratori sul punto,
liquidate “in complessivi euro 29.852,00 per le fasi di  studio ed introduzione ed in euro 18.935,00
per le fasi istruttoria e decisoria, oltre spese generali, iva e cpa”.

In materia di liquidazione delle spese giudiziali
questa Corte ha statuito che, a mente dell’articolo
1, comma 7, del D.M. 140/2012, in nessun caso le soglie numeriche indicate,
anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la
liquidazione del compenso nel decreto e nelle tabelle allegate sono vincolanti
per la liquidazione stessa e che, comunque, ciò che rileva è che la
liquidazione sia contenuta entro i limiti massimo e minimo (Cass. n. 18167 del
2015, la quale ha pure aggiunto che “che nessuna norma del D.M. 140/2012 impone al Giudice di liquidare le
spese indicando le percentuali di aumento o diminuzione in considerazione delle
fasi di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria”).

Il principio è stato ribadito anche con riferimento
al successivo D.M. n. 55 del 2014, per cui non
trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi
ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed
il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione
(Cass. n. 2836 del 2017; v. anche Cass. n. 21205 del 2016, secondo la quale
anche l’aumento di cui all’art.
8, co. 4, D.M. n. 55 de 2014, “è senza dubbio rimesso alla valutazione
discrezionale del giudice del merito”).

Pertanto, anche successivamente all’abrogazione
delle tariffe professionali ed all’introduzione di nuovi parametri stabiliti
con decreto ministeriale, è stato riaffermato l’insegnamento di legittimità
secondo cui, in tema di liquidazione delle spese processuali che la parte
soccombente deve rimborsare a quella vittoriosa, la determinazione dei dovuto
costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto
tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede una specifica  motivazione e non può formare oggetto di
sindacato in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 21205 del 2016; Cass. n. 12537
del 2019; Cass. n. 89 del 2021).

Ne consegue che ogni doglianza sull’applicazione dei
parametri stabiliti dal decreto ministeriale è inammissibile laddove non
censuri adeguatamente – come nella specie – che siano stati violati i minimi o
i massimi di tariffa.

E’ stato altresì statuito che “in tema di
liquidazione degli onorari di avvocato, è demandato al potere discrezionale del
giudice di merito stabilire, di volta in volta, l’aumento dell’unico onorario
dovuto per la presenza di più parti e ciò anche ove, trattandosi di più
processi distinti, sia mancato un provvedimento di riunione” (Cass. n.
8399 del 2019; Cass. n. 19089 del 2009),
precisandosi altresì che: “In caso di difesa di più parti aventi identica
posizione processuale e costituite con lo stesso avvocato, a quest’ultimo è
dovuto un compenso unico secondo i criteri fissati dagli artt. 4 e 8 d.m. n. 55 del 2014
(salva la possibilità di aumento nelle percentuali indicate dalla prima delle
disposizioni citate), senza che rilevi la circostanza che il detto comune
difensore abbia presentato distinti atti difensivi, né che le predette parti
abbiano nominato, ognuna, anche altro diverso legale, in quanto la
“ratio” della disposizione di cui al menzionato art. 8, comma 1, è quella di
fare carico al soccombente solo delle spese nella misura della più concentrata
attività difensiva quanto a numero di avvocati, in conformità con il principio
della non debenza delle spese superflue, desumibile dall’art. 92, comma 1, c.p.c.” (Cass. n. 25803
del 2017; v. pure Cass. n. 17215 del 2015 e Cass.
n. 17147 del 2015).

Pertanto la sentenza della Corte di Appello, alla
quale era stata sicuramente devoluta per intero la questione della
riliquidazione delle spese giudiziali di primo grado, non è sindacabile in
questa sede di legittimità sotto il profilo dell’esercizio discrezionale di
stabilire le maggiorazioni previste in caso di presenza di una pluralità di
parti, fermo il limite del rispetto minimo e massimo della tariffa.

13. Conclusivamente, accertata la cessazione della
materia del contendere tra le parti che hanno concluso accordi di
conciliazione, entrambi ì ricorsi delle società vanno respinti, così come il
ricorso incidentale dei lavoratori.

Le spese, relativamente alle parti che non hanno
conciliato, vanno liquidate nel modo che segue: a totale carico di F. Srl,
secondo soccombenza, liquidate come da dispositivo; con compensazione parziale,
stante la reciproca soccombenza, nella misura pari ad 1/5, con il residuo di
4/5 posto a carico di Banca M.P.S. Spa, liquidate per l’intero come da
dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228
del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte di tutte le parti ricorrenti, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per i
ricorsi, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315
del 2020).

 

P.Q.M.

 

dichiara
la cessazione della materia del contendere tra Banca M.P.S. Spa e F. Srl con i
seguenti lavoratori: F.C., P.F., F.S., C.S., R.C., M.E., P.A., L.M., F.M.,
G.V., A.B., D.N.F., A.C., P.R., G.E., P.S., P.L., T.A., S.S., Z.P., R.M., C.F.,
Z.S., R.E., F.E., F.R.M., L.A., L.A., R.N., M.F., G.P., D.M.B., F.F., C.G.,
V.C., C.M., Z.A., V.M., P.A.L., V.V., G.F., F.L., S.M., A.S., P.N., D.C.M.,
A.E., B.M., C.M., C.S., G.M., T.C., P.M.F., B.G., D.P., C.M.G..

dichiara compensate le spese del giudizio di
legittimità tra dette parti.

Rigetta i ricorsi di tutte le altre parti; compensa
per 1/5 le spese del giudizio di legittimità tra Banca M.P.S. ed i lavoratori
ricorrenti in via incidentale che non hanno conciliato, ponendo le residue a
carico della società liquidate per l’intero in euro 12.000,00, oltre euro
200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%; condanna
F. Srl al pagamento delle spese del giudizio di legittimità sostenute dai
lavoratori che non hanno conciliato, liquidate in euro 12.000,00, oltre euro
200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R.
30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di tutte le
parti  ricorrenti, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per i ricorsi
proposti, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2021, n. 7364
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