Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 marzo 2021, n. 6714

Licenziamento, Assenza per aspettativa per lo svolgimento di
carica pubblica, Sospensione dal servizio e dalla retribuzione, Misura
restrittiva della libertà personale

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n.
20181 del 2018, ha rigettato il reclamo proposto avverso la pronuncia del
Tribunale della stessa sede con la quale era stata confermata la ordinanza del
25.6.2017 di rigetto della domanda di declaratoria della illegittimità del
licenziamento intimato da A.I.P. spa al dipendente T.A..

2. Nella gravata decisione si legge che il predetto
T. era stato assunto in data 15.2.1999 da S.M.T. Società Mineraria del
Trasimeno (società facente parte del Gruppo A.), divenuta A. Luce spa con
successiva prosecuzione del rapporto di lavoro, dal maggio 2005, con A.
distribuzione spa e successivamente, dall’1.5.2013, con A. Illuminazione
pubblica spa.

3. Il lavoratore, dopo un periodo di assenza per
aspettativa per lo svolgimento di carica pubblica dal 2013 all’1.4.2015 (quale
Presidente del X Municipio) era stato sospeso dal servizio e dalla retribuzione
con effetto dal 4.6.2015, a seguito dell’applicazione nei suoi confronti di una
misura restrittiva della libertà personale e, in data 17.6.2016, gli era stato
notificato il provvedimento di revoca della misura cautelare degli arresti
domiciliari.

4. Con lettera ricevuta dal T. in data 30.6.2016,
l’Acca gli aveva comunicato: <Con riferimento alla nostra del 4.6.2015 n.
54, con la quale abbiamo disposto la sua sospensione dal servizio e dalla
retribuzione in conseguenza della Sua impossibilità di rendere la prestazione
lavorativa, le comunichiamo la risoluzione del rapporto di lavoro. Detta
risoluzione viene intimata per gli effetti dell’art. 34 comma terzo del CCNL
applicato alla unità produttiva di appartenenza, con efficacia dalla data di
ricezione della presente e liquidazione della indennità di mancato preavviso.

Il protrarsi della Sua assenza ha peraltro
determinato il venir meno dell’interesse datoriale alla sua eventuale e futura
prestazione lavorativa>.

5. I giudici di seconde cure, in sintesi, hanno
rilevato che: a) la disposizione contrattuale collettiva richiamata (art. 34 CCNL elettrici)
corrispondeva alla situazione di fatto per la quale la società aveva disposto
il licenziamento e aveva introdotto, in favore del lavoratore, una ipotesi
particolare di sospensione del rapporto di lavoro che precludeva per dodici
mesi l’esercizio del potere di recesso ex art. 1464
cc; b) al di là della esattezza della norma collettiva richiamata, il
licenziamento era stato determinato dalla mancata prestazione di attività
lavorativa, da parte del T., per un periodo superiore ad un anno, e trovava il
suo fondamento nella disciplina di legge dettata dagli artt. 1463 e 1464 cod.
civ.; c) la fattispecie della previsione del recesso di cui all’art. 1464 cc non era strettamente equiparabile
alla risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo, determinata
dalla volontà del datore di lavoro per il proseguimento degli interessi
collegati alle sue scelte organizzative; d) nella fattispecie andavano
valutati, ai fini dei giudizio di intollerabilità: 1) il protrarsi della
assenza dal 4.4.2015 al 27.6.2016 (che era oggettivamente suscettibile di
incidere sull’organizzazione dell’attività di impresa e di determinare una
grave disfunzione); 2) la necessità di modifiche, nell’anno di assenza del
lavoratore e nella unità di appartenenza dello stesso, dell’assetto aziendale
che non consentiva un proficuo inserimento dello stesso; 3) la irrilevanza
delle dimensioni della società, circa la durata della custodia cautelare,
perché comunque essa doveva rispondere a criteri di economicità; e) con la
lettera del 27.6.2018, pervenuta il 30.6.2016, il lavoratore si era limitato ad
offrire solo formalmente le proprie prestazioni, chiedendo un ulteriore periodo
di aspettativa con effetto immediato e per un anno, per l’impegno che lo vedeva
coinvolto nella vicenda penale.

6. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per
cassazione, affidato a due motivi, Andrea T. il quale, con comparse del
10.12.2018, si è costituito con un nuovo difensore.

7. L’ A. spa ha resistito con controricorso
illustrato con memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo il ricorrente denunzia la
violazione e falsa applicazione dell’art. 12 delle
preleggi ai cod. civ., in relazione agli artt.
1463 e 1464 cod. civ. nonché la motivazione
apparente e contraddittoria ed il vizio ex art. 360
co. 1 n. 3 e n. 5 cod. civ. Deduce che la Corte di merito, dopo avere dato
indubbia rilevanza alla norma contrattuale cui l’A. spa aveva ricondotto il
licenziamento (art. 34 CCNL
elettrici che però non riguardava il T. a cui era sempre stato applicato il
CCNL Gas – Acqua) e di avere sottolineato che ciò che contava era l’identità
dei fatti posti a base del recesso, aveva, poi, con una motivazione
contraddittoria, illogica e non coerente, fatto rientrare il licenziamento in
contestazione sia nella categoria giuridica di cui all’art. 1463 cod. civ. (impossibilità sopravvenuta
totale della prestazione) sia in quella di cui all’art.
1464 cc (impossibilità parziale della prestazione), che, secondo l’assunto
del T., avrebbe però legittimato solo la sospensione del rapporto di lavoro e non
la sua definizione.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e
falsa applicazione del combinato disposto degli artt.
112, 113,
132 n. 4 cpc,
118 disp att. Cpc e degli artt. 2 e 3 della legge n. 604 del
1966, il vizio ex art. 360 co. 1 n. 3 cpc,
la motivazione insufficiente e contraddittoria nonché il vizio ex art. 360 co. 1 n. 4 e 5 cpc. Si sostiene che la
Corte di appello, in presenza di un licenziamento sprovvisto di motivazione,
aveva colmato le evidenti lacune avvalendosi di poteri che non le competevano,
ben oltre quello decisionale attribuitole dalla legge, concretizzando così una
conclamata violazione dei principi cardine del processo rappresentati dal
divieto di ultra o extra petizione e dall’obbligo di rendere una motivazione
sufficiente, logica e ordinata. In particolare, precisa che la Corte
territoriale aveva fondato la propria decisione sulla legittimità del
licenziamento non applicando i contenuti precettivi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966
ed escludendo l’obbligo del repéchage pur avendo ipotizzato il giustificato
motivo oggettivo di licenziamento.

4. Il primo motivo è infondato.

5. E’ opportuno premettere che il richiamo
effettuato dalla Corte territoriale all’art. 34 CCNL Elettrici, operato
nella lettera di contestazione, è stato svolto unicamente per rappresentare ia
situazione di fatto in relazione alla quale era stato disposto il licenziamento
del dipendente.

6. Con tale richiamo i giudici di seconde cure non
hanno specificato che il Contratto Collettivo Elettrici regolasse il rapporto
di lavoro del T. né che il recesso dovesse essere modulato in relazione a tale
disposizione, ma si sono limitati a ritenerlo elemento idoneo a rappresentare
al lavoratore le ragioni del recesso: cioè una assenza prolungata per più di
dodici mesi che aveva determinato il venire meno dell’interesse datoriale alla
sua eventuale e futura prestazione residua.

7. Ciò non contrasta con i principi affermati in
sede di legittimità secondo i quali la funzione della motivazione del
licenziamento resta quella di consentire al lavoratore di comprendere, nei
termini essenziali, le ragioni del recesso (Cass
n. 16795 del 2020; Cass n. 6678 del 2019).

8. Inoltre, la Corte di merito non ha fatto
rientrare la fattispecie in questione sia nell’ambito operativo dell’art. 1463 cod. civ. che di quella dell’art. 1464 cod. civ.: ha richiamato entrambe le
norme per sottolineare che il caso concreto gravitasse nel contesto giuridico
dell’istituto della “impossibilità sopravvenuta” dell’obbligazione,
ma poi ha inquadrato, nello specifico, la vicenda in questione nella previsione
del recesso di cui all’art. 1464 cc, non
strettamente equiparabile alla risoluzione del rapporto per giustificato motivo
oggettivo, ma determinata, invece, dalla mancanza di un interesse apprezzabile
all’adempimento parziale della prestazione.

9. Infatti, la persistenza o meno di un interesse
rilevante a ricevere le ulteriori prestazioni, in ipotesi di assenza dal lavoro
per carcerazione preventiva, deve essere parametrata alla stregua di criteri
oggettivi, riconducibili a quelli fissati nell’ultima parte dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966,
e cioè con riferimento alle oggettive esigenze dell’impresa, da svolgere, però,
con una valutazione ex ante, e non già ex post, in cui si tenga conto delle
dimensioni dell’impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della
natura ed importanza delle mansioni del dipendente, del già maturato periodo di
sua assenza, della ragionevole prevedibilità di ulteriore durata
dell’impossibilità, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le
mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra
circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità
dell’assenza (Cass n. 19135 del 2016; Cass. n.
12721 del 2009).

10. La Corte territoriale si è attenuta a tali
principi e con un accertamento in fatto, da cui è possibile evincere la ratio
decidendi di talché resiste alle censure di avere adottato una motivazione
apparente, illogica e contraddittoria -che sussiste invece solo quando non è
consentito alcun controllo sulla esattezza e sulla logicità del ragionamento
decisorio così da non attingere la soglia del cd. “minimo costituzionale”
richiesto dall’art. 111 Cost. (Cass n. 13248
del 2020; Cass n. 17196 del 2020)- ha ritenuto che il protrarsi dell’assenza
del dipendente, per più di un anno, fosse tale da determinare appunto la
perdita di interesse del datore di lavoro alla eventuale prestazione residua.

11. Né può condividersi l’assunto del ricorrente
secondo cui la fattispecie dell’art. 1464 cod. civ.
legittimerebbe solo la sospensione del rapporto e non anche la sua definizione.

12. Invero, il dato normativo è chiaro
nell’attribuire al datore di lavoro anche tale ultima facoltà che, secondo la
giurisprudenza di legittimità, è consentita solo quando, sulla base di tutte le
circostanze del caso concreto, non si possa prevedere (dunque necessariamente a
livello di prognosi) la ripresa dell’attualità del rapporto senza significativi
pregiudizi per l’organizzazione del datore di lavoro in relazione alla
prevedibile durata dell’assenza (Cass. n. 1591 del
2004).

13. Anche il secondo motivo è infondato.

14. In primo luogo, va escluso ogni vizio di ultra o
extra petizione della gravata pronuncia, che si ha quando il giudice,
interferendo nel potere dispositivo delle parti, altera gli elementi obiettivi
dell’azione ovvero, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa emette un
provvedimento diverso da quello richiesto oppure attribuisce o nega un bene
diverso dalla vita diverso a quello conteso (Cass n. 18868 del 2015; Cass. n.
455 del 2011): ipotesi non ravvisabili nella fattispecie.

15. In secondo luogo, deve osservarsi che i giudici
di seconde cure, a fronte di una motivazione specifica e intellegibile del
licenziamento (come sopra evidenziata) hanno correttamente valutato le circostanze
obiettive che giustificavano il provvedimento di licenziamento all’atto della
sua adozione.

16. Al riguardo, giova precisare che nella
comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l’onere di specificare i
motivi ma non è tenuto, neppure dopo la modifica legislativa dell’art. 2 co. 2 legge n. 604 del 1966
per opera dell’art. 1 co. 37 della
legge n. 92 del 2012, ad esporre in modo analitico tutti gli elementi di
fatto e di diritto alla base del provvedimento (Cass.
n. 16795 del 2020).

17. I giudici di appello hanno valutato, senza
quindi incidere sulla motivazione del recesso, i criteri normativi di
riferimento di cui all’art. 3
legge n. 604 del 1966 che, sebbene non strettamente vincolanti o
limitativi, costituiscono gli indici per accertare l’oggettiva carenza
dell’interesse del datore di lavoro alla residua prestazione ex art. 1464 cod. civ.

18. Essi hanno perciò ritenuto, sulla base delle
allegazioni difensive prospettate dalla società (che in sede di appello non
erano state specificamente censurate), che, nell’anno di assenza del
lavoratore, nell’unità di appartenenza erano intervenute modifiche tali da non
consentire un proficuo inserimento lavorativo di quest’ultimo; inoltre hanno
evidenziato che le dimensioni dell’azienda non incidevano sulla irrilevanza,
per il datore di lavoro, della durata della custodia cautelare e che,
oggettivamente, una assenza di più di un anno di una posizione lavorativa era
in grado di ricadere sulla organizzazione dell’attività di impresa.

19. Si tratta di una valutazione svolta per
accertare l’interesse dell’imprenditore alla prestazione lavorativa, rimessa al
giudice di merito, che vi ha provveduto avendo riguardo alle possibili e
prevedibili capacità lavorative del prestatore e alla organizzazione
dell’azienda: detta valutazione in fatto, correttamente e congruamente
motivata, non è censurabile in sede di legittimità.

20. In modo condivisibile, da ultimo, è stata
esclusa l’operatività dell’obbligo di repéchage in quanto, nel caso di
impossibilità sopravvenuta ex art. 1464 cod. civ.
per stato di detenzione del lavoratore – a differenza di quanto accade nel caso
di licenziamento per giustificato motivo oggettivo – vi è un fatto oggettivo,
estraneo alla volontà del datore di lavoro e non riconducibile alle sue scelte
imprenditoriali, che incide sulla organizzazione aziendale comportandone, di
per sé una modificazione connessa alla incapacità totale di usufruire – per la
imprevedibilità della durata della sospensione – di ogni prestazione lavorativa
di quel determinato dipendente, con conseguente impossibilità di ipotizzare
ogni ricollocamento alternativo e/o parziale.

21. In altri termini, vi è una ragione ostativa che
rileva intuitu personae sicché il repéchage è escluso per una impossibilità
intrinseca di operatività di detto istituto che richiede, invece, pur sempre
una fungibilità ed una idoneità attuale lavorativa (sia pure parziale) del
dipendente, sincroniche alla determinazione datoriale.

22. Alla stregua, pertanto, di quanto esposto, il
ricorso deve essere rigettato.

23. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, nel testo risultante dalla legge
24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali,
sempre come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie della misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro
200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del DPR n.
115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello
stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 marzo 2021, n. 6714
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