La mancata comunicazione, ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali, dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare per riduzione di personale rende il licenziamento inefficace. In caso di cessazione dell’attività aziendale non è possibile la reintegrazione del lavoratore.
Nota a Cass. 16 marzo 2021, n. 7363
Paolo Pizzuti e Flavia Durval
In materia di licenziamenti collettivi (ai sensi della L. 23 luglio 1991 n. 223), in caso di violazione della norma di cui all’art. 4, co. 9, L. n. 223/1991, che impone al datore di lavoro di dare comunicazione, ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali, delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, si applica la sanzione dell’inefficacia del licenziamento (di cui all’art. 5, co. 3). Tale inefficacia può essere fatta valere da ciascun lavoratore interessato nel termine di decadenza di 60 giorni (ex art. 5, cit.), mentre al relativo vizio procedurale può essere dato rimedio mediante il compimento dell’atto mancante o la rinnovazione dell’atto viziato (v. Cass. SU nn. 419/2000 e 302/2000).
Come noto, solo attraverso le comunicazioni di cui all’art. 4, co. 9, è possibile per l’interessato conoscere, in via indiretta, le ragioni della propria collocazione in mobilità (non essendo prescritta alcuna comunicazione dei motivi del recesso al singolo lavoratore).
Pertanto, “la comunicazione che l’impresa che intende avviare la procedura di mobilità e quindi di licenziamento collettivo è tenuta a dare all’ufficio regionale del lavoro ai sensi dell’art. 5 della legge 23 luglio 1991 n. 223 non può considerarsi mero adempimento formale ed accessorio, ma elemento essenziale della procedura, come si evince dall’art. 4 della citata legge” (v. Cass. n. 11258/2000).
Questo, il primo principio espresso dalla Corte di Cassazione (16 marzo 2021, n. 7363, parz. difforme da App. Roma 2 dicembre 2016). Al riguardo, il giudice del merito aveva rilevato che il datore di lavoro aveva omesso di indicare i criteri per l’individuazione dei lavoratori da licenziare, nonché le modalità attuative di tali criteri, non provvedendo, altresì, non solo alla comunicazione degli stessi alla UGL, ma anche al competente ufficio territoriale per il lavoro (in violazione del combinato disposto degli artt. 5, co.5 e 4, co.9, L. n. 223/1999).
Il secondo principio ribadito dalla Cassazione, in difformità con i giudici del merito, concerne la reintegrazione nel posto di lavoro dei dipendenti destinatari di un licenziamento collettivo. Sul punto, i giudici precisano che:
– la reintegra “è un effetto della pronuncia emessa ex art. 18 L. n. 300 del 1970, estranea all’esercizio di diritti potestativi del datore di lavoro, che quindi in ogni momento può dedurne la totale o parziale inapplicabilità al caso oggetto di lite” (v. anche Cass. n. 1888/2020, in q. sito con nota di D. MAGRIS, e Cass. n. 28703/2011);
– la tutela reale del posto di lavoro, apprestata con la reintegrazione, non può cioè spingersi fino ad escludere la possibile incidenza di successive vicende determinanti l’estinzione del vincolo obbligatorio. Fra queste, va compresa la sopravvenuta materiale impossibilità totale e definitiva di adempiere l’obbligazione non imputabile (di cui all’art. 1256 c.c.), “ravvisabile nella sopraggiunta cessazione totale dell’attività aziendale, da accertare, caso per caso, per es. anche ove l’imprenditore sia stato ammesso alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori” (v. Cass. n. 7267/1998). Ciò, in quanto la cessazione definitiva dell’attività aziendale, nel senso della “disgregazione del relativo patrimonio, rende impossibile il substrato della prestazione lavorativa”, legittimando (ex artt. 1463 e 1256 c.c., coordinati con la L. n. 604/1966) il recesso del datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo.
Pertanto, qualora nel corso del giudizio promosso dal lavoratore per ottenere la declaratoria di illegittimità di un licenziamento, sopravvenga un “mutamento della situazione organizzativa e patrimoniale dell’azienda tale da non consentire la prosecuzione di una sua utile attività”, il giudice che accerti l’illegittimità del licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, in ragione del sopravvenire di una causa impeditiva della reintegrazione medesima. “Egli dovrà perciò limitarsi ad accogliere la domanda di risarcimento del danno, con riguardo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto”. In tal caso, resta infatti preclusa la possibilità del lavoratore di continuare il rapporto di lavoro (v. Cass. n. 1888/2020, cit., nonché, Cass. n. 7189/1996);
– non è dunque irrilevante, ai fini dell’emissione di un ordine di reintegra, il venir meno dell’attività produttiva, quale fatto sopravvenuto in corso di giudizio e idoneo (se provato) a costituire ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione ex art. 1463 c.c.;
– “la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro può essere disposta anche nei confronti di società poste in liquidazione, ma solo se l’attività sociale non sia definitivamente cessata e non vi sia stato l’azzeramento effettivo dell’organico del personale. Tale presupposto, tendenzialmente insussistente in presenza di un intervenuto fallimento, può, tuttavia, verificarsi là dove sia stato previsto un esercizio provvisorio dell’attività” (Cass. n. 16136/2018 e Cass. n. 2983/2011).