Per dichiarare nullo un patto di non concorrenza ai sensi dell’art. 2125 c.c. occorre avere riguardo a corrispettivi simbolici, iniqui o sproporzionati, nonché al sacrifico del lavoratore ed alla riduzione della possibilità di guadagni futuri.
Nota a Cass. 1 marzo 2021, n. 5540
Flavia Durval
La nullità del patto di non concorrenza deve essere riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di corrispettivi che risultino manifestamente iniqui o sproporzionati e va rapportata al sacrificio richiesto al lavoratore nonché alla riduzione delle sue possibilità di guadagno.
Così, la Corte di Cassazione 1 marzo 2021, n. 5540 (difforme da App. Milano n. 1469/2017), la quale precisa che l’istituto del patto di concorrenza va analizzato sia da un punto di vista strutturale che funzionale agli interessi coinvolti.
Sotto il primo aspetto, il patto configura un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in ragione del quale “il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro o altra utilità al lavoratore e questi si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, a non svolgere attività concorrenziale con quella del datore” (v. già Cass. n. 2221/1988).
Per quanto concerne il secondo profilo (interessi meritevoli di tutela regolati dal patto), le clausole di non concorrenza sono caratterizzate da una duplice finalità: a) salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda; b) tutelare la libertà del lavoratore subordinato, affinché le suddette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (v., fra tante, Cass. n. 9790/2020, in q. sito con nota di M.N. BETTINI, e Cass. n. 24662/2014).
Allo scopo di garantire che tale libertà non possa essere limitata in modo tale da compromettere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore, pregiudicandone ogni potenzialità reddituale, il legislatore ha subordinato la validità del patto di non concorrenza a specifiche condizioni – espressamente indicate dall’art. 2125 c.c., secondo cui “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo”.
Con particolare riferimento al corrispettivo, la Cassazione, già con la sentenza n. 10062 del 1994 ha affermato che, anche se nella sua formulazione letterale la norma richiede soltanto che sia fissato un compenso a favore del prestatore di lavoro (che deve possedere i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c. e, cioè, deve essere “determinato o determinabile”, v. Cass. n. 16489/2009), appare implicito un requisito di adeguatezza che risponde alla ratio di tutelare gli interessi del lavoratore, sottesa anche alla imposizione di limiti di oggetto, tempo e luogo previsti dalla norma codicistica. Per cui, “l’espressa previsione di nullità va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore, alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato”.
In questo quadro, le SU della Cassazione (n. 22437/2018 e n. 9140/2016), sulla scorta di quanto enunciato dalle ordinanze della Corte costituzionale n. 77 del 2014 e n. 248 del 2013 (secondo cui il principio di solidarietà sociale, in combinato contesto con la clausola di buona fede, consente al giudice di rilevare la nullità di una clausola che determini a carico di una delle parti un “significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali”, ove ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto) hanno affermato la necessità d’indagare se il patto in questione presenti “un arbitrario squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio”, ossia un corrispettivo in favore del prestatore “manifestamente iniquo o sproporzionato”.
Tutto ciò premesso, secondo la Cassazione, la sentenza impugnata è viziata da “una anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto contiene un contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, tale da rendere non realmente comprensibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento del giudice, precludendo un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento”. La Corte di merito, infatti, ha dapprima ritenuto che il patto in oggetto fosse nullo perché mancava “la determinazione o la determinabilità del corrispettivo riconosciuto a favore del lavoratore” e, in un secondo momento, ha ammesso che il corrispettivo era determinabile; dopodiché, si è soffermata sulla “congruità” del corrispettivo medesimo ed ha infine osservato che “l’ammontare del compenso dipendeva da una variabile legata alla durata del rapporto”, contraddicendosi palesemente poiché “dire che un corrispettivo è variabile in relazione alla durata del rapporto di lavoro, non significa affatto che esso non sia determinabile in base a parametri oggettivi, atteso che si ha determinabilità quando sono indicati, anche per relationem, i criteri in base ai quali si fissa la prestazione, così sottratta al mero arbitrio” (v. Cass. n. 12743/1999).
Conclusivamente, quindi, dal momento che i giudici del merito non hanno tenuto adeguatamente distinte cause di nullità del patto di non concorrenza, la Cassazione ha rinviato la questione alla Corte di Appello “affinché proceda ad un nuovo esame valutando distintamente la questione della nullità per mancanza del requisito di determinatezza o determinabilità del corrispettivo pattuito tra le parti e, poi, verificando che il compenso, come determinato o determinabile, non fosse simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore, alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresentava per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato”.