Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 aprile 2021, n. 9105
Rapporto di lavoro dipendente, TFR maturato, Contratto
collettivo tedesco, Legge tedesca, Giurisdizione, Articolo 6 della Convenzione di Roma
– Criteri di collegamento
Rilevato che
1. Con ricorso dinanzi al Tribunale di Roma, in
funzione di giudice del lavoro, il G.I. proponeva opposizione avverso il
decreto ingiuntivo con il quale veniva ordinato il pagamento in favore di D.M.
(D.V.D.M. in M., avente doppia cittadinanza, italiana e tedesca) della somma di
euro 142.738,02 a titolo di TFR maturato in ragione del rapporto di lavoro
dipendente in esecuzione tra le parti fino al 30 aprile 2009, deducendo in
particolare, oltre al difetto di giurisdizione del giudice italiano e alla
prescrizione, che la lavoratrice aveva accettato di applicare al proprio
rapporto di lavoro il contratto collettivo tedesco (BAT) di volta in volta in
vigore presso il G.I., contratto collettivo che non prevede il TFR, a fronte di
una retribuzione maggiore rispetto a quella di un dipendente cittadino
italiano.
2. Con sentenza n. 7512/2013 il Tribunale di Roma
accoglieva l’opposizione.
Affermata la giurisdizione del giudice italiano e
rigettata l’eccezione di prescrizione sollevata dall’opponente, riteneva
applicabile alla controversia la norma nazionale sul TFR, escludendo tuttavia
che la lavoratrice avesse subito un danno, poiché il TFR era stato conglobato
nella retribuzione.
3. D.M. proponeva appello dinanzi alla Corte di
appello di Roma, ribadendo che al rapporto di lavoro era applicabile la legge
italiana sia in base alla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle
obbligazioni contrattuali del 19.6.1980, sia in forza del BAT sottoscritto tra
le parti, che faceva salva, all’art.
2, comma 2, l’applicazione delle leggi locali; che la norma nazionale che
disciplina il TFR ha natura cogente e come tale non può essere derogata; che il
TFR non è un pagamento ritardato che può essere inglobato nella retribuzione;
che l’applicazione del “BAT” al rapporto individuale non implicava
una rinuncia al TFR.
4. Con sentenza n. 5145/2017, la Corte di appello di
Roma, rigettate le eccezioni riproposte in appello dal G.I. (eccezione di
nullità della notifica del decreto ingiuntivo ed eccezione di prescrizione), in
riforma della decisione di primo grado, respingeva l’opposizione a decreto
ingiuntivo, compensando integralmente le spese del doppio grado di giudizio.
5. Per quanto qui ancora interessa la Corte
territoriale statuiva che secondo la Convenzione di Roma, in particolare
l’articolo 6, comma secondo, lettera a), mancando la scelta delle parti circa
la normativa da applicare, il contratto di lavoro tra le parti doveva intendersi
regolato dal diritto italiano, cioè dalla legge del Paese in cui il lavoratore,
in esecuzione del contratto compie abitualmente il suo lavoro. La Corte romana
statuiva poi non esservi dubbi sulla cogenza dell’art.
2120 cod. civ., che quindi sì sarebbe dovuto applicare anche se le parti
avessero scelto una normativa straniera. La Corte territoriale accoglieva anche
il motivo di appello relativo all’inglobamento del TFR nella retribuzione,
statuendo che l’inglobamento nella retribuzione del TFR è possibile solo in
presenza di un accordo tra datore e lavoratore, accordo non emerso nella
fattispecie, ed in presenza di specifiche condizioni, pure non sussistenti, e
doveva escludersi che la lavoratrice avesse rinunciato al TFR mediante la
sottoscrizione dell’accordo “BAT”.
6. Contro quest’ultima sentenza il G.I. propone
ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. D.M. resiste con
controricorso, seguito da memoria ex art.
380-bis.1. cod. proc. civ.
Considerato che
1. Il ricorso è parzialmente fondato, analogamente a
quanto statuito da questa Corte con la sentenza n.
30416 del 2019, in fattispecie completamente sovrapponibile a quella in
esame, riguardante un’altra dipendente del G.I. che, del pari, aveva
rivendicato il pagamento del TFR. In questa sede devono essere richiamati
testualmente i passaggi argomentativi posti a fondamento della precedente
pronuncia, essendo del tutto analoghe anche le censure svolte dal G.I.
2. Con il primo motivo il G.I. denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 3
della Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle
obbligazioni contrattuali (resa esecutiva con la l. n. 975/1984) ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.. Il
ricorrente rimprovera in particolare al giudice di appello di essere giunto
all’applicazione alla fattispecie controversa della legge italiana sulla base
dell’art. 6, comma 2, lettera a)
della Convenzione, che fa riferimento, per i rapporti di lavoro, alla legge
del luogo ove si svolge la prestazione di lavoro, sulla base del falso
presupposto del non avere le parti scelto l’applicazione della legge tedesca a
termini del citato articolo 3,
circostanza che invece emergeva chiaramente dagli atti e che sarebbe stata
affermata da numerosi precedenti di merito che avevano interessato altri
dipendenti del G.I..
3. Con il secondo motivo viene denunciata la
violazione del citato art. 6,
comma 2, della stessa Convenzione, sempre ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. Deduce il
ricorrente che anche a voler seguire la Corte territoriale sulla mancanza di
scelta della legge applicabile effettuata dalle parti, tale Corte avrebbe
errato nell’applicare la regola dell’art. 6, comma 2, lettera a) della
Convenzione, che come detto fa riferimento, per i rapporti di lavoro, alla
legge del luogo ove si svolge la prestazione di lavoro, giacché essa non
avrebbe tenuto conto della “norma di chiusura” dell’art. 6 che prevede una deroga a
detta regola – come a quella prevista dalla successiva lettera b), che fa
riferimento alla legge del Paese dove si trova la sede che ha proceduto ad assumere
il lavoratore, qualora questi non compia abitualmente il suo lavoro in uno
stesso Paese – allorché risulti dall’insieme delle circostanze che il contratto
di lavoro presenta un collegamento più stretto con un altro Paese.
Questa norma sarebbe stata ignorata dalla Corte
d’appello, tra l’altro in spregio degli insegnamenti della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea.
4. Con il terzo motivo il G.I. lamenta la violazione
e la falsa applicazione dell’art.
6, comma 1, della stessa Convenzione di Roma, sempre ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. Questa
doglianza riguarda un’ulteriore statuizione della sentenza impugnata che, pur
dichiarando assorbito il secondo motivo di appello della M., che sosteneva in
ogni caso la natura cogente dell’art. 2120 cod.
civ. in tema di riconoscimento del TFR, ha ritenuto di condividere tale
natura cogente, considerando, in astratto, dovuto il TFR anche laddove le parti
avessero scelto una normativa straniera, in base al citato articolo 6, primo comma della
Convenzione di Roma che fa salva l’applicazione delle norme imperative
nazionali. Secondo l’Istituto ricorrente, che cita diverse sentenze di merito
che avrebbero accolto questa tesi, la normativa italiana sul TFR potrebbe
considerarsi cogente solo nella misura in cui detta retribuzione differita
comporti effettivamente un trattamento economico complessivamente più
favorevole per il lavoratore.
5. Con il quarto motivo il ricorrente deduce nullità
della sentenza e/o del procedimento ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. Vengono sollevate due
doglianze: con la prima, si lamenta l’omessa pronuncia della Corte di appello
sulle eccezioni del G.I. volte a quantificare il TFR in misura minore di quella
riportata nel decreto ingiuntivo; con la seconda si deduce la mancata
considerazione sempre da parte della Corte di appello della richiesta del
ricorrente volta alla dichiarazione dell’assenza dei presupposti per
l’emissione del decreto ingiuntivo.
6. Il primo motivo, che viene presentato come
denuncia della violazione di norme di diritto, in realtà non muove alcun
rimprovero alla sentenza impugnata sul modo nel quale la norma invocata, cioè
dell’art. 3 della Convenzione di
Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (resa
esecutiva con la legge n. 975/1984; in seguito: la Convenzione), applicabile
ratione temporis, è stata interpretata ed applicata dalla Corte territoriale.
L’istituto ricorrente lamenta, come si è detto, che la Corte romana sia giunta
all’applicazione alla fattispecie controversa della legge italiana sulla base
dell’art. 6, comma 2, lettera
a) della Convenzione, che fa riferimento, per i rapporti di lavoro, alla legge
del luogo ove si svolge la prestazione di lavoro, sulla base del falso
presupposto del non avere le parti scelto l’applicazione della legge tedesca a
termini del citato articolo 3,
circostanza che invece emergeva chiaramente dagli atti e che sarebbe stata
affermata da numerosi precedenti di merito che avevano interessato altri
dipendenti del G.I.
7. Sono quindi inammissibilmente sollevate in questa
sede questioni di puro fatto relativamente alla circostanza – accertata
negativamente dalla Corte di appello – della scelta della legislazione tedesca
che le parti avrebbero compiuto secondo l’Istituto ricorrente. Non viene
neanche denunciato un vizio di motivazione. Il motivo è dunque da rigettare.
8. Il secondo motivo è invece fondato e deve essere
accolto.
9. Effettivamente la Corte territoriale, pur
trascrivendo integralmente l’art.
6 della Convenzione di Roma, compresa la “norma di chiusura”
invocata dall’Istituto ricorrente, applica direttamente il paragrafo 2 lett. a)
di questa disposizione, che rinvia alla legge del luogo di esecuzione della
prestazione di lavoro, e non dà minimamente conto dell’esame globale delle
circostanze, che astrattamente potrebbero far ritenere che il contratto di
lavoro presenti “un collegamento più stretto con un altro Paese”, ciò
che condurrebbe all’inapplicabilità della lettera a) e all’applicazione della
legge di quest’ultimo Paese.
10. La giurisprudenza della Corte di giustizia
dell’Unione europea ha fissato con chiarezza i principi che presiedono
all’applicazione di questa disposizione.
11. La Corte di Lussemburgo ha osservato che si deve
innanzitutto ricordare che l’articolo
6 della Convenzione di Roma fissa norme di diritto internazionale privato
speciali relative al contratto individuale di lavoro che derogano a quelle di
carattere generale di cui agli articoli
3 e 4 della Convenzione in esame, riguardanti rispettivamente la libertà di
scelta della legge applicabile e i criteri di determinazione di quest’ultima in
mancanza di una scelta siffatta (v., in tal senso, sentenze
del 15.3. 2011, Koelzsch C-29/10, Racc. pag. 1-1595, punto 34, e del 15.12.2011, Voogsgeerd, C-384/10, Racc. pag.
1-13275, punto 24, citata dall’Istituto ricorrente). È vero che l’articolo 6, paragrafo 1, di detta
Convenzione prevede che la scelta della legge applicabile al contratto di
lavoro ad opera delle parti non può portare a privare il lavoratore delle
garanzie previste dalle norme imperative della legge che regolerebbe il
contratto in mancanza di una scelta siffatta. Tuttavia, l’articolo 6, paragrafo 2, della
Convenzione di Roma sancisce, dal canto suo, i criteri di collegamento
specifici che consentono di determinare la lex contractus, in mancanza di
scelta ad opera delle parti (sentenza Voogsgeerd, cit., punto 25). Tali criteri
sono, in primo luogo, quello del Paese in cui il lavoratore «compie
abitualmente il suo lavoro», di cui all’articolo 6, paragrafo 2, lettera
a), della Convenzione di Roma, e, in subordine, in mancanza di un siffatto
luogo, quello in cui si trova la «sede che ha proceduto ad assumere il
lavoratore», quale previsto all’articolo
6, paragrafo 2, lettera b), di tale Convenzione (sentenza Voogsgeerd, cit.,
punto 26). Inoltre, secondo l’ultimo capoverso del già menzionato paragrafo 2,
questi due criteri di collegamento non sono applicabili qualora dall’insieme
delle circostanze emerga che il contratto di lavoro presenta un collegamento
più stretto con un altro Paese, nel qual caso è applicabile la legge di tale
diverso Paese (sentenza Voogsgeerd cit., punto 27).
12. Secondo la Corte di giustizia, come risulta
dallo spirito e dalla lettera dell’articolo
6 della Convenzione di Roma, il giudice deve, in un primo tempo, procedere
alla determinazione della legge applicabile sulla base dei criteri di
collegamento specifici di cui al paragrafo 2, rispettivamente lettera a) e
lettera b), di tale articolo, i quali rispondono alla generale esigenza di
prevedibilità della legge e quindi di certezza del diritto nelle relazioni
contrattuali (v., per analogia, sentenza del 6.10.2009, ICF, C-133/08, Racc.
pag. 1-9687, punto 62). Tuttavia, qualora risulti dall’insieme delle
circostanze che il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto con
un altro Paese, spetta al giudice nazionale escludere i criteri di collegamento
di cui all’articolo 6,
paragrafo 2, lettere a) e b), della Convenzione di Roma e applicare la legge di
tale diverso Paese. Risulta infatti dalla giurisprudenza della Corte che il
giudice può prendere in considerazione ulteriori elementi del rapporto di
lavoro, ove appaia che quelli riguardanti l’uno o l’altro dei due criteri di
collegamento, sanciti dall’articolo
6, paragrafo 2, della Convenzione di Roma, inducono a ritenere che il
contratto presenti un collegamento più stretto con uno Stato diverso da quello
risultante dall’applicazione dei criteri di cui all’articolo 6, paragrafo 2,
rispettivamente lettera a) e lettera b), di tale Convenzione (v., in tal senso,
sentenza Voogsgeerd, punto 51).
13. Tale interpretazione si concilia anche con la
formulazione della nuova disposizione sulle norme di diritto internazionale
privato relative ai contratti individuali di lavoro, introdotta dal Regolamento Roma I, non applicabile in questo
procedimento ratione temporis. Infatti, in forza dell’articolo 8, paragrafo 4, di tale
Regolamento, se dall’insieme delle circostanze risulta che il contratto di
lavoro presenta un collegamento più stretto con un Paese diverso da quello
indicato ai paragrafi 2 o 3 di tale articolo, si applica la legge di tale
diverso Paese (v., per analogia, sentenza
Koelzsch, cit., punto 46; v. sentenza Schlecker, C-64/12, 12.9.2013).
14. Dalla lettura della sentenza impugnata non
emerge alcuna indagine volta alla verifica della condizione negativa (o
eccezione) dell’applicabilità dei criteri di cui all’articolo 6, paragrafo 2,
rispettivamente lettera a) e lettera b), della Convenzione, verifica che pure è
necessaria, come si è visto, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte
di giustizia dell’Unione europea, e alla quale si dovrà procedere in sede di
rinvio.
15. Gli altri motivi di ricorso restano assorbiti.
16. Segue alle svolte considerazioni la cassazione
della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte
di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo; accoglie il secondo,
assorbiti il terzo e il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al
motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in
diversa composizione.