Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 aprile 2021, n. 9108

Intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro
subordinato, Nullità o illegittimità del licenziamento intimato in forma orale
– Stato di sospensione di ogni determinazione da parte societaria, in ordine
alla continuazione o alla cessazione del rapporto di lavoro, Controversie
disciplinate dallo speciale rito Fornero, Concreto pregiudizio alle
prerogative processuali derivatole dalla mancata adozione del rito

 

Fatti di causa

 

Con sentenza resa pubblica il 16/10/2018 la Corte
d’Appello di Milano confermava la pronuncia resa dal Tribunale della stessa
sede che aveva respinto la domanda proposta da A. G. nei confronti della s.r.l.
H.S.D. volta a conseguire l’accertamento della intercorrenza fra le parti di un
rapporto di lavoro subordinato – anche ai sensi dell’art.1 d. Igs. n.81/2015 – in
qualità di addetto di 1° livello ccnl di settore con decorrenza 1/11/2013
nonché della nullità/illegittimità del licenziamento intimato il 13/9/2016 in
forma orale e per ragioni ritorsive rispetto al diniego del ricorrente di
aderire ad un modello contrattuale imposto dal datore e non gradito.

Nel pervenire a tale convincimento la Corte
distrettuale condivideva l’iter argomentativo percorso dal giudice di prima
istanza il quale, omessa ogni indagine sulla natura del rapporto inter partes,
aveva ritenuto non allegate né dimostrate circostanze atte a comprovare una
estromissione del ricorrente dal contesto lavorativo nel cui ambito sino ad
allora aveva operato.

Le acquisizioni probatorie oggetto di vaglio
(segnatamente la interlocuzione fra il ricorrente ed il legale rappresentante
della società tracciata dai messaggi acquisiti agli atti) avevano imposto l’evidenza
del verificarsi di uno stato di sospensione di ogni determinazione da parte
societaria, in ordine alla continuazione ovvero alla cessazione del rapporto di
lavoro in essere, nella attesa che il G. esprimesse la propria opzione in
relazione al rinnovamento del pregresso assetto lavorativo,  entro i termini prospettati dalla
controparte.

Nell’ottica descritta di una assoluta mancanza di
dati idonei ad attestare lo scioglimento del rapporto di lavoro per iniziativa
aziendale, ultronea si palesava ogni ulteriore indagine in ordine alla natura
del rapporto di lavoro intercorso fra le parti.

Avverso tale decisione A. G. interpone ricorso per
cassazione affidato a quattro motivi ai quali resiste con controricorso la
società intimata.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 1 comma 47 L. 92 del 2012 in
relazione all’art. 360 comma 1 n.3 c.p.c.

Si deduce che dal tenore e dalla ratio della
disposizione è chiaramente evincibile che la soluzione delle questioni inerenti
alla qualificazione del rapporto di lavoro in termini di autonomia o di
subordinazione debba precedere qualsiasi valutazione circa la legittimità del
licenziamento, al rito speciale essendo assoggettata anche la ricognizione in
via incidentale, della natura del rapporto di lavoro.

Si ribadisce, facendo leva sulle disposizioni di cui
all’art.69 bis d. Igs. n.276/2003
ed all’art.2 c.1 d. Igs. n.81/2015,
che nello specifico, il rapporto intercorso fra le parti era certamente
ascrivibile all’ambito della locatio operarum.

2. Il motivo non è fondato.

La disposizione richiamata a fondamento della
critica, attiene solo al profilo del rito applicabile alla fattispecie
scrutinata che, nello specifico, ha investito nella sua integralità il petitum
della domanda attorea.

Il tenore letterale dell’art.1, comma 47, della I. n.92 del
2012 – nella parte in cui estende l’applicazione del rito speciale per
l’impugnativa dei licenziamenti alle ipotesi in cui debbano essere
“risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di
lavoro” – depone chiaramente nel senso di ricomprendere anche le
controversie che presuppongono la necessità di accertamento della natura
subordinata del rapporto senza che rilevi l’eventuale mancanza di
“copertura contrattuale” (vedi ex aliis Cass.
8/1/2019 n.186), essendo il rito in questione funzionale alla certezza, in
tempi ragionevolmente brevi, dei rapporti giuridici di lavoro.

L’accertamento preliminare in ordine alla natura del
rapporto costituisce, quindi, in linea di principio, questione attratta, ai
sensi dell’ultima parte del medesimo comma 47, all’ambito delle controversie
disciplinate dallo speciale rito Fornero.

In tale prospettiva, la violazione della disciplina
relativa all’introduzione della causa mediante il rito c.d. Fornero sarebbe
stata utilmente dedotta come motivo di impugnazione solo se la parte avesse
indicato il concreto pregiudizio alle prerogative processuali derivatole dalla
mancata adozione del predetto rito, con conseguente interesse alla relativa
rimozione.

Tuttavia, la scelta della Corte di merito di non
procedere all’accertamento in concreto della natura del rapporto di lavoro
inter partes, non involve il profilo del rito applicabile (ed in concreto
applicato dai giudici del gravame), ma attiene alla , opzione adottata dalla
Corte di ritenere logicamente assorbito l’accertamento pregiudiziale richiesto
da parte ricorrente circa la natura del rapporto di lavoro intercorso fra le
parti, dalla carenza di prova in ordine alla risoluzione del rapporto per iniziativa
della società.

E detta statuizione non appare essere validamente
attinta dalla formulata censura che solleva una questione di violazione di
norme attinenti al rito non conferente rispetto al decisum, essendosi la Corte
di merito conformata, nel proprio incedere argomentativo, al principio della
cd. ragione più liquida, in base a tale principio omettendo di procedere
all’accertamento della natura del rapporto di lavoro intercorso fra le parti.

Il giudice del gravame ha, infatti, mostrato di
conoscere e condividere i consolidati approdi ai quali è pervenuta la
giurisprudenza di questa Corte secondo cui detto principio processuale,
desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., comporta che la causa può essere decisa
sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se
logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le
altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità
del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle
soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della
coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello
dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. (così Cass. 28/5/2014 n.12002, cui
adde Cass. 11/5/2018 n. 11458, Cass. 9/1/2019
n. 363).

In tal senso la pronunzia, congrua e conforme a
diritto per quanto sinora detto, resiste alla censura all’esame.

3. Il secondo motivo prospetta omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.

Ci si duole che la Corte di merito non abbia
ritenuto incontroversa – come invece desumibile dai messaggi scambiati fra le
parti – la circostanza che il G. fosse stato estromesso dal rapporto per
iniziativa della società, in ragione del rifiuto del ricorrente di accettare le
nuove modalità di svolgimento del rapporto prospettate.

4. Il motivo palesa profili di inammissibilità.

Esso denuncia un vizio di motivazione concernente la
ricostruzione della vicenda storica operata dalla Corte, nonostante la sentenza
impugnata sia stata pubblicata nel vigore del punto n. 5) dell’art. 360, co. 1, c.p.c., nella versione di testo
introdotta dall’art. 54, co. 1,
lett. b), d.l. n. 83 del 2012, conv. con modificazioni in I. n. 134 del 2012, la quale consente il ricorso
per cassazione solo per “per omesso esame circa un fatto decisivo per il
giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Le Sezioni unite di questa Corte hanno espresso su
tale norma i seguenti principi di diritto (Cass.
SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014, costantemente ribaditi dalle stesse
Sezioni unite, v. sent. n. 19881 del 22/9/2014, Cass n. 417 del 14/12/2015,
Cass. n. 27415 del 29/10/2018):

a) la disposizione deve essere interpretata, alla
luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12
disp. prel. c.c., come riduzione al minimo costituzionale del sindacato
sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia
motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta
in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza
della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo
dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di
alcuna rilevanza  del difetto di
“sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto
l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”,
nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella
“motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il
nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso
esame di un fatto- storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti
dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto
di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se
esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso
esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un
fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso
in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte
le risultanze istruttorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso
rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366,
primo comma, n. 6), c.p.c. e 369, secondo
comma, n. 4), c.p.c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato
omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti
l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro
processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la
“decisività” del fatto stesso. Pertanto, dopo la ricordata riforma è
impossibile ogni rivalutazione delle questioni di fatto in ipotesi di c.d.
doppia conforme sul punto, come stabilisce l’art.
348 ter c.p.c., comma 4: a mente del quale, “quando l’inammissibilità
è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base
della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente
può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4)”(cfr.
Cass. 11/12/2014 n. 26097).

E questo è in particolare, quanto verificatosi nel
caso di specie, in cui la Corte distrettuale, nel confermare la pronuncia di
primo grado, ha ripercorso, condividendole, le motivazioni espresse dal giudice
di prima istanza in ordine alla ricostruzione del fatto storico ed alla
attribuzione alla parte datoriale dell’iniziativa nella risoluzione del
rapporto di lavoro intercorso fra le parti. Poiché il motivo in esame risulta
largamente irrispettoso di tali enunciati, esso si traduce, nella sostanza, in
un diverso convincimento rispetto a quello espresso dai giudici del merito
nella valutazione del materiale probatorio attinente alle prospettate modalità
di risoluzione del rapporto, per cui sollecita un sindacato non ammissibile
innanzi ai giudici di legittimità.

5. La terza censura attiene alla violazione dell’art.115 c.p.c. nella versione di testo pro tempore
vigente in relazione all’art. 360 comma 1 n.3 c.p.c.
Si enuncia una serie di circostanze di fatto (durata complessiva della
collaborazione con il medesimo committente superiore agli otto mesi annui
nell’arco di due anni solari consecutivi, ammontare del fatturato derivante da
tale collaborazione superiore all’80% dei corrispettivi annui percepiti dal
lavoratore nell’arco di due anni consecutivi…) ritenute incontestate ed
attinenti alle concrete modalità in cui il rapporto di lavoro si era
atteggiato, dalle quali si sarebbe dovuta evincere la conversione del rapporto ai
sensi dell’art.69 bis c.1 del d.
Igs. n.276/2003.

6. Anche tale doglianza non si sottrae allo stigma
del giudizio di inammissibilità.

Secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di
ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa
applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea
valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo
se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non
dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o
abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove
legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza
apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (ex
plurimis, vedi Cass. 17/1/2019 n.1229).

E, indubbiamente, nella specie, non si verte in
alcuna delle ipotesi considerate, impingendo la critica, oltretutto, in una
materia (attinente all’inquadramento giuridico della vicenda lavorativa
intercorsa fra le parti) che, per ragioni di economia processuale alle quali si
è innanzi fatto richiamo, non è stata specificamente scrutinata dal giudice del
gravame.

7. Con il quarto motivo è denunciata violazione
dell’art.2697 c.c. ex all’art.  360 comma
1 n.3 c.p.c.

Con specifico riferimento all’ipotesi in cui sia
controverso il quomodo della risoluzione del rapporto di lavoro, si richiama
l’orientamento invalso nella consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo
cui la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal
rapporto mentre la controdeduzione del datore di lavoro relativa alla
sussistenza di dimissioni del lavoratore, assume la valenza di un’eccezione in
senso stretto il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art.2697 c.c. Si deduce che la Corte di merito
avrebbe erroneamente trascurato i dati documentali acquisiti e rimasti non
oggetto di alcuna contestazione ex adverso, dai quali era desumibile
l’intervenuta risoluzione del rapporto.

8. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito
esposte. Come fatto cenno nello storico di lite, la Corte distrettuale ha
proceduto allo scrutinio delle acquisizioni probatorie, pervenendo al
convincimento che non erano dalle stesse evincibili i tratti di una manifestazione
di volontà indirizzata ad una risoluzione del rapporto “lavorativo
professionale in essere” giacchè l’unico esito verificatosi era quello
della sospensione di ogni determinazione in ordine alla continuazione del
rapporto.

La censura attinge sia la ricostruzione in fatto
della vicenda solutoria del rapporto inter partes, sia la sussunzione di tale
vicenda nell’archetipo normativo di riferimento.

Essa innanzitutto, suggerisce una inammissibile
richiesta a questa Corte di  una
rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione e traligna dal
modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ.,.perché pone a suo
presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti (vedi Cass. S.u 27/12/2019 n. 34476).

Sotto altro versante, non è idonea a scalfire la
statuizione impugnata che, vagliato il tenore dei messaggi che il ricorrente
aveva scambiato con A.E.C., non ha riscontrato alcun indice significativo
dell’esistenza di un negozio giuridico unilaterale e recettizio di parte
datoriale, esplicativo della propria volontà di risolvere il rapporto in
essere, con definitiva estromissione del prestatore dal posto di lavoro. Era
emerso per contro, dall’accurato scrutinio delle acquisizioni probatorie in
atti, che “l’unico esito verificatosi era stato quello della sospensione
di ogni determinazione sulla continuazione o sulla fine del rapporto sino al
momento di quella che sarebbe stata la scelta del G., in merito alla adesione o
meno al predetto accordo”; sospensione che dal tempo di quella
conversazione in poi secondo quanto annunciato dal C., avrebbe però dovuto
temporaneamente interessare la funzionalità pratico operativa della relazione
lavorativa in essere “destinandola ad uno stato di temporanea
quiescenza”. Soggiungeva, quindi, il giudice del gravame, che non
risultavano allegati elementi idonei ad attestare l’esistenza di una condotta
volta a realizzare la materiale estromissione del professionista dal suo
assetto operativo anche solo per dare la stura a quella temporanea –
sospensione richiesta dal C..

Orbene, la statuizione censurata è congrua e
conforme a diritto, non risultando scalfita dalla formulata censura.

Ed invero, come ha sottolineato la giurisprudenza di
questa Corte “il lavoratore, che agisca in giudizio per la dichiarazione
dell’illegittimità di un licenziamento, ha l’onere di provare l’esistenza del
licenziamento medesimo” (Cass. civ., 21/9/2000 n.12520; nello stesso senso
Cass.12/4/2000, n.4717; Cass.25/10/2004, n.20700, Cass.
16/10/2007 n.21607), e a questo fine “non può ritenersi sufficiente la
prova della cessazione di fatto delle prestazioni lavorative” (Cass.
16/5/2001 n.6727).

Questo orientamento ha soppesato gli oneri probatori
gravanti in via prioritaria sul lavoratore, e concernenti l’estromissione dal
rapporto, rimarcando come questa si risolva in una condotta che allude ad una
nozione più ampia della semplice constatazione di una cessazione di fatto
dell’attuazione del rapporto stesso (vedi in motivazione Cass. 16/5/2001 n.
6727, Cass. 5/12/2018 n.31501).

Il lavoratore il quale deduca che il rapporto di
lavoro abbia avuto conclusione a causa del licenziamento intimatogli dal datore
di lavoro e impugni l’allegato licenziamento, ha, dunque, l’onere di provare il
licenziamento stesso, quale fatto costitutivo dei diritti fatti valere (cfr.
Cass. 27/7/2000 n.9843), laddove la controdeduzione del datore di lavoro
attinente alle rassegnate dimissioni, assume la valenza di un’eccezione in
senso stretto il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697 comma 2 c.c. (vedi ex allis, Cass. 17/6/2016 n.12586).

Il giudice di merito, a fronte di contrapposte tesi
circa la causa di cessazione del rapporto, è quindi tenuto ad indagare, sulla
base delle  evidenze istruttorie, il
comportamento tenuto dalle parti da cui sia desumibile l’intento consapevole di
voler porre fine al rapporto; e tale indagine – avente ad oggetto le
contrapposte tesi circa la causa di cessazione del rapporto in assenza di atti
formali di licenziamento o di dimissioni – deve essere particolarmente
accurata, tenendo conto della circostanza che l’estromissione dal rapporto non
può ricondursi tout court alla constatazione della cessazione di fatto
dell’attuazione del rapporto, giacchè si introdurrebbe in tal modo, in assenza
di una specifica previsione di legge, una sorta di esonero del lavoratore dall’onere
della prova riguardo alla effettiva esistenza di un licenziamento.

E’ bene rammentare che dal punto di vista
strutturale il licenziamento è atto unilaterale con cui il datore di lavoro
dichiara al lavoratore la volontà di estinguere il rapporto di lavoro,
esercitando il potere di recesso.

Chi impugna un licenziamento deducendo che esso si è
realizzato senza il rispetto della forma prescritta ha l’onere di provare,
oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo
della sua domanda rappresentato dalla manifestazione di detta volontà
datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti.

E tale identificazione del fatto costitutivo della
domanda del lavoratore  prescinde dalle
difese del convenuto datore di lavoro, anche perché questi può risultare
contumace, ed il conseguente onere probatorio è ripartito sulla, base del
fondamentale canone dettato dall’art. 2697, co. 1,
c.c., secondo cui “chi vuoi far valere un diritto in giudizio deve provare
i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

In definitiva, al lume dei condivisi dicta di questa
Corte, ai quali va data continuità, il lavoratore che impugni il licenziamento
allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta ha l’onere di
provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto
è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti
concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione
dell’esecuzione della prestazione lavorativa (vedi Cass.
8/2/2019 n. 3822, Cass. 16/5/2019 n.13195).

In tale prospettiva, deve ritenersi che la pronuncia
impugnata abbia correttamente sussunto la fattispecie esaminata nell’ambito del
paradigma normativo di riferimento, conformandosi ai principi innanzi enunciati
e si sottragga, pertanto, alla critica al riguardo formulata.

Le sinora esposte considerazioni inducono, dunque,
al rigetto del ricorso.

Le spese seguono la soccombenza, liquidate come da
dispositivo.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto ai sensi dell’art. 13 DPR 115/2002 della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per
esborsi ed euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 aprile 2021, n. 9108
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