Non concedere alla sola dipendente gestante il rinnovo del contratto a tempo determinato, a fronte del mantenimento in servizio di tutti gli altri lavoratori con contratti analoghi, costituisce una discriminazione di genere.
Nota a Cass. 26 febbraio 2021, n. 5476
Sonia Gioia
In materia di parità di trattamento sul luogo di lavoro, il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice in gravidanza “ben può integrare una discriminazione basata sul sesso”, laddove risulti che il datore di lavoro abbia stabilizzato il rapporto di impiego di tutti gli altri prestatori che si trovavano nelle medesime condizioni contrattuali della dipendente gestante.
Questo, il principio sancito dalla Corte di Cassazione (26 febbraio 2021, n. 5476, difforme da App. Roma n. 5992/2014) in relazione al caso di una lavoratrice, impiegata a tempo determinato presso un ente pubblico di ricerca (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), che lamentava di aver subìto un trattamento discriminatorio a causa del suo stato di gravidanza, consistito nel mancato rinnovo del proprio rapporto di lavoro a fronte del mantenimento in servizio di tutti i suoi colleghi che si trovavano nella medesima posizione contrattuale.
Al riguardo, la Cassazione, in conformità con la giurisprudenza comunitaria consolidata, ha ribadito che una lavoratrice non è tenuta a comunicare la sua gravidanza al datore di lavoro nel procedimento di assunzione o in qualsiasi altra fase del rapporto di lavoro e “il rifiuto di assumere o il licenziamento di una donna incinta per il suo stato di gravidanza o maternità costituiscono una discriminazione diretta fondata sul sesso che non può essere giustificata da alcun interesse, compreso quello economico del datore di lavoro” (CGUE 27 febbraio 2003, C- 320/2001; CGUE 4 ottobre 2001, C- 438/1999).
In particolare, il mancato rinnovo di un contratto a tempo determinato a causa dello stato di gravidanza della dipendente, già giudicata idonea allo svolgimento della prestazione lavorativa, costituisce una violazione del principio di parità di trattamento, dal momento che esso è equiparabile ad un rifiuto di assumere (CGUE 3 febbraio 2000, C-207/1998).
Quanto all’onere della prova, nei giudizi antidiscriminatori è prevista un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente che non è tenuto fornire, seppur in via presuntiva, una prova piena del fatto discriminatorio, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ma è sufficiente che alleghi “il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio” per far scattare l’onere del datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della disparità di trattamento. Il lavoratore deve, cioè, produrre elementi di fatto, anche desunti da dati di carattere statistico, in base ai quali si possa presumere, in termini precisi e concordanti, che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta (art. 19, Direttiva 2006/54/CE, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego; art. 28, co. 4, D.LGS. 1 settembre 2011, n. 150; art. 40, D.LGS. 11 aprile 2006, n. 198, c.d. Codice delle pari opportunità) (CGUE 19 ottobre 2017, C- 531/2015; CGUE 21 luglio 2011, C-104/2010).
Di conseguenza, l’imprenditore dovrà fornire prova di circostanze inequivoche idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della propria condotta, “in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio che si fosse trovato nella medesima posizione” (Cass. n.1/2020, annotata in q. sito da S. GIOIA; Cass. n. 25543/2018).
In attuazione di tali principi, la Corte ha cassato, con rinvio, la pronuncia di merito per non aver tenuto conto del regime probatorio agevolato riconosciuto alla lavoratrice, che era tenuta soltanto a fornire la prova di una “ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio, dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione”, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare l’insussistenza della violazione del principio di parità di trattamento.