Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 aprile 2021, n. 9556
Condizione di assoluta e permanente impossibilità a svolgere
qualsiasi attività lavorativa per infermità, Indennità sostituiva del
preavviso, Mancata corresponsione, Caso di impossibilità assoluta per il
venir meno della causa del contratto, Risoluzione del rapporto, senza
necessità che la parte interessata manifesti mediante il negozio di recesso
l’assenza di un suo interesse al mantenimento del vincolo giuridico, Autonomia
privata non in grado di mantenere ugualmente in vita il rapporto contrattuale
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Lecce, pronunciando
sull’impugnazione dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli nei confronti di
A.V. e A.M., quali eredi di A.M., in riforma della decisione del Tribunale di
Brindisi, revocava il decreto ingiuntivo ottenuto dal Medico per la somma di
euro 7.505,96 a titolo di indennità sostituiva del preavviso.
A.M., dipendente dell’Agenzia fino al 27/5/2010, a
seguito di richiesta inoltrata al fine di ottenere la pensione di inabilità,
era stato sottoposto a visita da parte della Commissione medica di verifica che
aveva riconosciuto una sua condizione di assoluta e permanente impossibilità a
svolgere qualsiasi attività lavorativa per infermità (art. 2, comma 12, I. n.
335/1995).
Sulla base di tale giudizio il Direttore Generale
dell’Agenzia aveva disposto la cessazione del rapporto per motivi di salute a
decorrere dal 28/5/2010 e non gli aveva corrisposto l’indennità sostitutiva del
preavviso prevista dall’art. 49
del c.c.n.l. Comparto Agenzie Fiscali.
2. La Corte territoriale riteneva che il diniego
opposto dall’Agenzia fosse legittimo evidenziando che l’ipotesi prevista dalla
disposizione pattizia fosse quella dell’assenza prolungata dal servizio per
malattia, del tutto diversa dalla cessazione del rapporto per motivi di salute
avvenuta uno actu per effetto di una determinazione vincolata
dell’Amministrazione in presenza dei requisiti stabiliti da apposita
disposizione di legge.
3. Per la cassazione della sentenza hanno proposto
ricorso A.V. e A.M. sulla base di tre motivi.
4. L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli non ha
svolto attività difensiva.
5. Non sono state depositate memorie.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano
violazione ed errata applicazione dell’art. 434
cod. proc. civ..
Censurano la sentenza impugnata per non aver
dichiarato l’inammissibilità dell’appello dell’Agenzia specie alla luce del
novellato art. 434 cod. proc. civ. che ha
regolato in modo più incisivo e penetrante l’atto di appello.
2. Il motivo è inammissibile.
2.1. E’ noto che ai fini della specificità dei
motivi d’appello richiesta dall’art. 342 cod. proc.
civ. e, nel rito del lavoro, dall’art. 434 cod.
proc. civ., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto su cui si
fonda l’impugnazione deve risolversi in una critica adeguata e specifica della
decisione impugnata che consenta al giudice del gravame di percepire con
certezza e chiarezza il contenuto delle censure in riferimento ad una o più
statuizioni adottate dal primo giudice. In questa prospettiva è stato
ulteriormente precisato che il requisito della specificità dei motivi di
appello non può prescindere dal contenuto argomentativo della sentenza
impugnata richiedendosi che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata
vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento
logico-giuridico delle prime, (v. tra altre, Cass. 18 settembre 2017, n. 21566;
Cass. 10 dicembre 2005, n. 26192; Cass. 17 dicembre 2010, n. 25588).
Tali affermazioni devono essere poste in
correlazione con il principio secondo il quale quando, con il ricorso per
cassazione, venga dedotto un error in procedendo, il sindacato del giudice di
legittimità investe direttamente l’invalidità denunciata, mediante l’accesso
diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente dalla
sufficienza e logicità della eventuale motivazione esibita al riguardo, posto
che, in tali casi, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto (v. tra le
altre, Cass. 13 agosto 2018, n. 20716; Cass. 21
aprile 2016, n. 8069; Cass. 30 luglio 2015, n. 16164).
Al fine di consentire tale sindacato, tuttavia, non
essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, è necessario che la parte
ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto
processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo
sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso,
tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta
violazione processuale (Cass. 2 febbraio 2017, n. 2771).
In applicazione dell’indicato principio, in tema di
motivo di ricorso per cassazione che censura il ritenuto difetto di specificità
del motivo di appello, è stato affermato che la parte ricorrente, ha l’onere di
specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione
del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di
gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di
appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad
evidenziarne la pretesa specificità (Cass. 29 settembre 2017, n. 22880; Cass.
20 settembre 2006, n. 20405).
2.2. I ricorrenti non hanno adempiuto agli oneri
prescritti al fine della valida censura della decisione impugnata.
Risulta, infatti, riprodotta solo la sentenza di
primo grado (v. pagg. 5 e 6 del ricorso per cassazione) ma dell’atto di appello
dell’Agenzia delle Dogane è offerta una mera sintesi narrativa accompagnata
dalla riproduzione di una minima parte di tale atto di gravame – v. pag. 7 del
ricorso per cassazione.
E’ dunque mancato ciò che era indispensabile al fine
di consentire la verifica della effettiva pertinenza e specificità delle censure
formulate con il ricorso in appello e della loro reale idoneità a costruire un
tessuto argomentativo idoneo a contrastare quello posto a fondamento della
statuizione impugnata oltre che una chiara evidenziazione di tale
contrapposizione ai fini della verifica ex actis del vizio ascritto alla
sentenza impugnata, come, invece, prescritto (Cass. 10 luglio 2003, n. 10330).
2.3. Si aggiunga, peraltro, che il principio sopra
ricordato in tema di specificità dei motivi di appello è stato da questa Corte
affinato con riferimento alla nuova formulazione dell’art. 434, comma 1, cod. proc. civ. per effetto
dell’art. 54, co. 1, lett. c) bis
del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134. In coerenza con il
paradigma generale contestualmente introdotto nell’art.
342 cod. proc. civ., tale testo novellato è stato interpretato nel senso
che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara
individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata
e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una
parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo
giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la
redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di
primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revísio prioris
instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità
rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (cfr. Cass., Sez. Un., 16
novembre 2017, n. 27199). Tale approdo giurisprudenziale esclude, comunque, la
fondatezza della prospettazione dei ricorrenti nel senso di una attuale più
strutturata e formalistica redazione dell’atto di appello attraverso, tra
l’altro, la trascrizione delle parti del provvedimento che si intende appellare
e delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice
di primo grado.
3. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la
violazione dell’art. 345 cod. proc. civ. per
divieto di ius novorum in appello.
Censurano la sentenza impugnata per aver consentito
che fosse introdotta dall’Agenzia solo in sede di appello la questione della
inapplicabilità dell’art. 49 del
c.c.n.l. in quanto il Medico non aveva superato il periodo massimo di
assenza per malattia.
4. Il motivo è inammissibile.
Non è infatti trascritta in ricorso la comparsa di
costituzione dell’Agenzia nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ed
anche in questo caso i ricorrenti offrono di tale atto una mera esposizione
riassuntiva.
5. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la
violazione ed errata applicazione dell’art. 49 del c.c.n.l. Comparto
Agenzie Fiscali.
Rilevano che, contrariamente a quanto ritenuto dalla
Corte territoriale, la norma prevede espressamente l’ipotesi in cui il
dipendente sia dichiarato permanentemente inidoneo a svolgere qualsiasi
proficuo lavoro specificando che in tal caso l’Agenzia può procedere, salvo
particolari esigenze, a risolvere il rapporto corrispondendo al dipendente
l’indennità sostitutiva del preavviso.
Richiamano, a sostegno degli assunti, l’art. 8 del d.P.R. 27 luglio 2011, n.
171, la circolare dell’INPS n. 33
dell’8/3/2012 e la nota del Ministero del Tesoro prot. N. 196872 del
18/2/2003.
6. Il motivo è infondato.
6.1. Nella specie è pacifico in atti che A.M., a
seguito di richiesta inoltrata al fine di ottenere la pensione di inabilità,
sia stato sottoposto a visita da parte della Commissione medica di verifica che
ha riconosciuto una sua condizione di assoluta e permanente impossibilità a
svolgere qualsiasi attività lavorativa per infermità.
Questa Corte ha già affermato, ancorché con
riferimento al rapporto di lavoro alle dipendente di datore di lavoro privato,
che in caso di sopravvenuta inidoneità totale del lavoratore subordinato alla
prestazione lavorativa, si configura un caso di impossibilità assoluta per il
venir meno della causa del contratto, non riconducibile ai casi di sospensione
legale previsti dagli art. 2110 e 2111 cod. civ., con la conseguenza che – al
verificarsi di tale impossibilità assoluta e diversamente da quanto avviene per
il caso di impossibilità relativa – si determina la risoluzione del rapporto,
senza necessità che la parte interessata manifesti mediante il negozio di
recesso l’assenza di un suo interesse al mantenimento del vincolo giuridico
(ormai privo di valore), dovendosi anche escludere, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, cod. civ., che l’autonomia
privata possa mantenere ugualmente in vita il rapporto contrattuale (Cass. 20
novembre 2002, n. 16375; Cass. 29 marzo 2010, n.
7531).
E’ stato, in sostanza, ritenuto che il fatto che ha
dato luogo al recesso non possa integrare gli estremi del giustificato motivo
oggettivo, perché l’impossibilità di espletare l’attività lavorativa ha natura “assoluta”
e non già “relativa”. In altri termini, la risoluzione del rapporto consegue al
“fatto in se” dell’inidoneità fisica allo svolgimento del lavoro e quindi non
richiede alcuna manifestazione di volontà del datore di lavoro, né tanto meno
esige che sia rispettato il termine di preavviso. Lo scioglimento del vincolo
negoziale, invero, scaturisce dall’impossibilità definitiva di adempiere la
prestazione lavorativa (art. 1256 cod. civ.) e
dalla conseguente impossibilità totale di chiedere la controprestazione (art. 1463 cod. civ.).
Tale principio è applicabile anche con riferimento
al rapporto di lavoro pubblico privatizzato.
6.2. Del resto, l’inabilità accertata ai sensi della
I. n. 335/1995 che all’art. 2,
comma 12, prevede il diritto a conseguire un trattamento pensionistico nei casi
in cui la cessazione del servizio sia dovuta a infermità non dipendente da
causa di servizio e per la quale l’interessato si trovi “nell’assoluta e
permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa” è
diversa da quella presa in considerazione, anche ai fini del preavviso, dall’art. 49 del c.c.n.l. Comparto
Agenzie Fiscali (quadriennio normativo 2002-2005, biennio economico
2002-2003, disposizione tenuta ferma nei c.c.n.l. successivi).
6.3. Nel primo caso, infatti, la decisione dell’ente
è sostanzialmente ed oggettivamente vincolata, in quanto non potrebbe in alcun
modo giustificarsi il mantenimento in servizio di un lavoratore, nonostante una
giustificazione medica che vieti di adibire lo stesso ad una qualunque attività
lavorativa a causa della sua assoluta e permanente inidoneità psico-fisica (si
ricorda che il decreto ministeriale del 8 maggio 1997, n. 187 ‘Regolamento
recante modalità applicative delle disposizioni contenute all’articolo 2, comma 12, della I. 8
agosto 1995, n. 335, concernenti l’attribuzione della pensione di inabilità
ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche iscritti a forme di previdenza
esclusive dell’assicurazione generale obbligatorià – in G.U. 30 giugno 1997 n.
150 – all’art. 7, comma 1, ha
previsto che: “1. L’amministrazione o l’ente, ricevuto l’esito degli
accertamenti sanitari di cui all’articolo
6 attestante lo stato di inabilità assoluta e permanente a svolgere
qualsiasi attività lavorativa, provvede alla risoluzione del rapporto di lavoro
del dipendente, ovvero agli adempimenti occorrenti se la risoluzione del
rapporto di lavoro è già intervenuta”).
Si consideri, del resto, che, a mente della I. n. 222 del 1984, art. 2,
comma 5, c’è una incompatibilità (da divieto normativo) tra la percezione della
pensione ordinaria di inabilità ed i compensi per attività da lavoro – per
quanto qui interessa – subordinato.
6.4. Nel caso della disposizione pattizia (la quale
prevede che: “Superati i periodi di conservazione del posto previsti dai
commi 1 e 2, oppure nel caso che, a seguito dell’accertamento disposto ai sensi
del comma 3 [per il tramite della unità sanitaria locale competente], il
dipendente sia dichiarato permanentemente inidoneo a svolgere qualsiasi
proficuo lavoro, l’Agenzia può procedere, salvo particolari esigenze, a
risolvere il rapporto corrispondendo al dipendente l’indennità sostitutiva del
preavviso”) l’accertata inidoneità è invece rapportata alle mansioni
proprie della qualifica rivestita e cioè alla possibilità di svolgere, presso
quel datore, un proficuo lavoro tanto che è previsto che l’Amministrazione
“può” procedere a risolvere il rapporto corrispondendo al dipendente
l’indennità sostitutiva del preavviso.
La disposizione pattizia è del tutto in linea con
quanto affermato da questa Corte di legittimità e cioè che, nel caso in cui il
prestatore di lavoro si trovi nell’impossibilità fisica di svolgere le mansioni
affidategli, il datore di lavoro è pur sempre tenuto a por fine al rapporto
manifestando la propria volontà di esercitare il recesso (v. Cass. 29 luglio 2013, n. 18196; Cass. 4 ottobre 2016, n. 19774 in tema di
pubblico impiego privatizzato), ed è a tale volontà che è collegato il
preavviso.
6.5. Il descritto quadro normativo non è stato
modificato in alcun modo dall’art.
8 del d.P.R. n. 171 del 2011 (emanato in attuazione dell’art. 53-octies,
inserito dall’art. 69 del d.lgs.
n. 150 del 2009)), peraltro successivo ai fatti per cui è causa, secondo
cui: “1. Nel caso di accertata permanente inidoneità psicofisica assoluta
al servizio del dipendente di cui all’articolo 1 comma 1, l’amministrazione
previa comunicazione all’interessato entro 30 giorni dal ricevimento del
verbale di accertamento medico, risolve il rapporto di lavoro e corrisponde, se
dovuta l’indennità sostitutiva del preavviso”, essendo anche tale
previsione da riferirsi alla “inidoneità psicofisica assoluta o relativa
alla mansione”, come si evince chiaramente dal comma 3 dell’art. 5 del medesimo d.P.R.
E’ evidente, allora, che detta disposizione non può
applicarsi all’ipotesi di automatica risoluzione del rapporto per effetto di
sopravvenuta inidoneità accertata ai sensi della I.
n. 335 del 1995, in relazione alla quale lo scioglimento del vincolo
negoziale scaturisce dall’impossibilità definitiva di adempiere la prestazione
lavorativa e dalla conseguente impossibilità totale di chiedere la
controprestazione.
6.6. Né rileva la circolare
INPS n. 33 dell’8/3/2012 richiamata dal ricorrente (trascritta nella parte
di interesse ed allegata al ricorso per cassazione) che è diretta unicamente ai
dipendenti dell’istituto previdenziale, sicché nessuna efficacia può spiegare
nella presente fattispecie, limitandosi, peraltro, la stessa a declinare le
modalità di applicazione in ambito INPS del sopra richiamato d.P.R. n. 171 del 2011.
Egualmente non può essere attribuita alcuna efficacia
ai chiarimenti del Ministero del Tesoro di cui alla nota prot. 196872 del
18/2/2000 (egualmente trascritta nella parte di interesse e allegata al ricorso
per cassazione), trattandosi di chiarimenti resi con riguardo a differenti
contratti collettivi (art. 21,
comma 4 del c.c.n.l. Comparto Ministeri e art. 23, comma 4 del c.c.n.l.
Comparto Scuola).
Si ricorda, peraltro, che le circolari o risoluzioni
Ministeriali, anche ove contengano, sulla base dell’interpretazione di una
norma, direttive agli uffici gerarchicamente subordinati, esprimono
esclusivamente un parere, non vincolante per le parti, per gli uffici e per i
giudici trattandosi di atti espressivi di un potere ministeriale di mero
indirizzo interno, privo di efficacia precettiva autonoma (v. in tal senso già
Cass., Sez. Un., 21 maggio 1973, n. 1457 secondo cui: “Le circolari
ministeriali spiegano effetti soltanto nell’ambito dei rapporti interni tra i
vari uffici della stessa amministrazione ed i loro funzionari, ma non possono
costituire fonti di diritti a favore di terzi né di obblighi a carico
dell’amministrazione, né possono avere alcun valore quale mezzo di
interpretazione di una norma di legge” ed ancora Cass. 31 agosto 2016, n. 17448; Cass. 5 ottobre
2018, n. 24585; v. anche Cass. 19 giugno 2008, n. 16612; Cass. 11 dicembre 2013, n. 27670; Cass. 10 agosto
2015, n. 16644).
6.7. Per tutte le considerazioni che precedono
appare evidente che, nella presente fattispecie, la cessazione del rapporto di
lavoro rientra tra le ipotesi di risoluzione automatica del medesimo, ossia di
una risoluzione che è, di fatto, una presa d’atto dell’intervenuta inidoneità
permanente allo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, vincolata per
l’Amministrazione, senza la necessità di un’esplicita manifestazione di volontà
delle parti contraenti cui solo è collegato il preavviso e, di conseguenza, l’indennità
sostitutiva.
7. Da tanto consegue che il ricorso deve essere
respinto, superflua essendo la rinnovazione della notifica all’intimata Agenzia
delle Dogane e dei Monopoli, rappresentata ope legis dall’Avvocatura dello
Stato, all’indirizzo pec ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it, utilizzabile per
le comunicazioni e notifiche processuali alle P.A. intimate avanti a questa
Corte (nello specifico il ricorso per cassazione è stato notificato solo
all’indirizzo pec ads. pq@mailcertavvocaturadellostato. it, corrispondente
all’Avvocatura distrettuale dello Stato) – Cass., Sez. Un., 15 gennaio 2015, n.
608 -; tale rinnovazione, infatti, si risolverebbe in un inutile dispendio di
attività processuale e in formalità superflue perché non giustificate dalla struttura
dialettica del processo – v. Cass. 11 marzo 2020, n. 6924 -.
8. Nulla va disposto in ordine alle spese non avendo
l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli svolto attività difensiva.
9. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello prescritto per il ricorso, ove dovuto a
norma del comma 1-bis, dello stesso art.
13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma
del comma 1-bis, dello stesso art.
13, se dovuto.