La legittimità del recesso intimato al dipendente, al termine della sua carcerazione preventiva, va verificata tenendo conto dei criteri di valutazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo senza oneri di repêchage.
Nota a Cass. 10 marzo 2021, n. 6714
Sonia Gioia
Nell’ipotesi di assenza dal lavoro per carcerazione preventiva, la persistenza dell’interesse dell’imprenditore a ricevere le residue prestazioni del dipendente deve essere accertata con riguardo ai “criteri oggettivi”, riconducibili all’art. 3, L. 15 luglio 1966, n. 604 (concernente “norme sui licenziamenti individuali”), e cioè con riferimento alle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione 10 marzo 2021, n. 6714 (in linea con la pronuncia di merito, App. Roma n. 20181/2018), che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato ad un prestatore, sottoposto a misura restrittiva della libertà personale per più di un anno, sul presupposto che il protrarsi della sua assenza aveva determinato la perdita di interesse del datore di lavoro alla eventuale prestazione residua.
In merito, secondo la Cassazione, la sopravvenuta impossibilità temporanea di svolgere le proprie mansioni per evento estraneo al rapporto di impiego legittima l’imprenditore a recedere dal contratto, ai sensi dell’art. 1464 c.c., quando, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto, non si possa prevedere “la ripresa dell’attualità del rapporto senza significativi pregiudizi per l’organizzazione del datore di lavoro in relazione alla prevedibile durata dell’assenza” (Cass. n. 1591/2004).
La persistenza o meno di un interesse apprezzabile dell’imprenditore alla residua prestazione va accertata, in base ad una valutazione ex ante, con riguardo ai criteri di valutazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In particolare, occorre tener conto delle dimensioni dell’impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della natura ed importanza delle mansioni del dipendente, del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevole prevedibilità di ulteriore durata, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni, senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell’assenza (Cass. n. 19135/2016; Cass. n. 12721/2009).
Tale verifica costituisce giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che deve provvedervi avendo riguardo “alle possibili e prevedibili capacità lavorative del prestatore e alla organizzazione dell’azienda”, e non è sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato.
Inoltre, nel caso di sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa per detenzione, ex art. 1464 c.c., il datore di lavoro non è tenuto ad adempiere all’onere di repêchage, dal momento che, diversamente dalle ipotesi di licenziamento economico, “vi è un fatto oggettivo, estraneo alla volontà del datore di lavoro e non riconducibile alle sue scelte imprenditoriali, che incide sulla organizzazione aziendale” e che comporta di per sé una modificazione connessa alla incapacità totale di fruire, per l’imprevedibilità della sospensione, di ogni prestazione lavorativa del dipendente, con conseguente impossibilità di ipotizzare ogni ricollocamento alternativo o parziale. In tali casi, cioè, vi è una ragione rilevante intuitu personae che esclude “per una impossibilità intrinseca” l’operatività del ripescaggio, che richiede pur sempre “una fungibilità ed una idoneità attuale lavorativa”, anche se parziale, del dipendente, “sincroniche alla determinazione datoriale”.
Nel caso di specie, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato al dipendente dal momento che la sua perdurante assenza aveva determinato la perdita dell’interesse datoriale a ricevere la residuale prestazione di lavoro. Ciò, tenuto conto che, nel periodo in cui il prestatore era sottoposto a misura restrittiva della libertà personale, nell’unità produttiva di appartenenza erano intervenute modifiche tali da non consentire un suo proficuo reinserimento, che le dimensioni della società non incidevano sull’irrilevanza, per il datore, della durata della custodia cautelare e che la lunga assenza aveva determinato un’oggettiva disfunzione nell’organizzazione aziendale.