Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 aprile 2021, n. 9929
Licenziamento, Superamento del periodo di comporto,
Imputabilità della malattia all’infortunio sul lavoro, Accertamento
Rilevato che
la Corte di appello di Bologna ha rigettato il reclamo
proposto ai sensi dell’art. 1,
comma 58, della legge nr. 92 del 2012 e, per l’effetto, ha dichiarato
legittimo il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto;
avverso la decisione ha proposto ricorso per
cassazione M.P., articolato in due motivi, cui ha opposto difese, con
controricorso, la Coopservice Soc. Coop. P.A.;
la proposta del relatore è stata comunicata alle
parti – unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di
consiglio – ai sensi dell’art. 380-bis cod.proc.civ;
Considerato che
Con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 4 cod.proc.civ. – è dedotta la
nullità della sentenza per omessa pronuncia e violazione dell’art. 112 cod.proc.civ.;
la parte ricorrente assume che la Corte di appello
avrebbe omesso di pronunciare sull’accerta mento di illegittimità del
licenziamento fondato sulla deduzione di imputabilità della malattia
all’infortunio, con applicazione della normativa collettiva che stabilisce la
conservazione del posto fino a guarigione completa;
con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 5 cod.proc.civ. – è dedotto l’omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti;
il medesimo profilo (ovvero la questione già oggetto
del primo motivo) è riproposto in termini di vizio di motivazione: l’omissione
è riferita al «fatto» rappresentato dalla «imputabilità del periodo di malattia
al periodo di infortunio»;
i due motivi meritano di essere congiuntamente
esaminati per la loro stretta connessione: essi sono infondati;
alla stregua delle deduzioni di parte ricorrente, il
lavoratore avrebbe chiesto l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento
ponendo a fondamento della domanda, da un lato, il mancato superamento del
periodo di comporto cd. «lungo» e, dall’altro, l’imputabilità della malattia
all’infortunio sul lavoro, con conseguente applicazione della disciplina
collettiva di conservazione del posto di lavoro sino a guarigione clinica
avvenuta, senza limiti di durata massima;
ciò posto – in disparte rilievi di violazione degli
oneri di deduzione e documentazione imposti dagli artt.
366 nr. 6 e 369 nr. 4 cod.proc.civ. (la
parte narrativa degli atti introduttivi del giudizio ex art. 1, comma 51, legge nr. 92 del
2012 e quella del giudizio di appello sono riportate in via di mera
sintesi; il contratto collettivo è depositato per estratto) – dal tenore della
sentenza impugnata emerge che la Corte di appello ha escluso il «prolungamento
del periodo di comporto», osservando, al riguardo, come le parti collettive,
nel prevedere un più favorevole periodo di conservazione del posto, avessero
imposto al lavoratore un onere di certificazione e di comunicazione in favore
della parte datoriale, non soddisfatto nel caso di specie;
tale passaggio decisionale è, poi, integrato
dall’ulteriore argomentazione secondo cui non avrebbe avuto rilievo «l’inoltro
della mera certificazione ordinaria di malattia […], dalla quale non si
evince la diagnosi, dovendosi ritenersi del tutto insufficiente la locuzione
‘continuazione ‘[…]» (v. pag. 4, quinto capoverso della sentenza impugnata);
tale complessivo impianto motivazionale, a giudizio
del Collegio, fonda, in modo coerente, il rigetto della domanda, in relazione
ad ogni suo aspetto;
deve, in proposito, rammentarsi come il vizio di
omessa pronuncia, per costante e risalente insegnamento di questa Corte, non
ricorra affatto quando, pur mancando una specifica argomentazione in relazione
ad un capo di domanda, sia comunque ravvisabile, in relazione allo stesso, una
statuizione implicita di rigetto, desumibile dalla costruzione logico –
giuridica della sentenza. Quando cioè la decisione adottata – in contrasto con
la pretesa fatta valere dalla parte – comporti necessariamente e logicamente il
rigetto di quest’ultima, anche in difetto di una esplicita pronuncia (in
argomento, ex plurimis, Cass. nr. 20718 del 2018; Cass.nr. 18491 del 2018;
Cass.nr. 24155 del 2017; Cass. nr. 20311 del 2011; Cass.
nr. 16788 del 2006);
nella fattispecie concreta, a fondamento del
decisum, è posto, in definitiva, un giudizio di inidoneità (id est: di
insufficienza) della documentazione (sanitaria) prodotta dal lavoratore a
provare i fatti di causa;
all’evidenza, l’argomentazione è idonea a sorreggere
il rigetto della domanda sia con riferimento alla prospettazione del diritto al
comporto cd. «lungo» (domanda rimasta carente della dimostrazione
dell’imputabilità della malattia al medesimo fattore eziopatogenetico) sia con
riferimento alla deduzione della malattia quale evento eziologicamente
collegato all’infortunio sul lavoro (domanda quest’ultima carente della
dimostrazione del nesso di causalità tra infortunio e malattia);
il giudizio espresso dalla Corte distrettuale in ordine
all’ inefficacia probatoria della certificazione sanitaria versata in atti
integra un accertamento di merito, non più sindacabile, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 348 ter cod.proc.civ., a
tenore del quale il vizio di motivazione non è deducibile in caso di
impugnativa di pronuncia c.d. «doppia conforme», come nell’ipotesi di causa
(sulla applicabilità della disposizione di cui all’art.
348 ter cod.proc.civ. alla sentenza che definisce il procedimento di
reclamo ex art. 1 Legge Fornero, v., ex plurimis, Cass.
nr. 23021 del 2014);
sulla base delle svolte argomentazioni, il ricorso
va, dunque, complessivamente, rigettato;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come
da dispositivo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 4000,00 per compensi
professionali, oltre ad euro 200,00 per esborsi, al rimborso delle spese
generali nella misura del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso
art. 13, comma 1 bis, se
dovuto.