La Corte UE ritiene la normativa lussemburghese contraria al diritto dell’Unione nella parte in cui subordina la concessione del congedo parentale alla circostanza che il genitore richiedente risulti in possesso di un’occupazione al momento della nascita o adozione del figlio.
Nota a Corte Giust. UE 25 febbraio 2021, C-129/20
Francesco Belmonte
Le clausole 1.1, 1.2 e 2.1, nonché la clausola 3.1, lett. b), dell’accordo quadro sul congedo parentale (riveduto) del 18 giugno 2009 – che figura in allegato alla Dir. 2010/18/UE dell’8 marzo 2010 – devono essere interpretate nel senso che “esse non ostano a una normativa nazionale che subordina il riconoscimento del diritto al congedo parentale alla condizione che il genitore interessato abbia occupato un impiego senza interruzione per un periodo di almeno dodici mesi immediatamente precedente l’inizio del congedo parentale. Per contro, dette clausole ostano a una normativa nazionale che subordina il riconoscimento del diritto al congedo parentale allo status di lavoratore del genitore al momento della nascita o dell’adozione del figlio.”
In tale linea si è pronunciata la Corte di Giustizia UE 25 febbraio 2021, C-129/20 in relazione ad una domanda pregiudiziale sollevata dalla Corte di Cassazione del Granducato del Lussemburgo (decisione del 27 febbraio 2020) circa la conformità della legislazione interna in materia di congedi parentali alle clausole 1.1, 1.2 e 2.1, nonché alla clausola 3.1, lett. b), dell’accordo quadro sul congedo parentale (riveduto) del 18 giugno 2009 (in allegato alla Dir. 2010/18/UE, la quale attua tale accordo ed abroga la precedente regolamentazione contenuta nella Dir. 96/34/CE del 3 giugno 1996).
La domanda pregiudiziale era stata proposta nell’ambito di una controversia riguardante il mancato riconoscimento del congedo parentale ad una lavoratrice lussemburghese che aveva dato alla luce due gemelli.
In particolare, la “Cassa nazionale delle prestazioni familiari” aveva respinto la richiesta della madre lavoratrice in ragione della circostanza che la richiedente, al momento del parto, risultava priva di occupazione, non possedendo, quindi, uno dei requisiti individuati dall’art. 29-bis L. cit.
Avverso tale rifiuto, la lavoratrice ricorreva, inizialmente, al “Consiglio arbitrale per la previdenza sociale” e, successivamente, alla Corte di Cassazione lussemburghese, la quale, rilevando un possibile contrasto della normativa interna rispetto al diritto eurounitario, sospendeva il procedimento principale, sottoponendo alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale:
«Se le clausole 1.1, 1.2, e 2.1, [nonché la clausola] 2.3[, lettera] b), dell’accordo quadro sul congedo parentale concluso il 14 dicembre 1995 dalle organizzazioni interprofessionali a carattere generale UNICE, CEEP e CES, attuato dalla direttiva [96/34] debbano essere interpretate nel senso che esse ostano all’applicazione di una disposizione di diritto nazionale, quale l’articolo 29 bis della legge del 16 aprile 1979 … che subordina la concessione del congedo parentale alla duplice condizione che il lavoratore occupi legalmente un posto di lavoro e sia iscritto a tale titolo alla previdenza sociale, da un lato, senza interruzione per almeno dodici mesi consecutivi immediatamente precedenti l’inizio del congedo parentale e, dall’altro, al momento della nascita o dell’accoglienza del figlio o dei figli adottivi, essendo richiesto il rispetto di tale seconda condizione anche qualora la nascita o l’adozione sia avvenuta più di dodici mesi prima dell’inizio del congedo parentale».
Preliminarmente, la Corte di Giustizia ha rilevato che la domanda di congedo è disciplinata dalle disposizioni della Dir. 2010/18/UE, che ripropone in allegato l’accordo quadro sul congedo parentale “riveduto” il 18 giugno 2009, le cui clausole relative alla fattispecie in questione (1.1; 1.2; 2.1 e 3.1 lett. b) corrispondono alle medesime previsioni contenute nell’accordo quadro che figura in allegato alla Dir. 96/34/CE.
In particolare, la clausola 1 dell’accordo quadro riveduto prevede che:
“1. Il presente accordo stabilisce prescrizioni minime volte ad agevolare la conciliazione delle responsabilità familiari e professionali dei genitori che lavorano, tenendo conto della crescente diversità delle strutture familiari nel rispetto delle leggi, dei contratti collettivi e/o delle prassi nazionali.
2. Il presente accordo si applica a tutti i lavoratori, di ambo i sessi, aventi un contratto o un rapporto di lavoro definito dalle leggi, dai contratti collettivi e/o dalle prassi vigenti in ciascuno Stato membro.”
La clausola 2 dell’accordo citato, dispone che: “1. Il presente accordo attribuisce ai lavoratori di ambo i sessi il diritto individuale al congedo parentale per la nascita o l’adozione di un figlio, affinché possano averne cura fino a una determinata età, non superiore a otto anni, che deve essere definita dagli Stati membri e/o dalle parti sociali …”.
La clausola 3, invece, sancisce che: “1. Le condizioni di accesso e le modalità di applicazione del congedo parentale sono definite per legge e/o mediante contratti collettivi negli Stati membri, nel rispetto delle prescrizioni minime del presente accordo. Gli Stati membri e/o le parti sociali possono in particolare: …b) subordinare il diritto al congedo parentale a una determinata anzianità lavorativa e/o aziendale che non può superare un anno; quando ricorrono a tale disposizione gli Stati membri e/o le parti sociali assicurano che in caso di più contratti a tempo determinato, quale definito nella direttiva 1999/70/CE del Consiglio[del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP] sul tempo determinato, presso lo stesso datore di lavoro occorre tener conto della durata complessiva di tali contratti per il calcolo dell’anzianità”.
In merito alle questioni sollevate dal giudice interno, la Corte UE ritiene che il secondo requisito necessario per accedere all’astensione facoltativa nell’ordinamento lussemburghese – ossia, che il genitore richiedente sia occupato “ininterrottamente” nei dodici mesi antecedenti l’inizio del congedo – non contrasta con i principi espressi dalle clausole summenzionate.
Diversamente, la prima condizione indicata dall’art. 29-bis, L. 16 aprile 1979 – che subordina la concessione del congedo alla condizione che il lavoratore sia occupato al momento della nascita o adozione del figlio – risulta contraria al diritto dell’Unione.
Per la Corte UE, il diritto individuale di ciascun genitore lavoratore al congedo parentale “deve essere inteso nel senso che esso riflette un diritto sociale dell’Unione particolarmente importante, il quale è stato peraltro sancito dall’articolo 33, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali. Ne consegue che tale diritto non può essere interpretato in modo restrittivo” (v., in tal senso, CGUE 27 febbraio 2014, C-588/12, punto 36 e la giurisprudenza ivi citata).
“Escludere i genitori che non lavoravano al momento della nascita o dell’adozione del proprio figlio equivarrebbe a limitare il diritto di detti genitori alla possibilità di fruire di un congedo parentale in un momento successivo della loro vita in cui svolgono nuovamente un’attività lavorativa e del quale avrebbero bisogno per conciliare le loro responsabilità familiari e professionali. Una siffatta esclusione sarebbe pertanto contraria al diritto individuale di ciascun lavoratore di disporre di un congedo parentale.”
Pertanto, in ragione di quanto illustrato, le clausole 1.1, 1.2 e 2.1, nonché la clausola 3.1, lettera b), di tale accordo quadro “non possono essere interpretate nel senso che uno Stato membro può subordinare il diritto di un genitore al congedo parentale alla condizione che il genitore lavori al momento della nascita o dell’adozione del figlio.”