Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 aprile 2021, n. 11115
Contratto a termine, Nullità, Sussistenza di un unico
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, Differenze retributive
tra il trattamento spettante e quanto percepito per l’intero periodo
Fatti di causa
1. S.P. adiva il Giudice del lavoro del Tribunale di
Roma per chiedere l’accertamento della nullità del termine apposto ad otto
contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con la R. s.p.a. e per il
conseguente riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, con qualifica di redattore.
2. Il Tribunale di Roma, con sentenza non definitiva
n. 5203 del 2005, dichiarava la nullità del termine apposto al primo contratto
di lavoro, relativo al periodo 16 giugno 1997-21 settembre 1997; dichiarava la
sussistenza di un rapporto lavoro subordinato a tempo indeterminato sin
dall’inizio di tale contratto; condannava la R. al pagamento delle differenze
retributive tra il trattamento spettante e quanto percepito dalla ricorrente
per l’intero periodo. Con sentenza definitiva n. 3284 del 2006, liquidava le
differenze economiche, pari ad euro 77.574,20.
3. A seguito di gravame proposto dalla società, la
Corte di appello di Roma, con sentenza n. 96 del 2010, in parziale riforma
delle statuizioni di primo grado, dichiarava la legittimità del termine apposto
ai primi sette contratti e la nullità del termine apposto all’ottavo (e ultimo)
contratto, stipulato per il periodo 29 agosto 2002-28 febbraio 2004 in base
all’accordo Rai- Usigrai del 22 ottobre 2001; dichiarava la sussistenza tra le
parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere
dal 29 agosto 2002 e il diritto di P.S. di percepire, dalla stessa data, il trattamento
economico di redattore.
4. Proposto ricorso per cassazione da entrambe le
parti, questa Corte, con sentenza n. 14814 del 2015, respingeva il ricorso
incidentale di S.P. e, accogliendo parzialmente il primo motivo del ricorso
principale della RAI, dichiarati assorbiti i restanti, riteneva erronea
l’affermazione contenuta nella sentenza di appello secondo cui l’Accordo
RAI/USIGRAI del 22.10.2001 sarebbe un accordo aziendale. Trattandosi, invece,
di un accordo nazionale, il giudice di merito, prima di escludere
l’ultrattività dello stesso, a norma dell’art. 11 d.lgs. 368 del 2001,
avrebbe dovuto accertare se lo stesso fosse già efficace al momento
dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo.
5. La Corte di appello di Roma, con sentenza n.
3522/2016, pronunciando in sede di rinvio sull’accertamento demandato dalla
sentenza rescindente, accertava che l’Accordo sindacale RAI/USIGRAI del
22.10.2001 era vigente alla data di entrata in vigore del d.lgs. 368 del 2001 e che, pertanto, a norma dell’art. 11 dello stesso decreto,
era legittima (anche) la clausola di apposizione del termine relativa
all’ultimo contratto stipulato tra le parti. Per l’effetto, rigettava
integralmente la domanda proposta dalla Pepe con il ricorso introduttivo del
giudizio.
6. Rigettava la domanda restitutoria proposta dalla
RAI ai sensi dell’art. 389 cod. proc. civ.,
diretta ad ottenere la restituzione delle somme che la società assumeva essere
state corrisposte in esecuzione della sentenza del Tribunale di Roma. La Corte
di appello riteneva che la società non avesse fornito la dimostrazione
dell’avvenuto pagamento, non potendosi considerare probante la produzione di
“copia della busta paga, neanche quietanzata dalla lavoratrice”.
7. Per la cassazione di tale sentenza la RAI ha
proposto ricorso affidato a due motivi. S.P. ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti ha depositato memoria ex art.
380-bis cod. proc. civ..
8. All’esito della adunanza in camera di consiglio
tenutasi il 20 febbraio 2020, il Collegio ha ravvisato l’insussistenza dei
presupposti per la trattazione in sede camerale e ha disposto il rinvio a nuovo
ruolo per la fissazione della pubblica udienza.
9. La R. ha depositato memoria ex art. 378 cod.
proc. civ..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la RAI denuncia violazione o
falsa applicazione degli artt. 416, 420 e 436 cod. proc.
civ., anche in relazione agli artt. 389 cod.
proc. civ., 88 cod. proc. civ. e 111 Cost., per avere la Corte d’appello respinto
la domanda restitutoria proposta nel giudizio di rinvio con allegata
documentazione (busta paga di febbraio 2006) facente espresso riferimento alla
sentenza intervenuta tra le parti, per la quale la R. aveva corrisposto alla P.
la somma complessiva di euro 96.000,82.
Inoltre, in occasione dell’udienza di discussione,
la difesa di parte ricorrente in riassunzione non aveva contestato il fatto
storico del pagamento a suo tempo intervenuto, ma si era limitata a contestare
“la domanda di restituzione delle somme richieste al lordo rispetto alle
quali per le ritenute la società doveva rivolgersi direttamente
all’amministrazione finanziaria”. In tal modo la controparte aveva
impostato il proprio sistema difensivo su una circostanza (la somma non poteva
essere richiesta al lordo, ma al netto delle ritenute fiscali), incompatibile
con la negazione dell’avvenuto pagamento, di modo che questo, anche in ragione
della circolarità degli oneri di allegazione e contestazione, doveva ritenersi
fatto non contestato.
2. Con il secondo motivo la R. denuncia omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio è stato oggetto di discussione tra le
parti (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.).
Sostiene che, ove pure si dovesse ritenere non
decisivo e assorbente il primo motivo di ricorso, andrebbe considerato che la
società, costituendosi nel giudizio di rinvio e illustrando la propria domanda
restitutoria, aveva indicato la data e la consistenza del pagamento eseguito,
precisando di avere già operato alcune trattenute a titolo di recupero
parziale, senza che a tale allegazione, parimenti documentata in atti, avesse
fatto seguito alcuna contestazione avversaria.
Precisamente aveva documentato l’avvenuto recupero
di € 10.061,00 sulle competenze di fine rapporto, contabilizzate a ottobre
2015, e di € 1.999,00 sui ratei di TFR, come da busta paga di luglio 2015.
Ancora prima dell’instaurazione del giudizio di rinvio, la parte ricorrente in
riassunzione non aveva mai contestato le trattenute eseguite dalla R. in sede
di pagamento del trattamento di fine rapporto, a valere sul suo maggior
credito.
3. Il primo motivo è fondato, con assorbimento del
secondo.
4. Va premesso che l’art
389 cod. proc. civ. attribuisce la competenza per le domande restitutorie
al giudice di rinvio, in quanto alla Suprema Corte compete solo il giudizio
rescindente, sicché l’istanza restitutoria, ove il pagamento sia avvenuto sulla
base della sentenza annullata, va proposta al giudice di merito, a norma dell’art. 389 cod. proc. civ.. Tale norma tende a
ripristinare la situazione di fatto illegittimamente modificata in base ad un
titolo rescindibile e la cui rescissione opera ex tunc, di modo che attribuisce
alla parte, che ha subito una modificazione dello stato di fatto, il diritto
autonomo alla restituzione ed al ripristino. In altre parole, la restituzione
avviene in base al venir meno del titolo del pagamento; né si presta a
valutazioni sulla buona o mala fede dell’accipiens, non potendo venire in
rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella
comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei
suoi effetti (cfr. Cass. n. 7270 del 2003, n. 17374 del 2018).
5. Secondo giurisprudenza costante, in caso di
cassazione con rinvio, la domanda di restituzione delle somme pagate in
esecuzione della sentenza di appello cassata non costituisce domanda nuova, in
quanto la ripetizione è diretta alla restaurazione della situazione
patrimoniale precedente alla sentenza che, nel caducare il titolo del pagamento
rendendolo indebito sin dall’origine, determina il sorgere dell’obbligazione e
della pretesa restitutoria che non poteva essere esercitata se non a seguito e
per effetto della sentenza rescindente (Cass. n.
21969 del 2018, n. 7978 del 2013).
6. Nel caso in esame, il giudice di rinvio,
pronunciando nei limiti a lui devoluti dalla sentenza rescindente, ritenuta la
fondatezza dell’originario appello della R. anche in ordine all’ultimo
contratto stipulato tra le parti, ha rigettato integralmente l’originaria
domanda di S.P. Tale pronuncia ha travolto il titolo provvisorio costituito
dalle sentenze di primo e di secondo grado provvisoriamente esecutive tra le
parti. Da ciò conseguiva il diritto della R. di ottenere la restituzione delle
somme pagate in esecuzione delle sentenze caducate. Tuttavia, il giudice di
rinvio ha ritenuto che la domanda di restituzione, seppur proponibile, fosse
infondata nel merito perché priva di adeguato riscontro probatorio, sul
limitato rilievo della insufficienza della busta paga prodotta in atti (il cui
contenuto non è stato meglio chiarito nella sentenza impugnata).
7. In ordine al principio di non contestazione, la
cui violazione è stata denunciata con il primo motivo, in linea di diritto va
ricordato che, secondo l’insegnamento di
questa Suprema Corte (Cass. n. 19865 del 2015), anche prima della formale
introduzione del principio di “non contestazione”, mediante la
modifica dell’art. 115 cod. proc. civ., il
convenuto era tenuto a contestare in termini specifici, e non limitati a una
generica negazione, le circostanze di fatto dedotte a fondamento della domanda
e, per il rito del lavoro (Cass. n. 16970 del 2018),
ai sensi dell’art. 416, comma 3, cod. proc. civ.,
a prendere posizione, in modo chiaro ed analitico, sui fatti posti dall’attore
a fondamento della propria domanda. Questi devono ritenersi ammessi, senza
necessità di prova, ove la parte, nel primo atto difensivo, si limiti a negare
genericamente la fondatezza della domanda attorea, senza sollevare alcuna
contestazione chiara e specifica.
8. Sin dalla più risalente giurisprudenza è stato
affermato (v. Cass. n. 12082 del 2003, in motivazione) che “gli artt. 167, primo somma e 416, terzo comma, imponendo al convenuto l’onere
di prendere posizione su tali fatti, fanno della non contestazione un
comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto
del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da
qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo
sussistente, proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti,
valutato alla stregua dell’esposta regola di condotta processuale, espunge il
fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti. In altri termini, la
mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal dettato
legislativo, rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea
difensiva incompatibile con la negazione del fatto (onde, nell’ambito di
operatività di un onere siffatto) si rende sostanzialmente inavvertibile, ai
fini dell’identificazione dei fatti «pacifici», la tradizionale differenza –
per la quale cfr. da ultima, Cass. 18 luglio 2000, n. 9424 e, fra le altre,
Cass. 23 maggio 1995, n. 5643; Id., 2 giugno 1994, n. 5359; Id., 20 maggio
1993, n. 5733; Id., 5 dicembre 1992, n. 12947; Id. 6 marzo 1987, n. 2386 – fra
ammissione implicita e non contestazione) e, quindi, rende inutile provarlo,
perché non controverso, come è già stato posto in luce da altro orientamento
espresso dalla Corte sul punto, con sentenza 2 marzo 1995, n. 2415”.
9. L’operatività del principio citato, con
conseguente relevatio dell’avversario dall’onere probatorio, postula che la
parte dalla quale è invocato abbia per prima ottemperato all’onere processuale,
posto a suo carico, di provvedere ad una puntuale allegazione dei fatti di
causa, in merito ai quali l’altra parte è tenuta a prendere posizione (Cass. n.
20525 del 2020, n.3023 del 2016, n.19896 del 2015), mentre la generica
deduzione di assenza di prova senza negazione del fatto storico non è
equiparabile alla specifica contestazione di cui all’art.
115 cod. proc. civ. (Cass. n. 17889 del 2020).
10. Una circostanza dedotta da una parte può
ritenersi pacifica – in difetto di una norma o di un principio che vincoli alla
contestazione specifica – se essa sia esplicitamente ammessa dalla controparte
o se questa, pur non contestandola in modo specifico, abbia improntato la
difesa su circostanze o argomentazioni incompatibili col suo disconoscimento,
così implicitamente ammettendone l’esistenza (Cass. n. 23816 del 2010, n. 2699
del 2004, n. 13830 del 2004).
11. La domanda di restituzione delle somme versate
in esecuzione di una sentenza poi cassata va proposta, come detto in
precedenza, al giudice di rinvio, che nella specie opera quale giudice di primo
grado, in quanto detta domanda non poteva essere formulata precedentemente.
Orbene, la stessa sentenza impugnata, nel limitarsi ad affermare l’inidoneità
della busta paga a comprovare il fatto dell’avvenuto preesistente pagamento, ha
ammesso, per implicito, quale presupposto logico-giuridico imprescindibile del
ragionamento decisorio, che vi fosse l’allegazione del fatto ritenuto non
provato.
12. Deve quindi ritenersi che l’onere di allegazione
del fatto costitutivo della domanda restitutoria, consistente nella
affermazione di avere operato il pagamento di determinate somme di cui all’originario
titolo provvisoriamente esecutivo, fosse stato assolto dalla R. in sede di
memoria di costituzione in sede di riassunzione, con conseguente onere della
controparte di prendere specifica posizione di contestazione nel primo atto
difensivo successivo, che era costituito (circostanza pacifica dagli atti del
giudizio di legittimità) dall’udienza di discussione.
13. Nel corso di tale udienza, come è documentato
dalla copia del relativo verbale (trascritto integralmente nel ricorso per
cassazione e riprodotto al doc. n. 1 dei relativi allegati), il difensore della
parte ricorrente in riassunzione aveva opposto quanto segue: “l’avv. C.
contesta la domanda di restituzione delle somme richieste al lordo rispetto
alle quali per le ritenute la Società doveva rivolgersi direttamente
all’amministrazione finanziaria”; la difesa della parte convenuta aveva
replicato affermando che “la somma richiesta è quanto globalmente
corrisposto ad ogni titolo per la lavoratrice”.
14. A fronte di tale comportamento processuale, la
Corte di merito ha omesso di esaminare la portata delle dichiarazioni delle
parti alla luce del principio di circolarità degli oneri di allegazione e di
contestazione, onde verificare se, a
fronte della allegazione da parte della R. del fatto che costituiva il
presupposto della pretesa restitutoria (il pregresso pagamento), la difesa
svolta dalla controparte nel primo atto difensivo successivo presentasse o meno
gli estremi di una valida contestazione del fatto allegato ovvero costituisse
una affermazione incompatibile con la negazione del pagamento.
15. Deve infatti affermarsi il principio che, nel
contesto dell’azione restitutoria proposta al giudice di rinvio ex art. 389
cod. proc. civ., l’avvenuto pagamento in forza di una sentenza provvisoriamente
esecutiva può essere desunto dal comportamento processuale delle parti, alla
stregua del principio di non contestazione che informa il sistema processuale
civile e del principio di leale collaborazione tra le parti, manifestata con la
previa presa di posizione sui fatti dedotti, funzionale all’operatività del
principio di economia processuale.
16. Per tali assorbenti motivi, la sentenza va
cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che
provvederà al riesame del merito della domanda restitutoria avanzata dalla R.,
conformandosi al suddetto principio di diritto, e provvederà anche in ordine
alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo, assorbito il secondo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per
le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.