Maria Novella Bettini
Nozione e quadro normativo
Il D.LGS. n. 216 del 2003 (art.3, co.1), nel dare “Attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, ha stabilito, tra l’altro, che “Il principio di parità di trattamento senza distinzione… di handicap… si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale” con specifico riferimento, fra l’altro, anche alla seguente area: “occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento” (art. 3, co.1, lett. b).
Inoltre, il co.3 bis della disposizione in questione (inserito – dall’ art. 9, co. 4-ter, D.L. 28 giugno 2013, n. 76, conv., con mod., dalla L. 9 agosto 2013, n. 99 – in seguito a condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea per inadempimento alla citata Direttiva – v. sentenza 4 luglio 2013, C-312/2011) precisa che: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18 , nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
Parallelamente, la L. 12 marzo 1999, n. 68 (recante “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” attraverso “servizi di sostegno e di collocamento mirato”) stabilisce che:
a) “Il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni” (art. 10, co.2);
b) qualora le condizioni di salute del soggetto assunto come invalido ai fini del collocamento obbligatorio si aggravino ponendo problemi di compatibilità con la prosecuzione dell’attività lavorativa, “il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persista” e “il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro”, laddove la Commissione medica (di cui alla n. 104/1992) “accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda” (L. n. 68/1999,art. 10, co. 3);
c) l’infortunio o malattia in conseguenza dei quali il lavoratore divenga inabile allo svolgimento delle proprie mansioni “non costituiscono giustificato motivo di licenziamento” nel caso in cui il dipendente possa essere adibito a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori ( n. 68/1999, art. 4, co. 4).
Nella medesima direzione si colloca l’art. 42, D.LGS. 9 aprile 2008, n. 81 (in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro), secondo cui il datore di lavoro, ove le misure indicate dal medico competente “prevedano una inidoneità alla mansione specifica, adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza “.
Vi è poi una serie di disposizioni specifiche concernenti l’ipotesi del licenziamento del lavoratore in condizione di inidoneità fisica o psichica ovvero di disabilità.
In particolare:
1) l’art. 3, L. n. 604/1966, al quale si riconduce il recesso per giustificato motivo oggettivo in caso di impossibilità della prestazione lavorativa dovuta a sopravvenuta infermità permanente del lavoratore;
2) l’art. 18, co.7, L. n. 300/1970 (come mod. dalla L. 28 giugno 2012, n. 92) prevede la reintegrazione nel posto, di lavoro e il pagamento di un’indennità non superiore a 12 mensilità per il caso in cui si accerti “il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi della L. n. 68 del 1999, art. 4, comma 4, e art. 10, comma 3, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”;
3) l’art. 2, D.LGS. n. 23/2015, ha riconosciuto la tutela reintegratoria piena (oltre che al “licenziamento discriminatorio”) anche a quello illegittimo “per difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore”, con analogo riferimento agli articoli della L. n. 68/1999.
In ambito internazionale e comunitario rilevano:
– la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” (adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con L. n. 18/2019, approvata a nome della Comunità Europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009) con cui si riconosce il “diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri” (art. 27) e si definisce la discriminazione basata sulla disabilità come “qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole”; per “accomodamento ragionevole” intende “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (art. 2);
– la Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, la quale, all’art. 1, sancisce che la normativa “… mira a stabilire un quadro generale per la lotta. alle discriminazioni fondate (su)… gli handicap… per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”; e, all’art. 5 (intitolato “Soluzioni ragionevoli per i disabili”), dispone che “per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
Il fattore soggettivo dell’handicap
Secondo la Cassazione (in linea con la Corte di Giustizia UE), il fattore soggettivo dell’handicap, quale emerge dal diritto dell’unione europea, consiste in “una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (v. Cass. n. 29289/2019; Cass. n. 1364/2019; Cass. n. 27502/2019, in q. sito con nota di S. GIOIA, per la quale grava sul lavoratore che ne abbia interesse allegare e dimostrare di trovarsi nelle condizioni descritte; CGUE 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, C-395/15, punti 41-42).
Gli accomodamenti ragionevoli
Il termine “accomodamento” (“che nella lingua italiana richiama propriamente l’idea dell’accordo ovvero dell’adeguamento o della regolazione di uno strumento meccanico”, v. Cass. n. 6497/2021, annotata in q. sito da D. MAGRIS) è la trasposizione lessicale pedissequa dall’inglese “accomodation” di cui alla Convenzione ONU del 2006 (alla quale rinvia l’art. 3, co.3, cit.) e alla versione inglese dell’art. 5, Direttiva 2000/78/CE, è stato tradotto in italiano con “soluzioni ragionevoli”.
Nell’art. 2 della Convenzione per “accomodamenti” si intendono “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati” che si devono adottare “per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”. Mentre, l’art. 5 della Direttiva cit. parla di “provvedimenti appropriati” del datore di lavoro, “in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro e di svolgerlo.
Si tratta dunque di adeguamenti, lato sensu, organizzativi che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di “garantire il principio della parità di trattamento dei disabili” e che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa.
L’adozione di tali misure organizzative riguarda ogni fase del rapporto di lavoro, “da quella genetica sino a quella della sua risoluzione, non essendo specificamente destinate a prevenire un licenziamento” (Cass. n. 6497/2021, cit.). Ed infatti, il considerando 20 della citata Direttiva elenca, in via esemplificativa (non, quindi, tassativa), quali “misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap”, la sistemazione dei locali, l’adattare ‘le attrezzature, il regolare i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti, il fornire mezzi di formazione o di inquadramento”. Ovvero, secondo la Corte di Giustizia vanno considerate “soluzioni ragionevoli” “l’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione dei disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”, come la riduzione dell’orario di lavoro (sentenze 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, punto 54; 4 luglio 2013, C-312/11, punto 59;11 settembre 2019, C-397/18, punto 64).
Per quanto concerne il diritto interno, il legislatore (D.LGS. n. 216/2003, art. 3, co.3 bis) in attuazione della Direttiva 2000/78/CE ha disposto che, per garantire il rispetto del principio di parità di trattamento delle persone con disabilità, ogni datore di lavoro, pubblico o privato, è tenuto “ad adottare accomodamenti ragionevoli”, anche in caso di licenziamento.
Tale obbligo di accomodamento ragionevole concorre con le discipline specifiche. Così, nel caso di aggravamento delle condizioni di salute, di un soggetto assunto come invalido ai fini del collocamento obbligatorio, il rapporto di lavoro può essere risolto solo nel caso in cui, “anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro”, la commissione integrata di cui alla L. n. 104/1992, art. 4, “accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda” (L. n. 68/1999, art. 10, co.3).
E, per quanto riguarda i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia, la L. n. 68/1999 stabilisce che tali eventi “non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori” (art. 4, co. 4).
Il D.LGS. n. 81/2008, art. 42, ha poi generalizzato l’obbligo datoriale di repêchage, anche in mansioni inferiori, del dipendente inidoneo alla mansione, peraltro già vigente nel diritto vivente sulla scorta del principio stabilito dalla richiamata sentenza n. 7755/1998 delle S.U. della Cassazione.
In sintesi, quindi, l’impossibilità di ricollocare il disabile, assegnandolo a mansioni diverse comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda recedere dal rapporto, poiché ove ricorrano i presupposti di applicabilità del citato D.LGS. n. 216/2003, art. 3, co. 3 bis, egli dovrà comunque ricercare possibili “accomodamenti ragionevoli” che consentano il mantenimento del posto di lavoro, “in una ottica di ottimizzazione delle tutele giustificata dall’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), tanto più pregnanti in caso di sostegno a chi versa in condizioni di svantaggio” (Cass. n. 6497/2021, cit.).
L’esatto contenuto dell’obbligo di attuare un adattamento ragionevole delle condizioni lavorative del disabile non è stato, tuttavia, esattamente predeterminato in termini generali ed astratti. La nozione, perciò, ha un contenuto indeterminato e variabile che rende assai rilevante il ruolo interpretativo della giurisprudenza al fine di individuare un criterio di qualificazione dell’agire ragionevole, quale modello di comportamento a misura d’uomo, quale essenziale regola di governo della discrezionalità dell’agire datoriale.
Secondo la Cassazione (in occasione di un licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore derivante da una condizione di handicap) occorre verificare:
1) la possibilità, a carico del datore di lavoro, “di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro” “ai fini della legittimità del recesso” (Cass. n. 13649/2019; Cass. n. 6798/2018, la quale specifica che “il giudizio espresso in concreto sulla ragionevolezza delle soluzioni è giudizio di fatto sindacabile da questa Corte nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione”);
2) che tali adattamenti siano adottati “secondo il parametro (e con il limite) della ragionevolezza”. Va perciò considerata ragionevole “ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale” (su tale formula v. già Cass. SU. n. 5688/1979; 3) la proporzionalità e la non eccessività delle misure di adattamento, sia rispetto all’organizzazione aziendale sia con riguardo agli altri lavoratori. In particolare è necessario: I) tener conto “del limite costituito dall’inviolabilità in peius (art. 2103 c.c.) delle posizioni lavorative degli altri prestatori di lavoro”; II) evitare, in linea con l’art. 2 della Convenzione ONU del 2006, considerare quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato ed eccessivo” (v. Cass. n. 34132/2019, in q. sito con nota di F. IACOBONE) “oneri organizzativi eccessivi (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse finanziarie)”, stante l’esigenza del “mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa” (Cass. n. 6678/ 2019; Cass. n. 18556/2019, in q. sito con nota di F. DURVAL e Cass. n. 27243/2018; ma v. anche Corte Cost. n. 356/1993; n. 316/1990 e n. 7/1958).
Con specifico riferimento all’equilibrio finanziario dell’impresa:
a) l’art. 5 della Direttiva cit. afferma che il datore di lavoro è obbligato ai suddetti accomodamenti ragionevoli, salvo che i provvedimenti appropriati richiedano “un onere finanziario sproporzionato”, e specifica che “tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”;
b) il considerando 21 chiarisce che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”;
c) la Corte di Cassazione n. 27243/2018, cit. ha legittimato il rifiuto dell’imprenditore all’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, a mansioni diverse, in quanto comportante “oneri organizzativi eccessivi” (v. anche Cass. SS.UU. n. 7755/1998)
Sproporzione e ragionevolezza.
Occorre poi riflettere sul limite rappresentato dalla “sproporzione” del costo che si affianca a quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”.
Secondo la Cassazione n. 6497/2021, cit., il termine “ragionevole” costituisce un “limite ulteriore perché dotato di autonoma valenza letterale, atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal porre in essere l’adattamento fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”. Infatti, se può sostenersi che ogni costo sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo” rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda l’accomodamento di per sé irragionevole, non è necessariamente vero il contrario, perché non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti”.
La Corte rileva altresì come il criterio della ragionevolezza penetri anche i rapporti contrattuali, in quanto, esplicando “la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” (Cass. SU. n. 28056/2008), rappresenta una forma di osservanza del “canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.” (Cass. SU. n. 5457/2009) ed è “immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost.” (v. Cass. SU. n. 15764/2011; Cass. S.U. n. 23726/2007; Cass. S.U. n. 18128/2005; Cass. S.U. n. 4570/1996; Cass. n. 8494/2020; Cass. nn. 14322/2016 e 11429/2006).
Ciò, anche se, in mancanza di una disposizione esplicita nel senso che la condotta datoriale debba essere improntata al canone della ragionevolezza, non sembra configurabile nei rapporti di lavoro un obbligo giuridico a valenza generale di “ragionevolezza” nell’esercizio dell’attività di impresa, idoneo a consentire un sindacato giudiziale diretto ed ex post di congruità causale degli atti del datore di lavoro. In altri termini, “stante la natura indeterminata della clausola di “ragionevolezza” non possono essere dettate, in astratto, prescrizioni cogenti che prescindano dalle circostanze del caso concreto” ovverossia di accomodamento nella concretezza del caso singolo (v. art. 5, Direttiva cit.).
Gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte.
Nell’ambito dei criteri guida per realizzare i giusti accomodamenti a tutela del disabile occorre valutare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte.
Il riferimento è all’interesse:
– del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà;
– del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa, “tenuto conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge” (v. Cass. S.U. n. 7755/1998, cit.) e che la stessa Direttiva 2000/78/CE, cit. al considerando 17 “non prescrive… il mantenimento dell’occupazione… di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”;
– degli altri lavoratori. Non si può infatti escludere a monte che la modifica organizzativa coinvolga, in maniera diretta o indiretta, altri dipendenti la cui posizione andrà valutata comparativamente.
Inadempimento dell’accomodamento e recesso
L’obbligo di accomodamento ragionevole costituisce una condizione di legittimità del licenziamento del lavoratore disabile, sicché il suo inadempimento integra il “difetto di giustificazione” del recesso. Si veda l’art. 18, co.7, Stat. Lav. come novellato dalla L. n. 92/2012 e (v. Cass. n. 26675/ 2018, in q. sito con nota di F. ALBINIANO) l’art. 2, D.LGS. n. 23/2015 e, sempre nel senso della tutela ripristinatoria, l’art. 18, co. 4, del novellato Stat. Lav., per le ipotesi di licenziamento collettivo in violazione della quota di riserva prescritta dalla L. n. 68/1999, art. 3 (v. Cass. n. 26029/2019, in q. sito con nota di A. TAGLIAMONTE).
Onere della prova
Ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, l’onere della prova della sussistenza delle giustificazioni oggettive di licenziamento spetta al datore di lavoro (art. 5, L. cit.). Non spetta dunque al lavoratore (né al giudice) sovvertire l’onere probatorio, individuando le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro, (Cass. n. 31520/2019 e Cass. n. 29099/2019).
“Nella specie il datore di lavoro deve provare la sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore e l’impossibilità di ricollocare il medesimo in altre posizioni lavorative per l’espletamento di mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute” (Cass. n. 6497/2021, cit.; Cass. n. 10435/2018, in q. sito con nota di M.N. BETTINI e F. DURVAL).
Inoltre, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova (di fatti e circostanze esistenti, di tipo indiziario o presuntivo):
a) di aver adempiuto all’obbligo di accomodamento ragionevole (in caso di applicazione del D.LGS. n. 216/2003,art. 3, co. 3bis), oppure che eventuali soluzioni alternative, pur possibili, fossero prive di ragionevolezza, magari perché coinvolgenti altri interessi comparativamente preminenti, ovvero fossero sproporzionate o eccessive a causa dei costi finanziari o di altro tipo ovvero per le dimensioni e le risorse dell’impresa. Nella sostanza, per verificare l’adempimento dell’obbligo imposto dal D.LGS. n. 216/ 2003, art. 3, comma 3 bis, occorre valutare il contenuto del comportamento dovuto, “non tanto, in negativo, per il divieto di comportamenti che violano la parità di trattamento, quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volta alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un’attività lavorativa, altrimenti preclusa, a persona con disabilità” e ad evidenziare che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile nella ricerca di una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto:
b) nonché dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (fra tante, v. Cass. n. 24882/2017, in q. sito con nota di A. LARDARO; Cass. n. 27792/2017). Ciò, ad esempio, provando che nella fase concomitante e successiva al recesso per un congruo periodo non si è proceduto a nuove assunzioni ovvero le stesse sono state avviate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal prestatore (v., Cass. n. 3040/2010 e Cass. n. 13134/2000).
Si rileva tuttavia che il D.LGS. n. 81 del 2008, art. 42, co.1, prevede lo spostamento a mansioni equivalenti o inferiori del lavoratore inidoneo alla mansione specifica solo “ove possibile” . In tal modo il legislatore contempera “il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare – anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto – le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei detti diritti” (in termini: Cass. n. 13511/ 2016).