Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 aprile 2021, n. 11001

Somministrazione di lavoro a termine, Nullità, Genericità
della causale, Instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato

Fatto

 

1. Con sentenza del 10 maggio 2017, la Corte
d’appello di Milano rigettava l’appello di A.D.M. avverso la sentenza di primo
grado, di reiezione della sua domanda di nullità dei sessantuno contratti
stipulati (il primo il 2 aprile 2011 e l’ultimo relativo al periodo 15 – 18
aprile 2014) con G.G. s.p.a. di somministrazione di lavoro a termine in favore
di R. s.p.a. per genericità della causale e di conseguente instaurazione di un
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la seconda società fin
dal primo o da diversa data di giustizia. E ciò per decadenza, ai sensi dell’art. 32, quarto comma, lett. d) I.
183/2010, dall’impugnazione di tutti i contratti anteriori agli ultimi due
(stipulati in date 8 aprile 2014 e 15 aprile 2014) e per la validità di questi
ultimi, non essendo necessaria l’indicazione di alcuna causale dal 20 marzo
2014, a norma degli artt. 1 e 2bis d.l. 34/2014 conv. in I. 78/2014.

2. Preliminarmente esclusa la riconduzione dei
sessantuno contratti tra le parti ad un generico “unicum negoziale”,
la Corte territoriale ribadiva la decadenza del lavoratore dall’impugnazione di
tutti i contratti anteriori agli ultimi due, per le seguenti ragioni di
infondatezza dei profili di doglianza:

a) inesistenza di alcun riconoscimento, per
comportamento concludente rilevante quale fatto impeditivo della decadenza ai
sensi dell’art. 2966 c.c., del diritto alla
prosecuzione del rapporto di lavoro sul presupposto di illegittimità dei
termini apposti, nella reiterazione dei contratti di somministrazione di lavoro
a tempo determinato; né per la stessa ragione di alcuna rinuncia alla
prescrizione, a norma dell’art. 2937, terzo comma
c.c., neppure essendo questa in discussione, ma soltanto la decadenza;

b) novità dell’esclusione delle ipotesi regolate
dall’art. 5 d.lg. 368/2001
dalla decadenza, a norma dell’art.
32, quarto comma, lett. a) I. 183/2010;

c) mancanza di prova, al di là della portata
applicativa della norma, di una causa non imputabile alla parte, ai sensi e per
gli effetti previsti dall’art. 153, secondo comma
c.p.c., impediente la tempestiva impugnazione dei contratti a termine.

3. Infine, essa riteneva generiche, nel ricorso
introduttivo, le allegazioni del lavoratore sul superamento dei limiti
quantitativi e la mancata valutazione dei rischi, ai sensi dell’art. 4 d.lg. 626/1994, in
ordine ai due ultimi contratti 8-13 aprile 2014 e 15 – 18 aprile 2014.

4. Con atto notificato il 15 giugno 2017, il
lavoratore ricorreva per cassazione con tre motivi, cui R.G.S. (già R.) s.p.a.
resisteva con controricorso.

5. Assegnata per la trattazione all’adunanza
camerale, ai sensi dell’art. 380bis c.p.c.,
nella ravvisata insussistenza dei presupposti, la causa era quindi rinviata a
nuovo ruolo e fissata all’odierna pubblica udienza.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 32 I. 183/2010, 11, 12 disp. prel.
c.c., per erronea applicabilità del termine di decadenza stabilito dall’art. 6 I. 604/1966, come
novellato dal denunciato art. 32,
qualora l’impugnazione sia stata proposta solo dopo l’ultimo di una serie di
contratti stipulati in continuità inferiore a periodi di sessanta giorni, per
la sostanziale unitarietà dell’intero rapporto lavorativo di tre anni, sebbene
segmentato in sessantuno contratti di somministrazione di lavoro a tempo
determinato, in base a comportamento datoriale qualificabile fatto impeditivo
della decadenza ai sensi dell’art. 2966 c.c.,
per il riconoscimento del diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro in
conseguenza della reiterazione dei suddetti contratti; pure qualificabile, per la
stessa ragione, di rinuncia alla prescrizione, a norma dell’art. 2937, terzo comma c.c.; dovendo poi l’ipotesi
di decadenza essere ascritta, non già all’art. 32, quarto comma, lett. d) I.
183/2010 (relativa ai soli vizi del contratto di somministrazione e non
anche del contratto di lavoro), ma dell’art. 32, terzo comma, lett. a)
I. cit., essendo i contratti in questione a termine e pertanto impugnabili
entro centoventi giorni, rispettati per il ricevimento dalla società il 19
maggio 2014 della lettera d’impugnazione, in relazione ai contratti anteriori
al 20 febbraio 2014; ribadite infine la propria condizione di metus, ai sensi
degli artt. 1434 e 1435
c.c., per il rischio di una mancata riassunzione con contratto a termine,
in caso di impugnazione per nullità e l’esistenza di una causa incolpevole,
rilevante ai sensi dell’art. 153, secondo comma
c.p.c., ostativa alla tempestiva impugnazione.

2. Esso è infondato.

3. In tema di successione di contratti di lavoro a
termine in somministrazione, questa Corte ritiene che l’impugnazione
stragiudiziale dell’ultimo contratto della serie non si estenda ai contratti
precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine
inferiore a quello di sessanta giorni utile per l’impugnativa, poiché
l’inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro (il quale potrà
determinarsi solo ex post, a seguito dell’eventuale accertamento della
illegittimità del termine apposto) comporta la necessaria conseguenza che a
ciascuno dei predetti contratti si applichino le regole inerenti la loro
impugnabilità (Cass. 21 novembre 2018, n. 30134; Cass. 18 dicembre 2018, n.
32702; Cass. 30 settembre 2019, n. 24356; Cass. 25 febbraio 2020, n. 5037).

3.1. Inoltre, si ritiene che il termine di decadenza
per proporre l’impugnazione stragiudiziale sia quello di sessanta giorni
previsto dall’art. 32, primo
comma I. 183/2010, come chiarito dal quarto comma, lett. d) della stessa
norma e non già quello esteso a centoventi giorni dalla I. 92/2012, siccome non riguardante il caso della
somministrazione di manodopera, bensì la diversa ipotesi del contratto di
lavoro a tempo determinato in cui il rapporto, per quanto a termine, è
istaurato dal lavoratore direttamente con chi fruisce della prestazione, mentre
nella somministrazione di lavoro si istaura un rapporto trilaterale, in cui il
lavoratore non istituisce un vincolo direttamente con chi utilizza la sua attività
(Cass. 15 novembre 2019, n. 29753).

3.2. Il lavoratore ricorrente reitera poi
pedissequamente le deduzioni riguardanti la ricorrenza di una causa impeditiva
della decadenza, ai sensi dell’art. 2966 c.c.,
nel riconoscimento datoriale del diritto alla prosecuzione del rapporto di
lavoro in conseguenza della successione ripetuta dei suddetti contratti di
somministrazione a termine; e così pure, per la stessa ragione, di rinuncia
alla prescrizione, a norma dell’art. 2937, terzo
comma c.c. e di esistenza di una causa incolpevole, rilevante ai sensi
dell’art. 153, secondo comma c.p.c., ostativa
alla tempestiva impugnazione. E tutte sono già state dalla Corte ambrosiana,
con argomentazioni congrue (rispettivamente: la prima, al primo capoverso di
pg. 5 della sentenza; la seconda, all’ultimo capoverso di pg. 5 della sentenza;
la terza, al primo capoverso di pg. 6 della sentenza), neppure specificamente
confutate. Sicché, sotto questo profilo, il motivo difetta di specificità, in
violazione della prescrizione dell’art. 366, primo
comma, n. 4 c.p.c., che ne esige l’illustrazione, con esposizione degli
argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata
e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo
come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della
sentenza (Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass.
22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 23 gennaio
2019, n. 1845).

3.3. Tali censure non configurano in ogni caso il
vizio di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta e pertanto
dell’errore di diritto: non ricorrendo il vizio di violazione di legge
denunciato, integrato dalla deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge,
implicante un problema interpretativo (Cass. 30 aprile 2018, n. 10320; Cass. 31
maggio 2019, n. 13747).

3.4. Esse consistono piuttosto nell’allegazione di
un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di
causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica
valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di
legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio
2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340),
ovviamente nei limiti del novellato testo dell’art.
360, primo comma, n. 5 c.p.c., qui non ricorrente.

3.5. Infine, neppure sussiste una condizione di
metus del lavoratore, ai sensi degli artt. 1434
e 1435 c.c., per la verosimile mancata
riassunzione con contratto a termine, in caso di impugnazione per nullità. In
tale caso, essa non è ravvisabile per la carenza del presupposto di un rapporto
a tempo indeterminato non assistito da alcuna garanzia di continuità (Cass. 5 agosto 2019, n. 20918). Già esso è stato
escluso (in particolare da: Cass. s.u. 16 gennaio
2003, n. 575) per la specificità della fattispecie di successione di
contratti a termine (rispetto a quella di un unico rapporto lavorativo a tempo
indeterminato), anche in relazione alla situazione psicologica del lavoratore;
tenuto conto che le assunzioni temporanee hanno carattere precario e che la
rinnovazione del relativo rapporto non presenta carattere di normalità perché
“la non rinnovazione costituisce, invece, un evento inerente alla natura
del rapporto stesso”, sicché “la previsione di essa non pone, pertanto,
il lavoratore in una situazione di timore di un evento incerto, al quale egli
sia esposto durante il rapporto, qual è il licenziamento nel rapporto di lavoro
di diritto privato” (Corte Cost. 20 novembre
1969, n. 143).

4. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.
in relazione all’art. 1 d.lg.
368/2001, per erronea attribuzione dell’onere probatorio del rispetto dei
limiti quantitativi previsti per le assunzioni a termine, anche con contratto
di somministrazione, anziché al datore di lavoro, al lavoratore, nonostante
l’assoluzione del proprio di adeguata allegazione nel ricorso introduttivo del
loro superamento.

5. Con il terzo, egli deduce violazione e falsa
applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione
all’art. 3, primo comma, lett. d)
d.lg. 368/2001, per erronea attribuzione dell’onere probatorio della
mancata valutazione dei rischi, ai sensi dell’art. 4 d.lg. 626/1994, anziché
al datore di lavoro, al lavoratore, nonostante l’assoluzione del proprio di
adeguata allegazione nel ricorso introduttivo della sua omissione.

6. I due motivi, congiuntamente esaminabili per
ragioni di stretta connessione, sono inammissibili.

7. Non si configura violazione della norma
denunciata, dovendosi escludere nel caso di specie l’inversione dell’onere
della prova denunciata, non avendolo il giudice attribuito ad una parte diversa
da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle
fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni;
certamente non ricorrente invece laddove oggetto di censura sia la valutazione
che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 17 giugno
2013, n. 15107; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395).

7.1. Giova qui ribadire che l’onere probatorio datoriale
si fondi sul presupposto di una specifica allegazione in fatto del lavoratore,
siccome fatto costitutivo della domanda di nullità e pertanto di compiuta
definizione della causa petendi (coerentemente con la circolarità,
caratterizzante il rito del lavoro, tra oneri di allegazione, oneri di
contestazione ed oneri di prova, in particolare rilevante ai fini di
impossibilità della contestazione o della richiesta di prova, oltre i termini
preclusivi stabiliti dal codice di rito, in ordine a fatti non allegati ovvero
a circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti
il diritto azionato, non siano state esplicitate in modo espresso e specifico
nel ricorso introduttivo: Cass. s.u 17 giugno 2004, n. 11353; Cass. 24 ottobre
2017, n. 25148).

7.2. Ebbene, la Corte territoriale ha escluso
l’adempimento di un tale onere di specifica allegazione del lavoratore proprio
in riferimento alle parti richiamate nel motivo (per le ragioni esposte al
penultimo capoverso di pg. 6 della sentenza). Con ciò esercitando quel potere
di qualificazione e interpretazione della domanda e del suo contenuto,
spettante in via esclusiva al giudice del merito, insindacabile in sede di
legittimità, se non sotto il profilo di vizio di motivazione (Cass. 13 luglio
1965, n. 1479) e pertanto entro gli attuali limiti (certamente travalicati
dalla denuncia del ricorrente, neppure nei termini appropriati) consentiti dal
vigente art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.
(Cass. 3 dicembre 2019, n. 31546): nel caso di specie neppure dedotto.

8. Dalle superiori argomentazioni discende allora il
rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il
regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella
ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass.
s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla
rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che
liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.250,00 per compensi professionali, oltre
rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se
dovuto.

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