Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 maggio 2021, n. 11762
Licenziamento disciplinare, Reato di abuso sessuale a danno
di minori, commesso fuori dal servizio e non attinente in via diretta al
rapporto di lavoro, Rottura del rapporto fiduciario
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Trento ha rigettato il
gravame proposto da R.L. avverso la sentenza del Tribunale di Rovereto con la
quale era stata respinta l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato
al predetto dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (di seguito,
INPS), quale conseguenza del reato di abuso sessuale a danno di minori,
commesso fuori dal servizio e non attinente in via diretta al rapporto di
lavoro, ma ritenuto tale da non consentirne neanche provvisoriamente la
prosecuzione.
La Corte territoriale riteneva che la mancata
comunicazione della decisione dell’ente di sospendere il procedimento
disciplinare in attesa degli esiti del procedimento penale non fosse causa di
nullità del licenziamento, perché un tale obbligo non era previsto.
La Corte riteneva altresì infondato l’assunto del
ricorrente secondo cui il procedimento disciplinare avrebbe potuto essere
ripreso dopo il giudizio penale di primo grado, per avere la P.A. a quel punto
elementi sufficienti per decidere, rimarcando come la complessità e delicatezza
degli addebiti, soprattutto a fronte della persistente contestazione della
responsabilità, anche nel giudizio civile, giustificasse l’attesa del
giudicato, come peraltro previsto dalla legge.
Nel merito, la sentenza di appello riteneva che la
gravità dei reati commessi, pur riguardando ambito diverso da quello
lavorativo, comportasse la rottura del rapporto fiduciario, data l’esigenza,
specie per una P.A., di poter contare in generale sull’osservanza da parte del
proprio addetto dei precetti dell’ordinamento e dei valori di legalità.
Infine, la Corte riteneva che correttamente gli
effetti della sanzione fossero stati fatti decorrere dalla data della
sospensione dal servizio, in coerenza con la previsione in proposito del
regolamento di disciplina.
2. Il M. ha proposto ricorso per cassazione sulla
base di quattro motivi, cui l’INPS ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la
violazione degli artt. 54 ss. d. Igs. 165/2001, nonché dell’art. 12
disp. prel. c.c.e dell’art. 3 Cost., (art.
360 n. 3 c.p.c.) sostenendo che il licenziamento sarebbe invalidato dalla
mancata comunicazione della decisione dell’ente di attendere gli esiti del
procedimento penale prima di definire la questione disciplinare.
Con il secondo motivo è affermata la violazione
delle stesse norme, ma sotto il profilo del non avere la P.A. ripreso il
procedimento disciplinare dopo il processo penale di primo grado o, almeno, di
secondo grado.
2. I due motivi possono essere esaminati
congiuntamente e sono infondati.
2.1 Questa Corte ha ricostruito il procedimento
disciplinare come destinato a svolgersi attraverso le diverse fasi della sua
apertura, della contestazione, dell’istruttoria amministrativa ed infine, della
irrogazione della sanzione.
Tale ricostruzione ha poi portato, con riferimento
alla normativa conseguente al d. Igs. 150/2009,
a ravvisare fattispecie decadenziali soltanto nell’inosservanza dei tempi del
procedere rispetto al termine (iniziale) per la contestazione, di cui all’art. 55-bis, co. 2 e 4, d. Igs.
165/2001) ed ai termini (finali) di conclusione del procedimento di
irrogazione di cui alle stesse norme, oltre che, nel caso di sospensione in
attesa della definizione del procedimento penale, dei termini (finali) di cui
all’art. 55-ter, u.c., d. Igs.
165/2001, per effetto implicito nel rinvio di quest’ultima disposizione
all’art. 55-bis, che appunto
qualifica come perentori i termini ultimi di irrogazione.
Non è stata invece ritenuta di portata decadenziale
l’inosservanza del termine di cinque giorni previsto per la trasmissione degli
atti all’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (Cass.
14 dicembre 2018, n. 32491; Cass. 26 agosto
2015, n. 17153), ove non si dimostri un pregiudizio al diritto di difesa e,
con riferimento anche al termine e le modalità per la convocazione a difesa disciplinati
dall’art. 55-bis del d.lgs. n. 150 del 2009 (ndr: art. 55-bis del d.lgs. n. 165/2001),
ne è stata posta in evidenza la finalità di garanzia (Cass. 6 marzo 2019, n. 6555; Cass. 2 ottobre
2018, n. 23895, Cass. 22 agosto 2016, n. 17245,
Cass. 10 agosto 2016, n. 16900), traendone la conseguenza che i vizi
procedurali correlati all’audizione del lavoratore possono dare luogo a nullità
del procedimento, e della conseguente sanzione, solo ove sia dimostrato,
dall’interessato, un pregiudizio al concreto esercizio del diritto di difesa, e
non di per sé soli.
D’altra parte, anche le recenti modifiche apportate
dal d. Igs. 75/2017 (c.d. Riforma Madia), per
quanto qui non applicabili ratione temporis, prevedono analogamente, nel nuovo
comma 9-ter dell’art. 55-bis,
che «la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento
disciplinare previste dagli articoli
da 55 a 55-quater (…) non
determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e
della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il
diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione
disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso
concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività» e
che «sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione
dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento».
2.2 Ciò posto, si rileva che l’art. 55-ter d. Igs. 165/2001 non
prevede che la decisione della P.A. di sospendere il procedimento disciplinare
sia comunicata al dipendente.
D’altra parte, è difficoltoso ricostruire un
indiscriminato interesse del lavoratore a che il procedimento disciplinare
prosegua, quando per i medesimi fatti sia pendente procedimento penale, visto
che l’attesa (al di là del caso di provvedimenti cautelari, che a livello di
ricostruzione generale non rileva) consente comunque la prosecuzione medio tempore
del rapporto e permette la fruizione delle facoltà difensive insite nel
procedimento penale.
In mancanza della prova di concreti ed effettivi
pregiudizi al diritto di difesa, il fatto che la P.A., non palesi con
comunicazione espressa l’intento di attendere l’esito del procedimento penale è
pertanto privo di rilievo rispetto alla validità del procedimento disciplinare.
L’unica decadenza in tali casi è quella, già
menzionata, che potrebbe verificarsi all’esito dell’ultimazione del processo
penale, momento rispetto al quale la ripresa del procedimento disciplinare è
rigorosamente regolata dall’art.
55-ter, co. 4, con riferimento a dati formali certi, il cui superamento
cronologico come si è detto è causa di invalidità della sanzione.
Ma, rispetto a tale decadenza, la mancanza di
comunicazione dell’originaria sospensione non ha alcun rilievo, in quanto dopo
il giudicato la riattivazione ha luogo attraverso la rinnovazione della
contestazione, la quale naturalmente consente di dispiegare ogni eventuale
reazione riguardo al rispetto dei termini decadenziali in quel contesto
previsti.
2.3 Quanto sopra consente altresì di escludere che
il lavoratore possa dolersi del fatto che, dopo la sospensione del procedimento
disciplinare, la P.A. non lo riattivi dopo le sentenze di primo o di secondo
grado emesse in sede penale. Questa Corte ha già precisato che quella di
sospendere il procedimento disciplinare è «facoltà discrezionale attribuita
alla P.A., la quale, fermo il principio della tendenziale autonomia del
procedimento disciplinare rispetto a quello penale, può esercitarla qualora,
per la complessità degli accertamenti o per altre cause, non disponga di
elementi necessari per la definizione del procedimento, essendo legittimata,
peraltro, a riprendere il procedimento disciplinare, senza attendere che quello
penale venga definito con sentenza irrevocabile, allorquando ritenga che gli
elementi successivamente acquisiti consentano la decisione» (Cass. 13 maggio
2019, n. 12662).
Tale ripresa anticipata è dunque facoltà propria
della P.A., a tutela del proprio buon andamento, ma non sussiste alcun
interesse giuridicamente tutelato del lavoratore a che essa abbia luogo, in
quanto anche da questo punto di vista le tutele decadenziali sono previste solo
in ragione del termine finale, susseguente al giudicato.
3. Il terzo motivo è dedicato all’asserita
violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) degli artt. 54 ss. d. Igs. 165/2001, nonché dell’art. 12 disp. prel. c.c.e dell’art. 3
Cost. anche ex art. 360 n. 5 c.p.c., per
essersi considerato solo il reato formalmente ascritto, senza valutare né
l’assenza di precedenti, né il fatto che sul lavoro non vi erano contatti con
minori e che, nel periodo dopo l’arresto, la condotta del dipendente era stata
irreprensibile, tanto che vi era stata una promozione ed erano state accolte
domande di trasferimento.
Il motivo attiene all’apprezzamento in concreto
della congruità della sanzione rispetto al fatto addebitato ed al complesso
delle circostanze riguardanti il ricorrente.
Sul punto la Corte territoriale ha sottolineato, con
giudizio di merito in sé logico e concludente, non solo la «particolare
odiosità» dei reati commessi, ma anche gli obblighi di osservanza dei valori di
legalità che caratterizzano il pubblico impiegato, per concluderne che
complessivamente dovesse aversi per giustificata la valutazione di
irrimediabile rottura del rapporto fiduciario.
Suggestiva, ma infondata, è poi l’osservazione
secondo cui la corretta prosecuzione del rapporto, con anche una promozione,
nelle more del procedimento penale, avrebbe dovuto essere considerata nel
giudizio sulla proporzione della sanzione.
Infatti, qualora la P.A., per ragioni di garanzia e
cautela, decida di posticipare la propria decisione all’esito del procedimento
penale, ciò non significa che l’apprezzamento della gravità e
dell’improseguibilità del rapporto debba essere necessariamente condizionato
dal comportamento tenuto medio tempore tenuto dal ricorrente.
La P.A., sospendendo il procedimento disciplinare,
legittimamente evita ogni giudizio sui fatti commessi, ma la loro gravità è
destinata pienamente a riemergere, in tutta la sua portata ed in ogni aspetto,
una volta che, con il giudicato, essi si abbiano per definitivamente accertati.
Ne deriva che la regolare prosecuzione del rapporto
dopo la sospensione del procedimento disciplinare non esclude la possibilità di
valorizzare i fatti contestati anche quale ragione di licenziamento in tronco,
se da essi, in sé considerati, discenda una valutazione che avvalori la
conclusione in ordine alla rottura del rapporto fiduciario.
In definitiva il giudizio sull’incidenza dei reati
commessi sul rapporto fiduciario resta valutazione di merito, nel caso di
specie non implausibilmente fondata sulla gravità dei fatti e sulle peculiarità
del lavoro pubblico, sotto il profilo del rispetto della legalità e senza che
sia necessariamente decisivo quanto accaduto o il comportamento positivamente
serbato dall’incolpato nella pendenza degli accertamenti penali.
4. Il quarto motivo sostiene ancora la violazione
degli artt. 54 ss. d. Igs.
165/2001, nonché degli artt. 12 disp. prel.
c.c. e art. 3 Cost., per avere la Corte di
merito ritenuto legittimo che il licenziamento fosse stato fatto retroagire,
salvi i periodi di lavoro prestati, al momento della sospensione dal servizio.
In tal modo, secondo il ricorrente, si sarebbe
trascurato il fatto che si trattava di sospensione dovuta alla detenzione
personale, mentre il Regolamento di disciplina faceva riferimento alla
sospensione cautelare, da intendere in senso stretto come misura di tutela
interinale assunta discrezionalmente dalla P.A., che nel caso di specie non era
stata disposta.
Il motivo è infondato.
La sospensione per detenzione riconnessa a misure
penali, qualora conseguente agli stessi fatti che poi giustificano il
licenziamento, si connota, in concreto, come prodromica rispetto ad esso e
giustifica il retroagire degli effetti della sanzione espulsiva.
Il licenziamento e la sua disposta retroattività
hanno così l’effetto di giustificare definitivamente la neutralizzazione del
periodo non lavorato per effetto della detenzione, salve le misure di favore
previste dalla contrattazione a tutela del mantenimento interinale
dell’interessato e della sua famiglia e salvo il fatto, espressamente affermato
dalla Corte territoriale, che gli obblighi negoziali permangono intatti nei
periodi non coperti dalla misura penale o da altri provvedimenti sospensivi
applicati dalla P.A.
Non a caso, del resto, l’art. 18 del C.C.N.L. del Comparto
enti pubblici non economici, qui da applicare, regola sotto la medesima
rubrica della sospensione cautelare sia la sospensione d’ufficio per detenzione
penale, sia quella facoltativamente disposta per ragioni di tutela urgente
della P.A. Ed analoga disciplina e rubrica è contenuta, per quanto qui non
applicabile ratione temporis, nel C.C.N.L. dell’anno 2018 del Comparto
unificato delle Funzioni Centrali (art. 64), come anche nei
C.C.N.L. degli altri Comparti di quello stesso anno.
Tutto ciò è conforme all’orientamento di questa
Corte, secondo cui «ove il procedimento disciplinare si concluda in senso
sfavorevole al dipendente con l’adozione della sanzione del licenziamento, la
precedente sospensione dal servizio – pur strutturalmente e funzionalmente
autonoma rispetto al provvedimento risolutivo del rapporto, giacché adottata in
via meramente cautelare in attesa del secondo – si salda con il licenziamento,
tramutandosi in definitiva interruzione del rapporto e che legittimando il
recesso del datore dì lavoro retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto
alle retribuzioni a far data dal momento della sospensione medesima» (Cass. 9 settembre 2008, n. 22863; successivamente
Cass. 12 maggio 2015, n. 618).
Pertanto il Regolamento di disciplina, da intendere,
nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato – come atto di autonomia
privata di gestione del rapporto di impiego, cui non è precluso porre
disciplina integrativa in melius (in termini di maggiori garanzie
procedimentali per il dipendente) o di dettaglio del procedimento disciplinare
(Cass. 4 maggio 2011, n. 9767), disponendo e
venendo interpretato nei termini di cui sopra è coerente con l’assetto dei
diritti da regolare e come tale è stato posto del tutto legittimamente a
fondamento della sentenza impugnata.
3. In definitiva il ricorso è nel suo insieme
infondato e va pertanto disatteso, con regolazione secondo soccombenza delle
spese del grado.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità
che liquida in euro 5.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre
spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.