Lo scioglimento del rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova avvenuto prima dell’entrata in vigore del blocco dei licenziamenti, ma nel chiaro contesto giuridico della emergenza sanitaria, è da considerarsi nullo per frode alla legge.
Nota a Trib. Milano 5 febbraio 2021
Gennaro Ilias Vigliotti
Il D.L. n. 18/2020, entrato in vigore il 17 marzo 2020, ha vietato per 60 giorni l’intimazione di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3, L. n. 604/1966. Il successivo art. 80, D.L. n. 34/2020 ha esteso, a decorrere dal 17 maggio 2020, la portata temporale di tale divieto da 60 giorni a 5 mesi. Il blocco dei licenziamenti è stato poi successivamente prorogato con ulteriori provvedimenti legislativi fino ad arrivare all’attuale termine del 30 giugno 2021, adottato con il D.L. 22 marzo 2021, n. 41 (c.d. decreto Sostegni), art. 8, co. 8 e 9.
I recessi datoriali esclusi dal blocco sono dunque quelli intimati per ragioni soggettive, quelli connessi a procedure di cambio appalto con continuazione del rapporto o all’estinzione definitiva dell’impresa e i c.d. licenziamenti ad nutum, cioè intimabili senza giustificazione formale, come avviene per i recessi intimati al lavoratore durante il patto di prova.
Secondo la sentenza del Tribunale di Milano 5 febbraio 2021, anche tali ultimi licenziamenti devono essere inclusi nel blocco disposto dalla legislazione emergenziale se la loro intimazione è chiaramente collegata non alla funzione dichiarata nel provvedimento di estinzione del rapporto – ossia, nel caso di specie, il mancato superamento della prova – bensì all’esigenza di liberarsi di contratti di lavoro non più economicamente sostenibili in ragione delle mutazioni organizzative imposte dalla pandemia.
Nel caso di specie, il Giudice ha conosciuto del ricorso depositato da alcuni lavoratori, assunti tutti con contratto a termine e patto di prova di 60 giorni da una società di servizi formativi e linguistici. I lavoratori erano stati tutti licenziati per mancato superamento della prova nel marzo 2020, diversi giorni prima dell’entrata in vigore del divieto di licenziamenti oggettivi e collettivi. I ricorrenti deducevano che i licenziamenti, pur non rientranti nel blocco emergenziale disposto dal legislatore – sia per la tipologia, sia per la loro collocazione temporale – erano comunque da intendersi illegittimi poiché intimati dalla società resistente in prossimità dell’adozione del blocco dei recessi (già noto alle cronache) e all’esclusivo fine di evitare di non poter in futuro interrompere il rapporto di lavoro con risorse che non avrebbero potuto lavorare in ragione della pandemia in atto.
L’azienda si era difesa affermando che i recessi erano stati intimati per l’effettiva non idoneità professionale riscontrata entro i termini del periodo di prova nei confronti dei lavoratori e che, dunque, dovevano intendersi esclusi dal blocco in quanto non intimati ai sensi dell’art. 3, L. n. 604/1966. Inoltre, tale blocco era intervenuto solo diversi giorni dopo l’adozione dei provvedimenti, con la conseguenza che, anche sul piano dell’efficacia temporale, le norme che proibiscono i recessi nel periodo d’emergenza non potrebbero trovare applicazione al caso di specie
Il Tribunale, accogliendo integralmente le domande dei lavoratori, ha affermato che i licenziamenti intimati ai ricorrenti sono stati tutti adottati in frode alla legge (ai sensi degli artt. 1324, 1344 e 1418 c.c.), cioè all’esclusivo fine di evitare di incorrere nelle conseguenze del blocco dei recessi datoriali in procinto di essere approvato dal legislatore ma già noto alla collettività e, quindi, al datore di lavoro.
Secondo il Giudice «non vi è dubbio che, individualmente considerati, i recessi intimati dagli odierni ricorrenti costituiscano null’altro che l’esercizio della facoltà di recesso ad nutum che l’ordinamento attribuisce ad entrambe le parti del rapporto in virtù della previsione di cui all’art. 2066 c.c. Tuttavia, collocati nel contesto storico sociale cui appartengono, valutati nel loro complesso anche – e soprattutto – in ragione della peculiarità delle tempistiche, delle modalità e delle forme dell’agire datoriale, i licenziamenti di cui si discute risultano oggettivamente viziati dallo sviamento causale lamentato in ricorso». La società, secondo il Tribunale, «ha massivamente impiegato la risoluzione per mancato superamento della prova per recedere, con effetto immediato, da una molteplicità di rapporti di lavoro appena formalizzati per prestazioni di cui, con ogni evidenza, non avrebbe potuto beneficiare, e che erano potenzialmente destinati a patire l’incerta regolazione del periodo emergenziale».
Riscontrata l’illegittimità dei recessi per frode alla legge, il Giudice, trattandosi di contratti a termine, non ha disposto la reintegra ma la sola condanna al pagamento di una indennità risarcitoria, per ciascun lavoratore ricorrente, computata sulla retribuzione spettante dal giorno del licenziamento fine all’estinzione programmata del termine di durata del rapporto di lavoro.