Se il fatto è manifestamente insussistente, il giudice deve sempre disporre la reintegrazione del lavoratore.
Nota a Corte Cost. 1° aprile 2021, n. 59
Francesco Belmonte
L’art. 18, co. 7, secondo periodo, L. 20 maggio 1970, n. 300 – come modif. dall’art. 1, co. 42, lett. b), L. 28 giugno 2012, n. 92 – è incostituzionale nella parte in cui prevede «che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare” – invece che “applica altresì” – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma», ossia la reintegrazione c.d. debole.
Questa, la pronuncia della Corte Costituzionale 1° aprile 2021, n. 59, in relazione alla questione di legittimità costituzionale promossa dal Tribunale di Ravenna (ord. 7 febbraio 2020).
Nello specifico, il giudice a quo ha espresso i propri dubbi in merito alla conformità dell’art. 18, co. 7, secondo periodo, Stat. Lav., agli artt. 3, co. 1, 41, co.1, 24 e 111, co. 2, Cost., nella parte in cui dispone la reintegrazione “eventuale” del lavoratore estromesso dall’azienda nell’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per g.m.o.
Ad avviso del Tribunale, il carattere meramente facoltativo della reintegrazione lederebbe, soprattutto, il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto, per effetto di una “insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell’altro l’atto espulsivo”, determinerebbe un’arbitraria disparità di trattamento tra “situazioni del tutto identiche, ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei quali si sia accertata in giudizio l’infondatezza (addirittura la manifesta infondatezza per il g.m.o.)”.
Il Giudice delle Leggi, nel ritenere fondata la questione, ripercorre l’assetto sanzionatorio del licenziamento illegittimo conseguente alle modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012 (c.d. riforma Fornero).
Con tale novella, infatti, il legislatore ha inteso ridistribuire “in modo più equo le tutele dell’impiego” anche mediante l’adeguamento della disciplina dei licenziamenti “alle esigenze del mutato contesto di riferimento” e la previsione “di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie” (art. 1, co.1, lett. c, L. cit.).
In particolare, in seguito alla revisione introdotta dalla Legge Fornero, l’originario modello contenuto nell’art. 18 Stat. Lav., incentrato sulla tutela reintegratoria per tutte le ipotesi di nullità, annullabilità e inefficacia del recesso, è stato sostituito da quattro differenti regimi (tutela reale “forte”; tutela reale “debole”; tutela indennitaria “piena”; tutela indennitaria “dimezzata”), applicabili ai rapporti a tempo indeterminato instaurati fino al 7 marzo 2015.
Quanto ai licenziamenti economici, il ripristino del rapporto di lavoro è circoscritto a quei recessi ingiustificati, “per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”, ovvero alle ipotesi di manifesta insussistenza del fatto (art. 18, co.7, Stat. Lav.), “che postula un’evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso, e dunque la sua pretestuosità”.
“Tale requisito, si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore di lavoro dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore” (Cass. n. 29102/2019).
Tuttavia, dal tenore letterale della norma (“può altresì applicare”), emerge che nei casi di manifesta insussistenza la reintegrazione del dipendente non rappresenta una scelta obbligata, bensì è rimessa alla facoltà discrezionale del giudice.
La giurisprudenza di legittimità, nel tentativo di scongiurare le incertezze applicative generate dal dettato normativo (Cass. n. 14021/2016), “ha provato a definire i criteri che presiedono alla valutazione discrezionale del giudice e ha posto l’accento, in particolare, sui principi generali in tema di risarcimento in forma specifica (art. 2058 c.c.), che precludono la restitutio in integrum quando si riveli eccessivamente onerosa”.
Più precisamente, nella ricostruzione della Cassazione, il richiamo alla disciplina del risarcimento del danno in forma specifica offre “un parametro di riferimento per l’esercizio del potere discrezionale del giudice” che impone di valutare se la reintegrazione sia “al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa” (Cass. n. 10435/2018, in q. sito, con nota di M.N. BETTINI e F. DURVAL).
Il giudice, pertanto, può disporre la reintegrazione del lavoratore “subordinatamente all’ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosità del rimedio” (Cass. n. 2930/2019).
Ciononostante, per la Consulta, la disposizione censurata, nel sancire una facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, risulta contraria alla Costituzione.
Il carattere meramente facoltativo della tutela reale rivela, anzitutto, una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla riforma Fornero e vìola il principio di eguaglianza.
Infatti, “per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha previsto la reintegrazione del lavoratore quando si accerti in giudizio l’insussistenza del fatto posto a base del recesso del datore di lavoro. Per i licenziamenti economici, l’insussistenza del fatto può condurre alla reintegrazione ove sia manifesta. L’insussistenza del fatto, pur diversamente graduata, assurge dunque a elemento qualificante per il riconoscimento del più incisivo fra i rimedi posti a tutela del lavoratore.”
“Secondo la valutazione discrezionale del legislatore, l’insussistenza del fatto – sia che attenga a una condotta di rilievo disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto – rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che è quella più energica della ricostituzione del rapporto di lavoro.
In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto.”
In altri termini, le peculiarità delle fattispecie di licenziamento “non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta.”
Per la Consulta, poi, “alla violazione del principio di eguaglianza e alla disarmonia interna a un sistema di tutele, già caratterizzato da una pluralità di distinzioni, si associa l’irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento”.
Per i licenziamenti economici, infatti, “il legislatore non solo presuppone una evidenza conclamata del vizio, che non sempre è agevole distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo”, con la conseguenza che “la scelta tra due forme di tutela profondamente diverse – quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria – è così rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento.”