Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 maggio 2021, n. 12942
Licenziamento disciplinare, Sospensione dal servizio, Falsa
attestazione della presenza in servizio, Valutazione dellla gravità dei
comportamenti
Fatti di causa
1. La Corte d’ Appello di Napoli ha respinto il
reclamo proposto da A.A. avverso la sentenza del Tribunale di Nola che,
all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza emessa
nella fase sommaria e rigettato il ricorso volto ad ottenere la declaratoria
d’illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato dall’Inps all’A. con
lettera del 14 ottobre 2016.
2. La Corte territoriale ha premesso, in punto di
fatto, che la reclamante era stata coinvolta nelle indagini preliminari
sfociate nell’applicazione da parte del GIP di Nola della misura cautelare
della sospensione dal servizio per mesi sei, disposta in quanto l’indagata, nel
periodo 14 dicembre 2015/7 gennaio 2016, aveva più volte attestato falsamente
la presenza in servizio, consegnando ad altri il tesserino personale perché ne
facessero uso al suo posto all’entrata o all’uscita, ed aveva anche consentito
che un’analoga falsa attestazione fosse resa dal collega R., al quale ella si
era sostituita nella timbratura.
3. Ha evidenziato che la dipendente nella immediatezza
dei fatti aveva sostanzialmente ammesso gli addebiti e riconosciuto di aver
tenuto le condotte contestate, sicché nessuna ulteriore verifica doveva
effettuare l’Istituto, il quale ben poteva limitarsi a valutare la gravità dei
comportamenti, a prescindere dagli sviluppi penali della vicenda.
4. Il giudice del reclamo ha ritenuto che non
fossero verosimili e credibili le giustificazioni addotte solo in sede
giudiziale e pertanto, richiamata la giurisprudenza di questa Corte in tema di
interpretazione dell’art. 55 quater
comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 165/2001, ha effettuato il giudizio di
proporzionalità pervenendo alla conclusione che la sanzione del licenziamento
per giusta causa fosse adeguata all’illecito, sia in ragione dell’espressa
previsione normativa, sia perché l’A. si era sottratta all’adempimento dei
propri doveri in modo da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e
arrecando anche un danno all’immagine del datore di lavoro, in ragione della
risonanza mediatica che aveva avuto l’indagine sul fenomeno dell’assenteismo
verificatosi presso l’Agenzia INPS di San Giuseppe Vesuviano.
5. Per la cassazione della sentenza A.A. ha proposto
ricorso affidato a tre motivi, ai quali ha opposto difese con tempestivo
controricorso l’Inps.
La Procura Generale ha concluso ex art. 23, comma 8 bis del d.l. n.
137/2020, convertito in legge n. 176/2020,
per l’inammissibilità del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la ricorrente
denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.
2106 e 2119 cod. civ., dell’art. 55 del d.lgs. n. 165/2001,
del regolamento di disciplina dei dipendenti dell’Inps, degli artt. 115 e 116 cod.
proc. civ. e, richiamata giurisprudenza di questa Corte, sostiene che il
giudice del reclamo non ha proceduto all’apprezzamento unitario e sistematico
dei vari elementi di giudizio, necessario per poter affermare la grave lesione
del vincolo fiduciario, non avendo tenuto in alcun conto la condotta
irreprensibile osservata in oltre venticinque anni di servizio, l’assenza di
precedenti disciplinari, il raggiungimento di elevati obiettivi di
produttività.
2. La seconda censura, egualmente ricondotta al
vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.,
addebita alla sentenza impugnata la violazione degli artt.
2106 e 2119 cod. civ. nonché dell’art. 24 Cost., ravvisata nell’avere valorizzato,
ai fini della formazione del convincimento, la condotta tenuta dall’A. nel
corso del procedimento disciplinare ed in particolare l’ampia ammissione di
responsabilità, poi parzialmente ritrattata in sede giudiziale. La ricorrente
precisa che il lavoratore è libero di esercitare la propria difesa nella forma
che ritiene più opportuna ed aggiunge che le dichiarazioni dallo stesso rese
non hanno valore confessorio né fanno piena prova delle circostanze riferite.
3. La terza critica denuncia ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ. l’omesso esame di
fatto decisivo ai fini del giudizio oggetto di discussione fra le parti in
relazione alla dedotta disparità di trattamento con altri dipendenti raggiunti,
a fronte della medesima condotta di rilievo disciplinare, solo da sanzione
conservativa. Premesso che in relazione a questo aspetto la sentenza gravata
ricostruisce il fatto in termini difformi rispetto alla pronuncia resa dal
Tribunale, la ricorrente sostiene che il giudice del reclamo non ha
correttamente valutato la documentazione prodotta, dalla quale si evince che
l’Istituto negli altri casi ha valorizzato ai fini del giudizio di
proporzionalità elementi che, sebbene egualmente sussistenti, non sono stati
ritenuti nella fattispecie idonei ad incidere sulla gravità della condotta.
4. Il ricorso è inammissibile in tutte le sue
articolazioni perché, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di
legge, censura la valutazione delle risultanze istruttorie e sollecita un
diverso giudizio di merito sulla gravità dei fatti contestati, non consentito
in sede di legittimità.
E’ ius receptum il principio secondo cui il vizio di
violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da
parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e,
quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa;
viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta
a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della
norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura
è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione,
solo nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il
discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che
quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n.
26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).
In tema di licenziamento, poi, questa Corte, dopo
avere affermato che la nozione legale di giusta causa richiede di essere
specificata in sede interpretativa, ha precisato che tali specificazioni del
parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è
deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre
l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli
elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della
loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone
sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ( cfr.
fra le tante Cass. n. 7426/2018; Cass. n. 10017/2016; Cass.
n. 6498/2012; Cass. n. 5095/2011).
Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie
perché, come sinteticamente riassunto nello storico di lite, la Corte
territoriale:
a) si è attenuta ai principi di diritto enunciati da
questa Corte in ordine all’interpretazione dell’art. 55 quater lett. a) del d.lgs. n.
165/2001 ed alla necessità di esprimere il giudizio di proporzionalità
anche nell’ipotesi di tipizzazione legislativa della sanzione espulsiva;
b) ha valutato la materialità delle condotte
addebitate e le giustificazioni addotte dalla ricorrente, ritenendole non
credibili, sia perché in contrasto con l’ampia ammissione di responsabilità
resa nell’immediatezza dei fatti, sia in ragione dell’inverosimiglianza delle
stesse;
c) ha sottolineato l’abitualità del comportamento,
ponendo anche l’accento sulla circostanza che ciascun dipendente possedesse due
badges, il che consentiva ai colleghi di poterne disporre all’occorrenza;
d) ha tenuto conto della posizione ricoperta dall’A.
nell’organizzazione dell’ente e del particolare grado di fiducia richiesto
dalle mansioni alla stessa assegnate;
e) ha escluso che la gravità della condotta,
accentuata dal fatto che l’INPS aveva richiamato tutti i dipendenti al rigoroso
rispetto delle modalità di rilevamento della presenza in servizio, potesse
essere attenuata dall’esistenza di prassi irregolari e dai livelli di
produttività raggiunti;
f) ha rilevato, quanto alla denunciata disparità di
trattamento, che non erano stati offerti i dati necessari ai fini della
comparazione con altre posizioni e che l’Istituto aveva documentato di avere
inflitto la medesima sanzione espulsiva ad altri due dipendenti;
g) ha ritenuto, in via conclusiva, che fosse stato
irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario inteso come necessario affidamento
che il datore di lavoro, pubblico e privato, deve poter riporre sulla
correttezza futura dell’adempimento della prestazione lavorativa.
4.1. Il giudice del reclamo, dunque, ha
correttamente applicato i principi elaborati da questa Corte in tema di
licenziamento per giusta causa ed il giudizio espresso non può essere ritenuto
erroneo solo perché non sarebbe stata oggetto di specifica valutazione la
precedente condotta tenuta dalla dipendente, mai incorsa in rilievi
disciplinari.
E’ stato già affermato (cfr. Cass. n. 13534/ 2019 e la giurisprudenza ivi
richiamata) che gli elementi da apprezzare ai fini dell’integrazione della
giusta causa di recesso sono molteplici (gravità dei fatti addebitati, portata
oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state commessi,
intensità dell’elemento intenzionale, etc.) sicché in sede di legittimità la
parte, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del
vizio di sussunzione, non può limitarsi a fare leva sull’omesso richiamo, nella
motivazione, ad uno degli innumerevoli parametri che concorrono a connotare in
termini di maggiore o minore gravità la condotta addebitata, non essendo ciò
sufficiente a rendere il giudizio di sussunzione irragionevole o incoerente con
il concetto di giusta causa come elaborato dal giudice di legittimità.
4.2. Il giudizio di merito espresso dalla Corte
territoriale non può essere sindacato neppure attraverso la denuncia del vizio
di violazione e falsa applicazione degli artt. 115
e 116 cod. proc. civ., perché la violazione
delle norme processuali invocate è ravvisabile solo qualora il ricorrente
alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle
parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il
giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come
facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova
soggetti invece a valutazione (cfr. fra le più recenti Cass. n. 1229/2019,
Cass. n. 23940/2017, Cass. n. 27000/2016).
5. Il secondo motivo svolge considerazioni non
specificamente riferibili al decisum della sentenza gravata, perché la Corte
territoriale non ha affatto affermato che è precluso al lavoratore fare leva in
sede giudiziale su argomenti difensivi diversi da quelli addotti a propria
discolpa nel corso del procedimento disciplinare né ha attribuito alle prime
dichiarazioni valore confessorio, bensì ha solo dato atto della diversità di
linea difensiva ed ha poi valutato le giustificazioni rese, pervenendo al
convincimento, non censurabile in questa sede, dell’assoluta illogicità ed
inverosimiglianza di quelle fornite nel corso del giudizio.
Nel giudizio di cassazione i motivi devono avere i
caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione
impugnata, sicché la proposizione di censure prive di specifica attinenza al
decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione,
richiesta dall’art. 366 n.4 cod. proc. civ., e
determina l’inammissibilità, in tutto o in parte del ricorso, rilevabile anche
d’ufficio ( cfr. fra le tante Cass. n. 20910/2017, Cass.
n. 17125/2007, Cass. S.U. n. 14385/2007).
6. Infine inammissibile è anche la terza censura.
Le Sezioni Unite di questa Corte con la recente sentenza n. 34476/2019 hanno riassunto i
principi, ormai consolidati, affermati in relazione alla riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. ad opera del d.l. n. 83/2012 e, rinviando a Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n.
33679/2018, hanno evidenziato che il novellato testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. ha introdotto
nell’ordinamento un vizio specifico che concerne unicamente l’omesso esame di
un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo
della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo. Hanno, poi,
ribadito che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio
di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa
sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non
abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Nel caso di specie la censura non è riconducibile al
vizio denunciato, sia perché la lamentata disparità di trattamento non
costituisce un “fatto”, sia perché la deduzione difensiva è stata esaminata
dalla Corte territoriale, che l’ha ritenuta non provata e, comunque, non idonea
a far ritenere la sanzione inflitta non proporzionata alla gravità
dell’illecito.
7. In via conclusiva deve essere dichiarata
l’inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna della ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da
dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n.
228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n.
4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge
per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in €
6.000,00 per competenze professionali, oltre ad € 200,00 per esborsi, al
rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.