Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 maggio 2021, n. 13201
Avvocato, Redditi di importo inferiore a € 5.000,00, Natura
occasionale dell’attività svolta, Esclusione dall’obbligo di iscrizione alla
Gestione separata, Accertamento
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 2.4.2019, la Corte
d’appello di Genova ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva
dichiarato l’Avv. V.L. non tenuta ad iscriversi presso la Gestione separata in
relazione ai periodi nei quali aveva prodotto un reddito inferiore ai minimi
previsti per l’obbligatorietà dell’iscrizione presso la Cassa Nazionale
Forense.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che, sebbene
non potesse in linea generate dubitarsi dell’obbligatorietà dell’iscrizione
alla Gestione separata per coloro che esercitano abitualmente la professione di
avvocato e che non sono tenuti a iscriversi presso la Cassa Nazionale Forense,
il fatto che la professionista avesse percepito redditi di importo inferiore a
€ 5.000,00 rappresentasse un indizio della natura occasionale dell’attività
svolta e, comunque, escludesse il suo obbligo di iscriversi presso la Gestione
separata.
Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per
cassazione l’INPS, deducendo un unico motivo di censura, successivamente
illustrato con memoria. L’Avv. V.L. è rimasta intimata.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di censura, l’INPS denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 2, commi 26 ss., I. n.
335/1995, 18, commi 1 e 2,
d.l. n. 98/2011 (conv. con I. n. 111/2011),
21, comma 8, I. n. 247/2012,
e 44, d.l. n. 269/2003 (conv.
con I. n. 326/2003), per avere la Corte di
merito ritenuto che la produzione di un reddito inferiore alla soglia di €
5.000,00, di cui alla norma ult. cit., costituisse elemento sintomatico
decisivo ai fini della valutazione dell’occasionalità della prestazione e
comunque tale da escludere l’obbligo di iscrizione alla Gestione separata.
Il motivo è infondato, sebbene la motivazione della
sentenza vada corretta.
Va premesso che, ricostruendo la portata precettiva
dell’art. 2, comma 26, I. n.
335/1995, per come autenticamente interpretato dall’art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011
(conv. con I. n. 111/2011), questa Corte,
sulla scorta di Cass. S.U. n. 3240 del 2010,
ha avuto modo di affermare più volte che l’obbligo di iscrizione alla Gestione
separata è genericamente rivolto a chiunque percepisca un reddito derivante
dall’esercizio abituale (ancorché non esclusivo) ed anche occasionale (oltre la
soglia monetaria indicata nell’art.
44, comma 2, d.l. n. 269/2003, conv. con I. n.
326/2003) di un’attività professionale per la quale è prevista l’iscrizione
ad un albo o ad un elenco, tale obbligo venendo meno solo se il reddito
prodotto dall’attività professionale predetta è già integralmente oggetto di
obbligo assicurativo gestito dalla cassa di riferimento (così, espressamente, Cass. n. 32167 del 2018, in motivazione, cui
hanno dato continuità, tra le numerose, Cass. nn.
519 del 2019, 317 e 1827 del 2020, 477 e 478 del 2021). E trattasi di affermazione che
discende agevolmente dalla lettura del combinato disposto degli artt. 2, comma 26, I. n. 335/1995,
e dell’art. 44, d.l. n. 269/2003,
entrambi cit., il primo dei quali, per quanto qui rileva, prevede
l’obbligatorietà dell’iscrizione a carico dei «soggetti che esercitino, per
professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di
cui al comma 1 dell’articolo 49
del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917, e successive modificazioni ed integrazioni», mentre il
secondo, a decorrere dal 1° gennaio 2004, estende tale obbligo anche ai
«soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale […] solo qualora
il reddito annuo derivante da dette attività sia superiore ad euro 5.000».
Tanto premesso, è evidente l’errore in diritto in
cui è incorso la motivazione della sentenza impugnata.
Nell’intento del legislatore, reso palese dalla
lettera delle disposizioni citate, l’obbligatorietà dell’iscrizione presso la
Gestione separata da parte di un professionista iscritto ad albo o elenco è
collegata, infatti, all’esercizio abituale, ancorché non esclusivo, di una
professione che dia luogo ad un reddito non assoggettato a contribuzione da
parte della cassa di riferimento; la produzione di un reddito superiore alla
soglia di euro 5.000,00 costituisce invece il presupposto affinché anche
un’attività di lavoro autonomo occasionale possa mettere capo all’iscrizione
presso la medesima Gestione, restando invece normativamente irrilevante qualora
ci si trovi in presenza di un’attività lavorativa svolta con i caratteri
dell’abitualità.
Dirimente è, insomma, il modo in cui è svolta
l’attività libero-professionale, se in forma abituale o meno; e se
nell’accertamento di fatto di tale requisito ben possono rilevare le
presunzioni ricavabili, ad es., dall’iscrizione all’albo, dall’accensione della
partita IVA, dalle dichiarazioni rese ai fini fiscali o dall’organizzazione
materiale predisposta dal professionista a supporto della sua attività, non è
meno vero che trattasi pur sempre di forme di praesumptio hominis, che non
impongono all’interprete conclusioni indefettibili, ma semplici regole di
esperienza per risalire al fatto ignoto da quello noto.
Sotto questo profilo, deve escludersi che – come
invece preteso dall’Istituto ricorrente – tali regole di esperienza siano
passibili di irrigidirsi in virtù della normazione positiva dettata dagli artt. 61 e 69 – bis, d.lgs. n.
276/2003, così da trapassare nel campo della presunzione legale: tanto l’art. 61, comma 3, d.lgs. n. 276/2003,
nella parte in cui prevede che «sono escluse dal campo di applicazione del
presente capo le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è
necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali», quanto il successivo art. 69-bis, comma 3, che esclude
dalla presunzione di continuatività di cui al precedente comma 1 le «prestazioni
lavorative svolte nell’esercizio di attività professionali per le quali
l’ordinamento richiede l’iscrizione ad
un ordine professionale», sono preordinati a dettare discipline di favore per i
committenti e i prestatori di attività riconducibili ad una professione
intellettuale per il cui esercizio sia necessaria l’iscrizione ad apposito albo
professionale, stabilendo rispettivamente che esse non necessitano
dell’individuazione di uno specifico progetto per essere dedotte in un
contratto di collaborazione e che, ai fini fiscali, non possono presumersi
continuative; si tratta, in altri termini, di disposizioni che operano l’una
nell’ambito dei rapporti tra le parti contraenti e l’altra nei confronti
dell’Erario, ma dalle quali non è possibile desumere alcuna presunzione iuris
et de iure tale per cui un’attività liberoprofessionale che possa essere svolta
solo previa iscrizione ad un albo o elenco debba necessariamente qualificarsi
come “abituale” ai fini dell’iscrizione alla Gestione separata.
Resta piuttosto da osservare che, una volta chiarito
che il requisito dell’abitualità dev’essere accertato in punto di fatto,
valorizzando all’uopo le presunzioni ricavabili ad es. dall’iscrizione
all’albo, dalle dichiarazioni rese ai fini fiscali, dall’accensione della
partita IVA o dall’organizzazione materiale predisposta dal professionista a
supporto della sua attività, ben può la percezione da parte del libero
professionista di un reddito annuo di importo inferiore a € 5.000,00 rilevare
quale indizio per escludere che, in concreto, l’attività sia stata svolta con
carattere di abitualità, così come in concreto ritenuto dalla Corte
territoriale nell’ulteriore ratio decidendi posta a supporto della pronuncia:
fermo restando che l’abitualità di cui si discute dev’essere apprezzata nella
sua dimensione di scelta ex ante del libero professionista, coerentemente con
la disciplina ch’è propria delle
gestioni dei lavoratori autonomi, e non invece come conseguenza ex post
desumibile dall’ammontare di reddito prodotto, dal momento che ciò equivarrebbe
a tornare ad ancorare il requisito dell’iscrizione alla Gestione separata alla
produzione di un reddito superiore alla soglia di cui all’art. 44, d.l. n. 269/2003, cit.,
che invece, come detto, rileva ai fini dell’assoggettamento a contribuzione di
attività libero-professionali svolte in forma occasionale, non si tratta che di
un ragionamento presuntivo mediante il quale si utilizzano circostanze note per
risalire ad un fatto ignoto. Ed è appena il caso di soggiungere che, sebbene
l’Istituto ricorrente abbia lamentato che, nel caso di specie, non sarebbero
state adeguatamente valorizzate ulteriori circostanze fattuali acquisite al
processo (come l’accensione di partita IVA e altre desumibili dall’iscrizione
all’albo, peraltro analiticamente esposte solo nella memoria dep. ex art. 378 c.p.c.), nulla della loro sussistenza è
dato leggere nella sentenza impugnata, né l’Istituto ha specificamente
illustrato in quale luogo e in quale grado del processo di merito esse
sarebbero state veicolate nel giudizio e discusse tra le parti, con la
conseguenza che, per questa parte, la censura deve reputarsi radicalmente
inammissibile.
Corretta negli anzidetti termini la motivazione
della sentenza impugnata, il ricorso va rigettato. Nulla va pronunciato sulle
spese, non avendo l’intimata svolto attività difensiva; tenuto conto del
rigetto del ricorso, sussistono invece i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13.