La norma dell’accordo sindacale che prevede la riduzione del premio di risultato in ragione delle assenze dal lavoro del dipendente per motivi di paternità, è discriminatoria
Nota a Trib. Asti, decreto 7 dicembre 2020
Francesco Belmonte
La previsione dell’accordo aziendale, che dispone la riduzione del premio di risultato in ragione delle assenze dal lavoro del dipendente imputabili alla fruizione del congedo parentale (c.d. astensione facoltativa), deve ritenersi discriminatoria, poiché comporta un trattamento meno favorevole per il genitore lavoratore, rispetto ai colleghi, di pari inquadramento, non “in paternità”.
A stabilirlo è il Tribunale di Asti (decreto 7 dicembre 2020), nell’ambito di una controversia in cui un lavoratore lamentava di aver subito, a causa dell’assenza dal lavoro dovuta al congedo parentale (per un totale di 60 giorni nel corso del 2019), la decurtazione del premio di risultato previsto dall’accordo aziendale del 10 giugno 2019.
In particolare, tale l’accordo prevede espressamente che: “Il premio raggiunto subirà una riduzione del 1% per ogni giorno di assenza del lavoratore per:
-malattia;
-infortunio se causato dal mancato utilizzo dei dispositivi di protezione individuale o dal mancato, evidente e reiterato, rispetto delle regole;
-maternità e paternità facoltative;
-aspettativa non retribuita.
È prevista una franchigia di 10 giorni; fino al decimo giorno di assenza non ci saranno pertanto riduzioni % del premio. A partire dall’undicesimo giorno di assenza verrà invece applicata una riduzione del 11%; dal dodicesimo giorno del 12% e così via”.
Tali modalità di computo hanno determinato per il padre lavoratore una riduzione del premio di risultato pari a 872,31 Euro, rispetto ai 1293,81 Euro percepiti da un lavoratore comparabile, con pari livello di inquadramento.
Il dipendente, in ragione di un simile trattamento deteriore, imputabile al proprio status di genitore, ricorre al giudice al fine di accertare la natura discriminatoria della condotta datoriale (con conseguente cessazione della stessa) e condannare la società datrice a corrispondergli la differenza tra l’ammontare del premio ricevuto e quello spettante ad un lavoratore comparabile.
Il Tribunale accoglie il ricorso del lavoratore, avvalendosi di una puntuale esegesi della normativa antidiscriminatoria.
In particolare, il Codice delle pari opportunità (D.LGS. 11 aprile 2006, n. 198), per l’effetto delle modifiche introdotte dal D.LGS. 25 gennaio 2010, n. 5, sancisce che: “Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché’ di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”. (art. 25, co. 2 –bis, D.LGS. n. 198/2006)
Per il giudice, il tenore letterale della norma induce a ritenere che il legislatore abbia qualificato la gravidanza, la maternità e la paternità come autonomi fattori di discriminazione, «con la conseguenza di divieto di ogni trattamento meno favorevole per la lavoratrice in gravidanza o in maternità rispetto a quelli riservati sia ai colleghi maschi sia alle colleghe non in stato di gravidanza o maternità, ma anche di ogni trattamento meno favorevole per il lavoratore “in paternità”(in senso ampio) rispetto a quelli riservati sia alle colleghe in condizioni comparabili sia ai colleghi non “in paternità”».
Tale interpretazione appare corroborata, del resto, dalla lettura della Direttiva 2006/54/CE, “riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego”, di cui il D.LGS. n. 5/2010 costituisce espressa attuazione.
Circa la qualificazione della condotta datoriale, poi, il Tribunale condivide la prospettazione offerta dal ricorrente.
In particolare, il giudice di primo grado ritiene che la discriminazione in questione deve qualificarsi come “diretta”, posto che “il meccanismo di riduzione del premio di risultato non pone una regola apparentemente neutra che tuttavia, nella sua concreta esplicazione, finisce con il colpire la categoria protetta, bensì colpisce direttamente i lavoratori che fruiscono dei congedi parentali, e cioè i genitori.”
“Infatti, il meccanismo di computo del premio di risultato prevede la riduzione dell’ammontare del premio in misura direttamente proporzionale al numero di giorni di fruizione del congedo parentale, a detrimento di chi compie assenze per tale motivo rispetto a chi ne compie per altri motivi.
Tale meccanismo, peraltro, non è giustificato dalla necessità di valorizzare la presenza in servizio del lavoratore, perché colpisce proprio le assenze per congedi parentali (e quindi i genitori) e non altre tipologie di assenze altrettanto giustificate (assenze per legge 104, permessi sindacali, permessi per donazioni del sangue, etc.).”