Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 maggio 2021, n. 15117
Licenziamento disciplinare, Dipendente ministeriale,
Presentazione di domanda di mobilità volontaria, False dichiarazioni
Fatti di causa
1. Con ricorso al Tribunale di Avellino, proposto ai
sensi dell’art. 1, comma 47 e
segg., I. n. 92/2012, F.D. impugnava il licenziamento disciplinare senza
preavviso intimatogli in data 18.3.2016 dal datore di lavoro Ministero della
Giustizia, ai sensi dell’art. 55
quater, comma 1 lett. d), del d.lgs. n. 165/2001, e chiedeva, previa
declaratoria di illegittimità del recesso sotto diversi profili, la condanna
del convenuto a reintegrarlo nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno.
Il suddetto provvedimento era stato adottato in
quanto il D., già dipendente della Provincia di Avellino, al momento della
presentazione di domanda di mobilità volontaria, ex art. 30 del d.lgs. n. 165/2001,
da tale datore di lavoro al Ministero della Giustizia (5.1.2015), aveva
dichiarato falsamente di non aver riportato condanne penali laddove, in data
1.12.2015, il Procuratore della Repubblica di Avellino aveva trasmesso al
Ministero della Giustizia estratto della sentenza penale emessa, a carico del
D., dal Tribunale di Avellino il 25.3.2014 con la quale il predetto era stato
condannato alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione per il reato di
peculato continuato con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
2. Il Tribunale, all’esito della fase sommaria,
respingeva la domanda e la decisione era confermata in sede di opposizione.
3. Il reclamo era rigettato dalla Corte d’appello di
Napoli.
Riteneva la Corte territoriale che il D. avesse
dichiarato il falso in modo doloso e consapevole.
In particolare, evidenziava che nel modulo per la
mobilità erano indicate alcune attestazioni e bisognava cancellare quelle che
non interessavano e cioè quelle che riguardavano fatti non attribuibili al
dichiarante.
Orbene, il reclamante aveva cancellato la parte
relativa al “non aver procedimenti penali in corso di aver riportato le
seguenti condanne penali” e poi aveva sbarrato lo spazio relativo
all’indicazione delle condanne penali riportate; non aveva cancellato
l’attestazione relativa a “non aver riportato condanne penali”.
Riteneva la Corte territoriale che la mancata
cancellazione di tale ultima dicitura non avesse eliminato il carattere di
falsità ma anzi lo avesse rafforzato in quanto il dichiarante avrebbe dovuto
indicare, non solo di aver un procedimento penale in corso ma anche di aver
riportato una sentenza di condanna.
Evidenziava che non potesse sostenersi l’assenza di
dolo sia per aver il D. subito da poco tempo la condanna sia per essere lo
stesso laureato e ben consapevole, perciò, del significato delle domande di cui
al modulo compilato.
Aggiungeva, sottolineando che il D. dopo le false
dichiarazioni era andato a lavorare proprio presso la Procura di Avellino che
aveva svolto le indagini a suo carico, che il licenziamento era assolutamente
proporzionato alla gravità della condotta.
Escludeva che l’art. 55 quater lett. d) del d.lgs. n.
165/2001 fosse riferito alla sola ipotesi di instaurazione di un nuovo
rapporto e ne riteneva, pertanto, l’applicabilità anche alla situazione di
mobilità.
In ogni caso, riteneva che l’elencazione contenuta
nella norma non vietasse al giudice di considerare il licenziamento legittimo
qualora la condotta, pur non rientrando pienamente in una delle ipotesi
previste, fosse tuttavia tale da integrare una giusta causa o un giustificato
motivo soggettivo di recesso.
4. Per la cassazione della sentenza F.D. ha proposto
ricorso con tre motivi.
5. Il Ministero della Giustizia è rimasto intimato.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia
omessa, perplessa e insussistente motivazione, risultante dal testo della
sentenza, circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti.
Premette di non aver mai negato di aver reso una
dichiarazione non veritiera ma evidenzia di aver sempre sostenuto che tale
dichiarazione fosse stata frutto di leggerezza e disattenzione e non di dolo e
che ciò risultasse dalla stessa domanda di mobilità.
Sostiene che la Corte territoriale avrebbe
contraddittoriamente motivato sulla falsità della dichiarazione e non avrebbe
considerato quanto evidenziato anche in sede di reclamo in ordine alla
circostanza che l’aver dichiarato di avere carichi pendenti equivaleva per il
richiedente a rappresentare all’Amministrazione il non possesso di un requisito
essenziale per l’accoglimento della sua domanda di mobilità, il che rendeva
obiettivamente inutile l’indicazione della sentenza di condanna.
Sottolinea, sul punto, l’inconciliabile
contraddittorietà della sentenza e ne deduce la nullità ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ.
2. Il motivo non è fondato.
2.1. Si rilevano innanzitutto profili di
inammissibilità atteso che non è trascritto il contenuto del modulo di domanda
per la mobilità intorno al quale ruota la ritenuta e contrastata falsità della
dichiarazione, irrilevante essendo che tale domanda sia stata prodotta a
corredo del ricorso per cassazione.
Si ricorda, infatti, che ai fini della specificità
del ricorso, l’art. 366, n. 6, cod. proc. civ.,
come modificato dall’art. 5 del
d.lgs. n. 40 del 2006, richiede che al giudice di legittimità vengano
forniti già con il ricorso tutti gli elementi necessari per avere la completa
cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne,
mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento
o dell’atto la cui rilevanza e invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso
stesso (fra le più recenti, sulla non sovrapponibilità dei due requisiti, Cass.
28 settembre 2016, n. 19048).
Neppure è riportato il contenuto degli atti della
fase di prime cure (dei quali a pag. 8 e 9 del ricorso sono trascritti solo
limitati passaggi) e delle relative pronunce del Tribunale che solo avrebbe
consentito di avere cognizione dei termini delle questioni poste dal ricorrente
e delle soluzioni adottate.
2.2. Si aggiunga che la Corte territoriale ha
valorizzato la circostanza che il D., per rendere una dichiarazione veritiera,
non si sarebbe dovuto limitare a non sbarrare la dicitura “di non avere
procedimenti penali in corso” (e cioè una dicitura riguardante fatti
attribuibili al dichiarante) ma avrebbe dovuto fare altrettanto anche con la
dicitura “di non avere riportato condanne penali” ed anzi avrebbe
dovuto indicare quale sentenza di condanna lo avesse riguardato e per quali
reati, laddove, nella specie, risultavano sbarrati i puntini destinati a tali
indicazioni.
Non si rileva, in tale ragionamento, alcuna
contraddizione risultando valorizzate dai giudici partenopei le modalità in
qualche modo insidiose con cui il D. (destinatario da poco tempo della sentenza
penale di condanna e perfettamente in grado di comprendere il significato delle
frasi di cui al modulo da riempire) aveva compilato la domanda di mobilità.
Né del resto il ricorrente fornisce elementi, anche
fattuali, a sostegno della pretesa non autonomia delle suddette differenziate
informazioni (che avrebbe reso di fatto superflua quella relativa alla
riportata condanna penale rispetto all’altra, più generica, della pendenza di
un procedimento penale, di carattere asseritamente assorbente rispetto alla prima)
ai fini della completezza e ritualità della domanda.
Si aggiunga che dalla stessa sentenza impugnata si
evince che la domanda di mobilità era stata accolta nonostante la presenza di
carichi pendenti, il che smentisce l’assunto attoreo secondo cui già solo tale
dichiarazione equivaleva, per il richiedente, a rappresentare
all’Amministrazione il non possesso di un requisito essenziale per
l’accoglimento di detta domanda.
3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la
violazione degli artt. 2016, 2119 cod. civ., 55 quater lett. d) d.lgs. n. 165/2001.
Sostiene che non poteva essere ritenuto volontario e
doloso il falso, con la conseguenza che doveva essere esclusa, anche per il
principio di proporzionalità, la giusta causa di licenziamento.
Insiste nell’affermare che la dichiarazione,
pacificamente resa, in merito alla pendenza di un procedimento penale, era
sintomatica dell’assenza del necessario elemento soggettivo.
Aggiunge che l’obbligo di dichiarare le sentenze di
condanna si riferisce a quelle passate in giudicato che siano idonee ad
impedire la costituzione del rapporto di impiego e pertanto il ricorrente aveva
agito nella convinzione di non avere violato alcuna norma perché al momento
della domanda la sentenza era ancora appellabile.
4. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente sovrappone profili di fatto e di
diritto e svolge considerazioni che sono principalmente volte a censurare l’accertamento,
che è di merito, sulla sussistenza dell’elemento soggettivo.
Peraltro, nella specie, l’indagine svolta dalla
Corte territoriale si sottrae alle censure articolate non presentando la
inferenza tratta dal giudice di merito alcuna incongruità o illogicità.
5. Con il terzo motivo il ricorrente addebita alla
sentenza impugnata la violazione dell’art.
55 quater lett. d) del d.lgs. n. 165/2001.
Assume che la fattispecie tipizzata si riferisce
alle falsità commesse ai fini dell’instaurazione del rapporto di lavoro o della
progressione di carriera e, quindi non è applicabile alla mobilità che non
determina l’instaurazione di un nuovo rapporto ma solo la modifica soggettiva
del datore.
6. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente non ha trascritto gli atti rilevanti
(lettera di contestazione e provvedimento di licenziamento) che solo avrebbero
consentito di avere un quadro chiaro della situazione e di apprezzare le
doglianze.
Si aggiunga che non è censurata l’autonoma ratio
decidendi relativa alla sussistenza, nella specie, di una giusta causa di
licenziamento per essere stata la condotta posta in essere, costituente anche
reato, violativa di valori radicati nella coscienza sociale quale minimum etico
ed al potere del giudice e del datore di lavoro di qualificare diversamente il
fatto, a prescindere dalla previsione di cui all’art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001,
e ritenere comunque integrata una lesione irreversibile del vincolo fiduciario.
Occorre ribadire il principio secondo cui, ove la
sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome,
ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la
decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile la
censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma
motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento
della sentenza (cfr. fra le tante Cass. 27 luglio 2017, n. 18641).
7. Da tanto deriva che il ricorso deve essere
rigettato e, pertanto, non occorre disporre la rinnovazione della notifica,
erroneamente effettuata presso indirizzi di posta elettronica certificata che
si riferiscono all’Avvocatura Distrettuale di Napoli
(napoli@mailcert.avvocaturastato.it; ads.na@mailcert.avvocaturastato.it),
laddove l’indirizzo dell’Avvocatura Generale è:
ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it.
Nella giurisprudenza di questa Corte è ormai
consolidato il principio secondo cui il rispetto del diritto fondamentale ad
una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 cod.
proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad
una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si
traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue
perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare,
dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie
di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di
parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a
produrre i suoi effetti. Se ne è tratta la conseguenza che, in caso di ricorso
per cassazione inammissibile o prima facie infondato, appare superfluo disporre
la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che l’adempimento
si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in una dilatazione dei
termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun
beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti
(Cass. n. 15106/2013, Cass. n. 12515/2018, Cass. n. 33557/2018, Cass. n.
33399/2019).
8. La mancata costituzione in giudizio
dell’Avvocatura esime dal provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
9. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla I. 24.12.12 n.
228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n.
4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge
per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma
del comma 1-bis, dello stesso art.
13, se dovuto.