Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 giugno 2021, n. 15763

Rapporto di lavoro, Retribuzione per il tempo impiegato
nell’indossare e nel dismettere gli abiti di lavoro, Riconoscimento,
Diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore

Rilevato che

A. D. S. ed altri, tutti dipendenti della S. s.p.a.
ricorrono per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Roma che,
in riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato infondata la domanda con
cui gli stessi avevano chiesto il riconoscimento della retribuzione per il
tempo impiegato nell’indossare e nel dismettere gli abiti di lavoro e gli altri
dispositivi di protezione individuale (cd. Tempo tuta);

la Corte territoriale ha accertato che la società
non imponeva ai lavoratori modalità di vestizione e svestizione, e che
pertanto, avendo la datrice rinunciato a esercitare il proprio potere di
eterodirezione in relazione a tale attività, nessun obbligo retributivo
derivante da corrispettività gravava su di essa riguardo al cd. tempo tuta;

A.D.S. e i suoi litisconsorti domandano la
cassazione della sentenza sulla base di cinque motivi;

la S. s.p.a. oppone difese, illustrate da memoria
depositata in prossimità dell’adunanza camerale;

è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., ritualmente
comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in
camera di consiglio.

 

Considerato che

 

col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3 cod. proc. civ., i ricorrenti
deducono “Violazione e falsa applicazione degli artt.
416, 421, 437
e 115 c.p.c., nonché 111
Cost.;

col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n.4 cod. proc. civ., contestano
“Nullità della sentenza o del procedimento”;

sulla base dei richiamati profili i ricorrenti
contestano alla Corte territoriale di aver utilizzato quale mezzo di prova la
deposizione testimoniale resa da uno di loro in un altro giudizio, in quanto
non disconosciuta, e di averla erroneamente ritenuta utilizzabile anche nella
controversia in esame;

col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n.3 cod. proc. civ., denunciano
“Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 2 lett. “a”
D.Igs.66/2003, nonché del R.D.I. 5 marzo 1923
n. 692, art. 3, della Direttiva
n. 200/88/CE;

col quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.1, n.5 cod. proc. civ., lamentano
“Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione tra le parti;

col quinto ed ultimo motivo, formulato ai sensi
dell’art. 360, co.1, n.4 cod. proc. civ.,
denunciano “Nullità della sentenza e del procedimento”;

il terzo, il quarto e il quinto motivo sollevano
tutti censure, sotto vari profili, che concernono l’interpretazione delle norme
di legge regolanti la materia, all’erronea ricostruzione delle risultanze
istruttorie, segnatamente documentali, dalle quali risulterebbe disattesa la
statuizione del giudice di appello secondo il quale non sarebbe stata raggiunta
la prova che i lavoratori dovessero indossare i dispositivi di protezione
individuale prima di iniziare l’attività lavorativa;

quanto alla loro prospettazione, deve osservarsi
come il ricorso si dimostri incurante del principio generale di vincolatività
dei motivi nel ricorso per cassazione; la prospettazione della medesima
questione, rispettivamente, nei primi due motivi e nei motivi dal terzo al
quinto, ha alimentato nel ricorrente l’erronea quanto fuorviante convinzione di
potere sollevare le proprie critiche senza isolare le singole censure
teoricamente proponibili, al fine di ricondurle, giusta l’impianto sistematico
proprio del giudizio di legittimità, ad uno dei mezzi d’impugnazione
tassativamente contemplati dall’art. 360 cod. proc.
civ.;

è infatti considerata estranea al giudizio di
legittimità la prospettazione di una medesima questione sotto profili
incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone
accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della
violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che
quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale
l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto
decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione,
che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella
quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la
contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle
affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in
contraddizione tra loro;

in altri termini, come questa Corte ha avuto modo di
affermare in molteplici occasioni, l’esposizione diretta e cumulativa delle
questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo
(per mezzo di una mescolanza e/o sovrapposizione di mezzi) e il merito della
causa, svia il giudizio di legittimità dal compito precipuo che l’ordinamento
vi ha assegnato, con l’esito di rimettere al giudice di legittimità –
inammissibilmente – il compito di isolare le singole censure teoricamente
proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale
o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendovi il
compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al
fine di decidere successivamente su di esse (cfr., Cass. n.26874 del 2018, ed
anche Cass. n.3554 del 2017 e Cass. n. 18021 del
2016);

a prescindere da tale profilo, va in ogni caso
affermata l’infondatezza della tesi difensiva di parte ricorrente a fronte di
un accertamento di fatto del giudice dell’appello pienamente aderente
all’orientamento consolidatosi in sede di legittimità sul tema della diretta
onerosità del cd. tempo tuta a carico del datore;

“Nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo
necessario a indossare l’abbigliamento di servizio (“tempo-tuta”)
costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in
difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza
preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà
titolo ad autonomo corrispettivo (così Cass. n.9215 del 2016 e, con espresso
riferimento alla Direttiva comunitaria n.
2003/88/CE, invocata da parte ricorrente nel terzo motivo, cfr. Cass. n. 1352 del 2016);

la Corte d’appello ha valorizzato in motivazione
l’esito della verifica svolta in fatto circa l’assenza, nel caso de quo,
dell’elemento costitutivo dell’obbligazione rivendicata dai lavoratori nei
confronti della S. s.p.a., consistente nell’esercizio del potere di
eterodirezione datoriale riguardo al tempo, al modo e al luogo della
vestizione/svestizione;

ha pertanto accertato che – anche a prescindere
dalla testimonianza resa in altro giudizio da uno dei lavoratori, documento non
disconosciuto e della cui erronea valutazione ai fini della prova gli odierni
ricorrenti si dolgono nei primi due motivi – non era stata raggiunta la prova
dell’imposizione in capo ai lavoratori dell’obbligo di indossare gli abiti da
lavoro negli appositi spogliatoi aziendali, ben potendo gli stessi recarsi al
lavoro e far ritorno a casa indossandoli; né ai predetti fini la Corte
d’appello ha ritenuto rilevante che la società avesse offerto servizi quali
spogliatoio, doccia e lavanderia, in merito all’utilizzo dei quali ai
lavoratori era lasciata totale libertà di scelta;

all’esito dell’accertamento circa la concreta
gestione del cd. tempo tuta presso la S. s.p.a., la Corte territoriale ha
escluso l’elemento dell’eterodirezione quale potere direttivo e organizzativo
equiparabile al tempo di lavoro in cui si traduce la messa a disposizione atta
a generare il corrispettivo obbligo di remunerazione;

sotto tale profilo la motivazione del provvedimento
impugnato si presenta immune da vizi logici ed argomentativi, ed altresì
aderente al principio di diritto espresso dalla giurisprudenza di legittimità,
né le censure dei ricorrenti si rivelano in alcun modo idonee a censurare,
sotto nessuno dei prospettati profili, la decisione della Corte territoriale;

il ricorso va dunque rigettato; le spese, come
liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

in considerazione del rigetto del ricorso,
sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei
ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello, ove dovuto, per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al
rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore della
controricorrente, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5.000,00 per
compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per
cento e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art.1, comma 17 della I. n.228 del
2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 -bis dello stesso art. 13.

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