Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 giugno 2021, n. 15960
Sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato,
Violazione del divieto previsto dall’art. 1 della L. n. 1369/1960,
Accertamento di condizioni compatibili con la genuinità dell’appalto
Fatti di causa
1. Con ordinanza n. 23599 del 13 aprile/28 settembre
2018 questa Corte ha respinto il ricorso di E. M. e degli altri litisconsorti
indicati in epigrafe avverso la sentenza n. 9324/2012 con la quale la Corte
d’Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale della stessa sede,
aveva rigettato le domande proposte nei confronti di S. s.p.a. e di A.C.
s.p.a., volte ad ottenere: l’accertamento della violazione del divieto previsto
dall’art. 1 della legge n.
1369/1960; la dichiarazione di sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato alle dipendenze di S. s.p.a., ancora in atto; la condanna della
società datrice alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato.
2. La Corte territoriale, in via preliminare, aveva
ritenuto che il rapporto fosse stato risolto per mutuo consenso perché i
lavoratori avevano azionato la pretesa a distanza di quattro anni dalla formale
cessazione del rapporto stesso e, inoltre, tre di essi si erano dimessi mentre
altri due avevano accettato l’assunzione da parte di una nuova società.
Aveva, poi, escluso la dedotta interposizione
fittizia rilevando che non si era verificata alcuna commistione con i
dipendenti S., che operavano in locali separati, perché l’organizzazione del
servizio era stata interamente curata dalla società appaltatrice, la quale
aveva assunto il rischio di impresa.
3. Il ricorso per cassazione, affidato a due motivi,
è stato rigettato da questa Corte sul rilievo che con il primo motivo,
formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 cod.
proc. civ., i ricorrenti avevano in realtà censurato la valutazione di
merito espressa dal giudice d’appello circa gli elementi di fatto che portavano
ad escludere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la S.
E’ stato anche evidenziato che, a seguito della
riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.,
il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza impugnata è
consentito nei ristretti limiti indicati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053/2014 e, pertanto, in assenza di
precise indicazioni della parte ricorrente circa la configurabilità di
un’anomalia motivazionale tale da integrare una delle ipotesi indicate nella
pronuncia citata, la censura proposta doveva essere ritenuta inammissibile.
Ulteriore profilo di inammissibilità del primo
motivo è stato ravvisato nel difetto di autosufficienza, perché i ricorrenti,
pur dolendosi dell’errata valutazione delle risultanze istruttorie, non avevano
riportato nel ricorso le differenti circostanze non valorizzate dal giudice del
merito.
4. Il secondo motivo, con il quale era stato
censurato il capo della decisione inerente l’avvenuta risoluzione del rapporto
per mutuo consenso, è stato ritenuto inconferente, una volta dichiarato
inammissibile il primo motivo, perché la principale ratio decidendi della
sentenza impugnata andava ravvisata nell’accertamento di condizioni compatibili
con la genuinità dell’appalto.
5. Con ricorso notificato in data 28 marzo 2019 i
litisconsorti in epigrafe indicati hanno domandato la revocazione
dell’ordinanza sulla base di quattro motivi, ai quali hanno resistito con
controricorso S. s.p.a. – Società Generale d’Informatica e A. C. s.p.a.
Le prospettazioni difensive sono state illustrate da
tutte le parti con memoria ex art. 378 cod. proc.
civ..
6. La Procura Generale ha depositato memoria ed ha
concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo è denunciato «errore
revocatorio nell’incipit della motivazione della sentenza» perché con il
ricorso per cassazione era stato addebitato al giudice d’appello di non avere
indicato le ragioni del proprio convincimento e di avere fondato la decisione
su fatti che non erano stati accertati nel processo. Erano state, cioè,
denunciate l’apparenza e la contraddittorietà della motivazione, sicché
l’affermazione di questa Corte, secondo cui il ricorso sarebbe stato volto a
censurare l’accertamento di fatto, sarebbe frutto di errore percettivo.
2. I ricorrenti argomentano, poi, sull’errore di
percezione che sarebbe stato commesso in relazione alla lamentata violazione e
falsa applicazione della legge. Richiamano la motivazione della sentenza
d’appello e sostengono che la Corte territoriale aveva fondato la decisione su
affermazioni apodittiche, non ancorate a specifiche fonti di prova. Riportano,
in sintesi, il contenuto del ricorso per
cassazione e affermano che la motivazione dell’ordinanza di questa Corte,
impugnata per revocazione, non corrisponde all’impugnazione, della quale non
richiama nemmeno un passo.
3. Analoghe considerazioni i ricorrenti svolgono nel
denunciare un «errore revocatorio sulla seconda parte del motivo». Ribadiscono
che l’impugnazione denunciava la mancata indicazione delle fonti di prova oltre
che l’assenza e la contraddizione insanabile della motivazione e non era volto
a censurare la valutazione delle risultanze istruttorie.
4. Infine, quanto al secondo motivo, i ricorrenti
rilevano che lo stesso è stato assorbito, seppure con motivazione dalla quale
si può cogliere una valutazione in termini di fondatezza della censura, sulla
quale insistono riproponendo le conclusioni dell’originario ricorso.
5. Il ricorso è inammissibile in tutte le sue
articolazioni.
L’errore rilevante ex art.
395 n. 4 cod. proc. civ. consiste nella erronea percezione dei fatti di
causa che abbia indotto la supposizione della esistenza o della inesistenza di
un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa o accertata dagli atti di
causa, a condizione che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia
costituito materia del dibattito processuale su cui la pronuncia contestata
abbia statuito.
Muovendo da detta premessa questa Corte ha
evidenziato che: l’errore non può riguardare l’attività interpretativa e
valutativa; deve avere i caratteri della assoluta evidenza e della semplice
rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti
di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini
ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo nel senso che tra la percezione
erronea e la decisione emessa deve esistere un nesso causale tale che senza
l’errore la pronuncia sarebbe stata sicuramente diversa (Cass. 5.7.2004
n.12283; Cass. 20.2.2006 n. 3652; Cass. 9.5.2007 n. 10637; Cass. 26.2.2008 n.
5075; Cass. 29.10.2010 n. 22171).
Sviluppando i richiamati principi si è ritenuto,
nelle pronunce più recenti delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U.
24.11.2020 n. 26674; Cass. Sez. Un. 10.11.2020 n. 25212; Cass. S.U. 27.11.2019
n. 31032; Cass. Sez. Un. 27.12.2017, n. 30994, Cass. Sez. Un. 16.11.2016 n.
23306), che restano fuori dal vizio revocatorio: gli errori formatisi sulla
base di un’assunta errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e
risultanze processuali che investano direttamente la formulazione del giudizio
sul piano logico-giuridico; l’erronea comprensione del contenuto
giuridico-concettuale delle difese e l’inesatta qualificazione dei fatti ivi
esposti; l’errato apprezzamento di un motivo di ricorso, perché siffatto tipo
di errore, ove pure in astratta ipotesi fondato, costituirebbe un errore di
giudizio e non un errore di fatto. E’ stato, in sintesi, affermato che «è
esperibile, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, comma 1, n. 4, c.p.c., la revocazione per
l’errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità che non abbia
deciso su uno o più motivi di ricorso, ma deve escludersi il vizio revocatorio
tutte le volte che la pronunzia sul motivo sia effettivamente intervenuta,
anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune
delle argomentazioni svolte come motivi di censura del punto, perché in tal
caso è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva
immediatamente percepibile), bensì un’errata considerazione e interpretazione
dell’oggetto di ricorso e, quindi, un errore di giudizio.» (Cass. S.U. n. 31032/2019).
5.1. Nel caso di specie, poiché la pronuncia è stata
resa su entrambi i motivi, non è predicabile l’errore di fatto e, pertanto, il
ricorso per revocazione deve essere dichiarato inammissibile.
Si tratta di un profilo di inammissibilità
assorbente che esime la Corte dall’affrontare le ulteriori questioni inerenti
l’effettiva sussistenza dell’errore denunciato e la decisività dello stesso.
6. Le spese del giudizio di revocazione seguono la
soccombenza e vanno poste a carico dei ricorrenti nella misura liquidata in
dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n.
228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n.
4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge
per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dai ricorrenti.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna i
ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di revocazione in favore delle
società controricorrenti, liquidate per ciascuna in € 200,00 per esborsi ed €
3.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e
accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1- bis, se dovuto