Una normativa nazionale che disponga la temporanea sospensione dei contratti di lavoro dei dipendenti pubblici prossimi alla pensione, con conseguente riduzione del salario, è legittima se finalizzata al conseguimento di obiettivi di politica del lavoro.
Nota a CGUE 15 aprile 2021, C- 511/2019
Sonia Gioia
In materia di discriminazioni, gli artt. 2 e 6, par. 1, Direttiva 2000/78/CE (recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di accesso all’occupazione, sia privata sia pubblica”) non ostano ad “una normativa nazionale in forza della quale i lavoratori del settore pubblico che soddisfano, nel corso di un determinato periodo, le condizioni per percepire una pensione a tasso intero sono collocati in un regime di riserva di manodopera fino alla risoluzione del loro contratto di lavoro, il che comporta una riduzione della loro retribuzione, una perdita del loro eventuale avanzamento di carriera, nonché una riduzione, o addirittura la soppressione, dell’indennità di licenziamento alla quale avrebbero avuto diritto al momento della cessazione del loro rapporto di lavoro purché tale normativa persegua un giustificato obiettivo di politica del lavoro e i mezzi per il conseguimento di tale obiettivo siano appropriati e necessari”.
Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea 15 aprile 2021, C- 511/2019, investita della questione dal giudice ellenico (Areios Pagos) in merito al caso di un lavoratore che lamentava il carattere discriminatorio della disciplina nazionale (L. n. 4024/2011) che, al fine di ridurre le spese pubbliche salariali mediante l’attuazione di un piano di riduzione dell’organico, disponeva la temporanea sospensione del rapporto di lavoro dei soli dipendenti pubblici prossimi a maturare il diritto a pensione di vecchiaia fino alla risoluzione del loro contratto di impiego, con riduzione della retribuzione pari al 60 % dello stipendio base.
Nello specifico, secondo il prestatore, il c.d. regime di riserva di manodopera, “considerato come un preavviso di licenziamento”, comportava una discriminazione indiretta fondata sull’età in quanto previsto per i soli dipendenti dello Stato e del settore pubblico che maturavano, nel periodo compreso tra il 1 gennaio 2012 e il 31 dicembre 2013, le condizioni necessarie per esercitare il diritto al pensionamento a tasso intero, e, cioè, l’aver completato un periodo di contribuzione di 35 anni e raggiunto il 58° anno di età (art. 34, L. n. 4024 cit.).
Al riguardo, per quanto concerne le condizioni di impiego e lavoro, è vietata qualsiasi forma di discriminazione, diretta o indiretta, fondata sull’età, salvo che la diversità di trattamento sia “oggettivamente e ragionevolmente” giustificata, nell’ambito del diritto nazionale, “da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale” e a condizione che i mezzi per il conseguimento di tale scopo siano “appropriati e necessari”, ex artt. 1 e 6, Dir. cit. (CGUE 2 aprile 2020, C- 670/18, annotata in q. sito da F. DURVAL, Divieto di assegnare incarichi di studio e consulenza a soggetti in quiescenza).
Nel caso di specie, secondo la Corte, la normativa nazionale introduce una disparità di trattamento fondata sul criterio anagrafico, poiché il raggiungimento dell’età minima di 58 anni costituisce una condizione indispensabile per poter accedere al pensionamento a tasso intero e, di conseguenza, per il suo collocamento in regime di riserva di manodopera. Ciò, anche se l’altra indispensabile condizione, ossia l’aver maturato 35 anni di contributi, “debba essere considerata un criterio apparentemente neutro”, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b), Dir. cit. (CGUE 12 ottobre 2010, C-499/08; CGUE 16 ottobre 2007, C-411/05).
La differenza di trattamento riservata ai dipendenti pubblici prossimi alla pensione, tuttavia, non costituisce una violazione della normativa antidiscriminatoria in quanto la disciplina nazionale, oltre ad essere finalizzata a ridurre la spesa pubblica conformemente agli impegni assunti dallo Stato membro nei confronti dei suoi creditori e a garantire la stabilità della zona Euro, risponde a giustificati obiettivi di politica del lavoro, contribuendo alla promozione di un elevato livello di occupazione e consentendo di stabilire “un equilibrio strutturale in ragione dell’età tra giovani funzionari e funzionari più anziani” (CGUE 8 ottobre 2020, C-644/19; CGUE 2 aprile 2020, C- 670/18, cit.; CGUE 21 dicembre 2016, C-201/15; CGUE 21 luglio 2011, C-159/10 e C-160/10).
Il regime di riserva di manodopera, inoltre, costituisce un mezzo necessario e appropriato per il raggiungimento di tali finalità essendo accompagnato da misure che ne attenuano gli effetti sfavorevoli, quali, tra le altre, la possibilità, a determinate condizioni, di trovare un altro impiego o esercitare la libera professione, senza perdere il diritto a percepire la retribuzione, nonché l’esenzione dalla sospensione del rapporto di lavoro per i gruppi sociali vulnerabili, oltre al fatto che la diminuzione della remunerazione e la perdita della possibilità di avanzamento di carriera operano per un periodo relativamente breve, non superiore a 24 mesi, al termine del quale il personale coinvolto beneficia di una pensione a tasso intero.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha escluso una violazione del principio di parità di trattamento in quanto il regime di riserva di mandopera “non pregiudica in modo eccessivo i legittimi interessi” dei dipendenti coinvolti né eccede, in un contesto caratterizzato da una crisi economica acuta, “quanto necessario per raggiungere gli obiettivi di politica del lavoro perseguiti dal legislatore nazionale”.