Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 giugno 2021, n. 16387

Licenziamento per giusta causa, Assenza ingiustificata,
Pluralità di inadempimenti, Lesione del rapporto fiduciario con il datore di
lavoro

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza pubblicata il 12 settembre 2018, la
Corte di Appello di Brescia ha rigettato il reclamo proposto da O.M. nei
confronti della B. Srl avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto
l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato dalla società il 16
marzo 2015.

2. La Corte di Appello, per quanto qui rileva, ha
ritenuto di non condividere i motivi di gravame riguardanti “l’asserita
consunzione del potere disciplinare e l’eccepita sproporzione della sanzione
irrogata”.

Per quanto riguarda il primo aspetto la Corte
territoriale ha ritenuto che i fatti oggetto della contestazione disciplinare
del 26 febbraio 2015 erano relativi alla giornata precedente del 25 febbraio,
mentre quelli oggetto della lettera del 2 marzo 2015 “erano stati
constatati il 28 febbraio 2015 giorno in cui la reclamante avrebbe dovuto
prestare servizio ed è rimasta invece assente ingiustificata (v. Libro Unico
del Lavoro prodotto dalla resistente in primo grado)”; da ciò la Corte di
Appello ha tratto il convincimento che “i fatti contestati erano diversi e
si erano verificati in successione”.

Quanto al secondo aspetto la Corte bresciana ha così
argomentato: “Ferma l’applicazione del CCNL
Filins richiamato nel contratto di assunzione (doc- n. 5 di parte reclamata
in primo grado), risulta dalla documentazione prodotta in giudizio che la
reclamante si fosse resa responsabile di una pluralità di inadempimenti tanto
da rendere legittimamente applicabile al caso di specie la norma di cui all’art. 34 del CCNL sopracitato,
norma che richiama gli articoli
40 e 41 del medesimo CCNL.

E’ da evidenziare, peraltro, che gli addebiti mossi
alla reclamante avevano ad aggetto il mancato adempimento alle obbligazioni
costituenti l’oggetto principale della prestazione che la reclamante stessa
avrebbe dovuto rendere.

Il che connota di estrema gravità l’inadempimento
stesso che, proprio in quanto ripetuto, era idoneo a ledere irrimediabilmente
il rapporto fiduciario tra le parti”.

3. La Corte territoriale ha anche accertato, in
punto di requisito dimensionale, che dall’esame del LUL risultasse come la
società avesse una consistenza media di dipendenti inferiore alle 15 unità,
pure conteggiando i dipendenti a tempo determinato.

Ha, infine, considerato assorbiti tutti gli altri
motivi di doglianza.

4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso O.M. affidato a 8 motivi; ha resistito con controricorso la società;
entrambe le parti hanno comunicato memorie ex art.
378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 1, co. 60, I. n. 92 del 2012,
ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., perché la
decisione della Corte bresciana era stata depositata un anno dopo la
discussione, in violazione della disposizione richiamata secondo cui: “La
sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro
dieci giorni dall’udienza di discussione”.

La censura è priva di fondamento.

A mente dell’art. 156
c.p.c., non può essere pronunciata la nullità – per inosservanza di forme
di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge, salvo
che l’atto manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento
dello scopo e, comunque, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato, la
nullità non può mai esser pronunciata.

Nella specie parte ricorrente non individua la norma
che comminerebbe la nullità della sentenza per inosservanza del termine per il
deposito della motivazione e la sentenza impugnata reca comunque la motivazione
che, una volta depositata, ha raggiunto lo scopo cui è preordinata.

2. Per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica
occorre valutare prima degli altri il quarto motivo di ricorso così rubricato:
“Violazione/falsa applicazione dell’art. 5 I. n. 604 del 1966 e 18 I. n. 300 del 1970 ed
omessa pronuncia in tema di sussistenza del fatto contestato con la lettera di
addebito consegnata li 4 marzo 2015 (i fatti di principale rilievo) così
integrando una violazione dell’art. 360 c.p.c.
n. 3 ed anche n. 4 e n. 5”. ‘

Secondo la ricorrente la Corte di merito avrebbe
completamente omesso di esaminare “l’effettiva esistenza delle condotte
che hanno portato al recesso, dando per scontata la responsabilità della
lavoratrice senza aver provveduto a svolgere la minima istruttoria”; in
particolare la Corte avrebbe riconosciuto che la lavoratrice non era presente
al lavoro il 28 febbraio 2015 ma avrebbe qualificato come ingiustificata la sua
assenza mentre -secondo la ricorrente- così non sarebbe, perché dal cedolino
paga di febbraio risulterebbe “un giorno di lavoro a zero ore, non di
assenza ingiustificata”. Si nega comunque che la ricorrente abbia avuto
responsabilità negli addebiti contestati.

Il motivo, per come formulato, è inammissibile.

Esso innanzitutto contiene promiscuamente la
contemporanea deduzione di violazione di disposizioni di legge, nonché di
omessa pronuncia e di omesso esame di fatto decisivo, invocando a sostegno i
numeri 3, 4 e 5 dell’art. 360 c.p.c., senza
alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia
riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli
tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360
c.p.c., così non consentendo una adeguata identificazione del devolutum e
dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso,
“di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (Cass.
SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr; anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf.
Cass. n. 14317 del 2016; tra le più recenti v. Cass. n. 3141 del 2019, Cass. n. 13657 del 2019; Cass. n. 18558 del 2019;
Cass. n. 18560 del 2019).

Inoltre il motivo non specifica quale sarebbe
l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, posto che,
con riferimento alla violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., il vizio va
dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di
diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle
affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si
assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o
dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione
comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla
S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento
della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015;
Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).

Il motivo non indica, poi, quale sarebbe l’error in
procedendo che determinerebbe la nullità della sentenza o del procedimento a
mente dell’art. 360, n. 4, c.p.c., facendo
laconicamente riferimento ad una “omessa pronuncia” senza illustrare
adeguatamente come si sarebbe compiuta la violazione dell’art. 112 c.p.c., peraltro neanche richiamato.

Infine il motivo lamenta una “omessa
valutazione di un fatto decisivo”, rappresentata dalla “sussistenza
dell’addebito”, ignorando completamente i limiti imposti ad ogni
accertamento di fatto dal novellato art. 360, co.
1, n. 5, c.p.c., come interpretato da Cass.
SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle
stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015,
oltre che dalle Sezioni semplici), dei cui enunciati parte ricorrente non tiene
alcun conto, per di più criticando accertamenti fattuali, quali l’assenza non
giustificata della lavoratrice che -secondo la Corte territoriale- l’avrebbe
resa responsabile di non aver adempiuto alla prestazione sulla medesima
gravante, che non possono essere oggetto di rivisitazione ih questa sede.

3. Dall’inammissibilità del quarto motivo deriva
l’inammissibilità anche del successivo quinto mezzo di gravame, con cui parte
ricorrente denuncia la violazione dell’art. 7 e 18 della legge n. 300 del 1970
e, in subordine, la violazione o la falsa applicazione dell’art. 34 CCNL FILINS CISAL,
“così integrando una violazione dell’art. 360,
c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4”.

Infatti esso si fonda sull’assunto che “la
motivazione seguita dalla Corte di Appello … presenta una insuperabile lacuna:
ovvero il mancato esame in merito alla sussistenza dei fatti contestati e della
giusta causa di licenziamento”.

Nella sostanza parte ricorrente lamenta che “a
prescindere dai precedenti disciplinari accumulati, per potersi procedere ad un
licenziamento, in Caso di recidiva, è necessario che al lavoratore possa
imputarsi un nuovo grave inadempimento che potrebbe essere valutato in modo più
grave per la recidiva”, mentre nella specie la Corte territoriale avrebbe
ritenuto legittimo il licenziamento sulla base del solo cumulo di sanzioni
precedenti, senza indagare l’esistenza di un nuovo fatto rilevante
disciplinarmente.

In realtà tale assunto si è rivelato errato, per
come risulta dallo scrutinio del motivo precedente, atteso che la Corte
territoriale, confermando sul punto la valutazione del primo giudice, ha
ritenuto che l’inadempimento addebitato con l’ennesima contestazione
disciplinare, che ha poi condotto al recesso, vi fosse e non viene certo meno
per il solo fatto che, ancora in questa sede di legittimità, parte ricorrente
esprime un diverso avviso.

4. Parimenti non merita accoglimento il sesto motivo
di ricorso, con cui si denuncia una ulteriore violazione o falsa applicazione
dell’art. 7 della I. n. 300 del
1970, in merito alla consumazione del potere disciplinare, nonché errore di
fatto in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., così integrando – secondo la
ricorrente – una violazione sia del n. 4 che del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.

Si eccepisce che la Corte territoriale avrebbe
“travisato” le “risultanze probatorie”, nel ritenere
diversi i fatti posti a fondamento prima della contestazione disciplinare del
26 febbraio e poi di quella del 2 marzo 2015.

La censura è inammissibile nella parte in cui invoca
a sostegno il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360
c.p.c. in una ipotesi di cd. “doppia conforme”. Per espressa
previsione normativa, detto vizio, per i giudizi di appello instaurati dopo il
trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U.
n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22
giugno 2012 n. 83, non può essere denunciato, rispetto ad un appello
promosso nella specie il 12 giugno 2017 dopo la data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato
d.l. n. 83/2012), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della
Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia
stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado
(art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in base
al quale il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5,
c.p.c., non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d.
“doppia conforme”; v. Cass. n. 23021 del
2014); in questi casi il ricorrente in cassazione – per evitare
l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360,
n. 5, c.p.c. deve indicare le ragioni di fatto poste a base,
rispettivamente; della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto
dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del
2016; conf. Cass. n. 20944 del 2019).

Quanto ai pretesi errori di diritto, in realtà parte
ricorrente critica un accertamento fattuale, quale è sicuramente quello
devoluto ai giudici del merito circa la verifica se, in concreto, la due
procedure disciplinari in controversia fossero o meno relative ai medesimi
fatti.

Inappropriato è, pertanto, il richiamo alla
violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., atteso che, in tema di valutazione
delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento di tali
disposizioni, opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito,
insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle
predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di
violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere
censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di
motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c. (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017).

Circa il denunciato “travisamento” delle
risultanze probatorie è appena il caso di ribadire che “l’errore di
percezione sul contenuto oggettivo di una prova non è altra cosa dal
travisamento della prova e può dar luogo, se del caso, esclusivamente a
revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c., mentre
l’unico vizio del giudizio di fatto deducibile per cassazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., consiste nell’omesso esame
di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal
testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, salva
la preclusione della doppia conforme in fatto, di cui all’art. 348-ter, ult. co., c.p.c.” (v. Cass.
n. 24395 del 2020).

5. In subordine, il settimo motivo denuncia
testualmente: “Violazione/falsa applicazione dell’art. 18 comma IV (punibilità
con una sanzione conservativa) così integrando una violazione dell’art. 360 c.p.c. comma 1 n. 3”.

Parte ricorrente, nella denegata ipotesi si
ritenessero sussistenti i fatti contestati, sostiene che gli stessi avrebbero
potuto consentire l’applicazione solo di una sanzione conservativa. All’uopo si
riporta l’elenco delle ipotesi in cui la contrattazione collettiva di settore
prevede il licenziamento e dalla mancanza in esse dei fatti contestati alla O.
se ne ricava che, per l’omissione contestata alla medesima, avrebbe dovuto
applicarsi una sanzione conservativa.

La censura è infondata.

Dalla natura legale della nozione di giusta causa di
licenziamento ex art. 2119 c.c. deriva che
l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di recesso contenuta nei contratti
collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude
un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un
grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle
norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il
rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004;
v. pure Cass, n. 27004 del 2018).

Solo ove le previsioni del contratto collettivo
siano più favorevoli al lavoratore -nel senso che la condotta addebitata quale
causa del licenziamento sia contemplata come infrazione sanzionabile con misura
conservativa- il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi
attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quel peculiare
comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia
collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (da ultimo Cass. n. 13534 del 2019; in precedenza, tra
molte, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del
2015; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 19053 del 2005; Cass. n. 5103 del 1998;
Cass. n. 1173 del 1996).

In ordine ai criteri di interpretazione di clausole
siffatte che prevedano sanzioni conservative, con conseguente vincolo anche per
il giudice, questa Corte ha escluso il ricorso all’applicazione analogica e
quella estensiva, pur ammissibile, è consentita solo ove risulti
l’”inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle
parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un contenuto
carente rispetto all’intenzione; pertanto “solo ove il fatto contestato e
accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale
vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come
punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo
ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 novellato” (Cass. n. 12365 del 2019; conf. Cass. 14500 del 2019; Cass. n. 13533 del 2019; Cass. n. 19578 del 2019; Cass. n. 31839 del 2019).

Ciò presuppone evidentemente che venga riportato il
contenuto della clausola della contrattazione collettiva che preveda
espressamente per il fatto addebitato la sanzione conservativa, non essendo
certo sufficiente – come nel caso che occupa il Collegio – riportare
l’elencazione delle diverse ipotesi per le quali è previsto il licenziamento.

6. Con il terzo motivo si denuncia
“Violazione/falsa applicazione artt. 115 e
116 c.p.c. in merito alle prove
sull’applicabilità del CCNL FILINS, così integrando una violazione ex art. 360 n. 3 e n. 4 c.p.c.”, perché la Corte
territoriale avrebbe affermato in modo apodittico che al rapporto sarebbe applicabile
il CCNL Filins, senza però indicare la Confederazione firmataria in
rappresentanza dei lavoratori; si deduce che più sarebbero le sigle delle
organizzazioni sindacali dei prestatori di lavoro, per cui sarebbe stata
necessaria una ulteriore specificazione, e si critica la motivazione impugnata
sul punto come “apparente ed oscura”.

Il motivo non solo è inammissibile per come
formulato, invocando ancora la violazione degli artt.
115 e 116 c.p.c. che, per quanto già detto,
operano sul piano dell’accertamento di merito, ma anche perché privo di
qualsiasi decisività, atteso che la Corte di Appello ha argomentato che
“gli addebiti mossi alla reclamante avevano ad aggetto il mancato
adempimento alle obbligazioni costituenti l’oggetto principale della
prestazione che la reclamante stessa avrebbe dovuto rendere … il che connota
di estrema gravità l’inadempimento stesso che, proprio in quanto ripetuto, era
idoneo a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra le parti”. Ha
pertanto operato una valutazione alla stregua della nozione legale di giusta
causa di licenziamento, anche a prescindere dalle previsioni della
contrattazione collettiva. In ogni caso ha pure individuato il contratto collettivo
applicabile come quello “richiamato nel contrattò di assunzione” e
l’adesione al contratto collettivo che rende applicabile il medesimo al
rapporto di lavoro individuale dedotto in causa è questione di fatto non
suscettibile di riesame in questa sede di legittimità.

7. Dal mancato accoglimento dei motivi che precedono
deriva l’inammissibilità del secondo motivo con cui si censura quella parte
della sentenza impugnata che ha ritenuto insussistente il requisito
dimensionale dell’azienda convenuta, considerato che la questione sarebbe
rilevante solo ove il licenziamento fosse illegittimo, ai fini della tutela
applicabile, ma non nel caso in cui la declaratoria di legittimità del
licenziamento ha resistito alle censure mosse innanzi a questa Corte.

8. Del pari inammissibile l’ultima doglianza, con
cui si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 36 Cost. e della contrattazione collettiva,
in ordine alla determinazione della retribuzione globale di fatto ed alla
decorrenza del rapporto di lavoro, sia perché pone questioni su cui la Corte
territoriale non si è pronunciata perché ritenute assorbite, sia perché le
stesse sarebbero rilevanti solo ove il licenziamento fosse stato dichiarato
illegittimo.

9. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato,
con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228
del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13
(cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00 per compensi professionali,
oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115; nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a
norma del comma 1-bis dello stesso art.
13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 giugno 2021, n. 16387
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