Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 giugno 2021, n. 16382
Lavoro, Inquadramento nella superiore categoria, Diritto,
Accertamento, Domanda della lavoratrice al pagamento di differenze retributive
per illegittima collocazione in CIG
Rilevato che
1. con sentenza 16 novembre 2016, la Corte d’appello
di Milano rigettava l’appello proposto, nel contraddittorio anche con l’Inps,
da M.C.R., dipendente di M.B.I. s.p.a., avverso la sentenza di primo grado, di
reiezione delle sue domande, previa la dichiarazione di nullità della
conciliazione sottoscritta tra le parti il 5 aprile 2012 innanzi al Giudice del
Lavoro di Monza, di accertamento del suo diritto all’inquadramento nella
superiore categoria A/1, ovvero A/3, ovvero ancora B/2 del CCNL Chimici e di condanna della società datrice
alle differenze retributive maturate dal 30 settembre 1993, nonché tra la
retribuzione percepita nel periodo di CIG e quella che invece le sarebbe
spettata qualora non fosse stata illegittimamente sospesa dal lavoro per tale
ragione;
2. a motivo della decisione, la Corte territoriale
escludeva l’impugnabilità della suindicata conciliazione siccome avvenuta in
sede giudiziale e quindi protetta, ai sensi dell’art.
2113, ultimo comma c.c. E così pure la sussistenza dei prospettati vizi di
inesistenza delle reciproche concessioni, per il suo contenuto transattivo, né
dei vizi della volontà denunciati; neppure ricorrendo ipotesi di
rescindibilità, in assenza dei requisiti prescritti dall’art. 1447 c.c., né violazione dell’art. 2115 c.c., non configurandosi alcun patto
elusivo di obblighi previdenziali datoriali, siccome connessi alla domanda di
maggior inquadramento rinunciata;
3. parimenti infondata essa riteneva, infine, la
domanda della lavoratrice al pagamento di differenze retributive per
illegittima collocazione in CIG nella sospensione del rapporto di lavoro per
malattia, per la ritenuta applicabilità (secondo indirizzo di legittimità
citato) della sostituzione dell’indennità giornaliera per essa prevista con
quella di CIG, qualora relativa alla sospensione dell’attività produttiva, come
appunto nel caso di specie, per identità di ratio con la CIGS, per la quale
espressamente stabilita dall’art.
3 I. 464/1972;
4. con atto notificato il 11 e 12 maggio 2017, la
lavoratrice ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui la società datrice
resisteva con controricorso;
Considerato che
1. la ricorrente deduce falsa applicazione dell’art. 2113 c.c., violazione degli artt. 1965, 2103, 2110, 2120 c.c., 3, 36, 38 Cost., 112, 113, 115, 116 c.p.c.e omesso esame circa fatti decisivi per
il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per inesistenza di reciprocità
delle concessioni nell’accordo di conciliazione tra le parti e pertanto del suo
valore transattivo, non essendo tali né l’elemento di “integrazione del
T.f.r.”, siccome diritto della lavoratrice erogato in via anticipata, né
la consegna della “lettera di ricostruzione della carriera”, letta
dalla Corte territoriale quale missiva di presentazione per il reperimento di
altro impiego, in realtà evidenziante le reali mansioni prestate nel tempo
della lavoratrice in azienda e pertanto di riconoscimento della superiore
qualifica rivendicata; nonché per omessa pronuncia in ordine all’eccezione di
genericità – (primo motivo);
2. esso è inammissibile;
2.1. giova premettere che dalla scrittura contenente
una transazione debbano risultare gli elementi essenziali del negozio e quindi
la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista,
la res dubia, ossia la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche
delle parti, nonché il nuovo regolamento di interessi, che, mediante le
reciproche concessioni, sostituisca quello precedente foriero della lite o del
pericolo dì lite (Cass. 4 settembre 1990, n. 9114; Cass. 4 maggio 2016, n.
8917); l’oggetto del negozio transattivo deve poi essere identificato in
relazione, non già alle espressioni letterali usate dalle parti (non essendo
necessaria una puntuale specificazione delle contrapposte pretese), bensì
all’oggettiva situazione di contrasto che le stesse abbiano inteso comporre
attraverso reciproche concessioni (Cass. 14 gennaio 2005, n. 690; Cass. 9
ottobre 2017, n. 23482);
2.2. la reciprocità delle concessioni deve quindi
essere intesa in correlazione alle pretese e contestazioni delle parti, non ai
diritti effettivamente a ciascuna spettanti (Cass. 4 settembre 1990, n. 9114)
ed è necessaria alla qualificazione dell’accordo tra lavoratore e datore di
lavoro alla stregua di atto di transazione (Cass. 4 ottobre 2007, n. 20780; Cass. 7 novembre 2018, n. 28448);
2.3. integrano poi apprezzamento di fatto, come tale
riservato al giudice del merito incensurabile in sede di legittimità se
congruamente motivato, l’accertamento della natura (se novativa o conservativa)
della transazione e della regolazione degli interessi tra le parti (Cass. 14 giugno 2006, n. 13717; Cass. 3 dicembre 2009, n. 25403); così come
dell’essere davvero un atto di transazione (Cass.
7 novembre 2018, n. 28448) e dell’ampiezza del suo perimetro (Cass. 28
novembre 1981, n. 6351; Cass. 18 maggio 2018, n. 12367);
2.4. nel caso di specie, la Corte lombarda ha
accertato la reciprocità delle concessioni tra le parti, individuandole nella
rinuncia della lavoratrice alla domanda di superiore inquadramento e dei
consequenziali diritti e nell’integrazione, da parte della società datrice, del
T.f.r. maturato in relazione alle maggiori spettanze rivendicate (res dubia
oggetto del giudizio conciliato) nonché nel rilascio di una “lettera di
presentazione attestante le credenziali della lavoratrice, … utile a favorire
l’interesse della stessa al reperimento di altro obbligo”, così
plausibilmente interpretata la “lettera di ricostruzione della carriera
… fermo restando che tale lettera non costituirà riconoscimento alcuno di
diverso inquadramento né di differenze retributive eventuali” (come
espressamente al p.to 3. del verbale di conciliazione del 5 aprile 2012
trascritto a pg. 7 del ricorso), con argomentazione congrua a sua
giustificazione (per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 3 al primo
di pg. 4 della sentenza), pertanto insindacabile in sede di legittimità;
3. la ricorrente deduce violazione degli artt. 1427, 1428, 1429, 1431, 1447 c.c., 1971, 2103, 2110 c.c., 3, 36, 38 Cost., omesso esame circa fatti decisivi per il
giudizio oggetto di discussione tra le parti, violazione degli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c.,
per “travisamento del fatto e della realtà processuale” nella
ravvisata omessa menzione nell’accordo transattivo della conservazione
dell’impiego e dell’esclusione dalla CIG, per avere la Corte territoriale negato
i denunciati vizi di annullamento per errore essenziale e riconoscibile, per
pretesa temeraria e di rescissione per approfitta mento del proprio stato di
pericolo, dipendente dalla situazione familiare, di età ai fini della
possibilità di ricollocazione occupazionale, dai procedimenti di mobilità e CIG
in atto, dalle certificate condizioni di salute psichica (secondo motivo);
4. esso è inammissibile;
4.1. paiono, innanzi tutto, inconferenti le
prospettazioni di “travisamento”, configurabile soltanto in riferimento
al “fatto” (che integra motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c. e non di ricorso per cassazione:
Cass. 9 febbraio 2016, n. 2529; Cass. 24 febbraio 2017, n. 4868) ovvero alla
“prova” (che implica una constatazione o un accertamento che quella
informazione probatoria, utilizzata in sentenza, sia contraddetta da uno
specifico atto processuale e che ricorre quando quella informazione, riportata
ed utilizzata dal giudice per fondare la decisione, sia diversa ed
inconciliabile con quella contenuta nell’atto e rappresentata nel ricorso o
addirittura non esista: Cass. 25 maggio 2015, n. 10749; Cass. 21 gennaio 2020,
n. 1163), comunque non implicante una valutazione dei fatti (Cass. 14 febbraio
2020, n. 3796);
4.2. non si configurano poi le violazioni di legge
denunciate, errores in iudicando integrati dalla deduzione di un’erronea
ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta
regolata da una norma di legge, implicante un problema interpretativo; nel caso
di specie, si tratta piuttosto dell’allegazione di un’erronea ricognizione
della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna
all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del
giudice di merito, la cui censura è possibile in sede di legittimità solo sotto
l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13
ottobre 2017, n. 24155; Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340): ovviamente nei limiti
del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n.
5 c.p.c., qui non ricorrente, per le argomentate ragioni (esposte in
particolare dal secondo al quinto capoverso di pg. 4 della sentenza);
4.3. infine, non può essere dedotto il vizio di
omesso esame, sussistendo nel caso di specie l’ipotesi di cd. “doppia
conforme” prevista dall’art. 348 ter, quinto
comma c.p.c. (applicabile ratione temporis), non avendo la parte ricorrente
indicato, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al novellato testo
dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., le
ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado
e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrandone la diversità (Cass. 10
marzo 2014, n. 5528; Cass.22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 17 gennaio 2019, n.
1197);
4.4. sicché, il mezzo consiste in una sostanziale
contestazione dell’accertamento in fatto della Corte d’appello, pure
congruamente argomentato (per le ragioni indicate), incensurabile in sede di
legittimità;
5. la ricorrente deduce falsa applicazione dell’art. 2113 c.c., violazione degli artt. 1419, 2114, 2115, terzo comma, 2116,
secondo comma, 1966, primo e secondo comma, 2103,
terzo comma c.c., 3, 36, 38 Cost., 113, 115 c.p.c. e
omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra
le parti, per la non ritenuta nullità della conciliazione in riferimento alla
rinuncia a diritti indisponibili come l’adempimento degli obblighi
previdenziali datoriali relativi alle superiori qualifiche rivendicate in
coerenza con le maggiori mansioni svolte (terzo motivo);
6. esso è infondato;
6.1. non è in discussione il principio, che va
ribadito, di nullità di ogni pattuizione relativa ad una prestazione
previdenziale, inderogabilmente regolata dalla legge (Cass. 11 marzo 2004, n.
5009; Cass. 24 novembre 2011, n. 24828,
entrambe riguardanti l’indennità di mobilità, configurante prestazione
previdenziale);
6.2. semplicemente, non ricorre l’ipotesi di un
patto nullo che violi l’art. 2115, terzo comma c.c.,
essendo chiaro il riferimento delle prestazioni previdenziali rinunciate
“alle asserite mansioni superiori e … dipendenti da queste, con la
conseguenza che la rinunzia alla domanda ha impedito che i connessi obblighi
previdenziali venissero ad esistenza” (così al penultimo capoverso di pg.
4 della sentenza);
7. la ricorrente deduce, infine, violazione degli artt. 2110, 1256 c.c.,
3, 30, 31 I. 464/1972, 2067,
2077 c.c., 40 CCNL 18 dicembre 2009
dell’Industria Chimica e succ., 24 I. 223/1991, 3, 36, 38 Cost., 112, 113, 115, 116 c.p.c. e omesso esame circa fatti decisivi per
il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per il proprio collocamento in
CIGS durante il periodo di assenza per malattia, possibile soltanto per
sospensione e non per contrazione dell’attività, senza considerazione della
circostanza (pure dedotta ed offerta in prova orale) della mantenuta regolare
operatività dell’ufficio del personale dello stabilimento di S., cui ella era
addetta; collocamento pure avvenuto prima del provvedimento di ammissione al
trattamento, anticipato dalla società datrice, comunque non liberata dagli
obblighi di legge e di contratto in caso di malattia antecedente (quarto
motivo);
8. anch’esso è infondato;
8.1. la Corte territoriale ha innanzi tutto
esaminato la questione, oggetto del motivo di appello della lavoratrice (di
preclusione del collocamento in CIG in periodo di sospensione della sua
prestazione per malattia) succintamente riportato come quarto profilo formulato
nell’atto di appello (riassunto al secondo capoverso di pg. 2 della sentenza),
del pagamento delle differenze retributive per effetto dell’illegittimo
collocamento in CIG per tale ragione (ultimo capoverso di pg. 4 e primo di pg.
5 della sentenza), non essendone state prospettate altre in ordine ai suoi
presupposti di concessione;
8.2. sicché, sono inammissibili, per novità, le
questioni diverse da quella appena indicata, non avendo la ricorrente assolto
l’onere di allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito (nella
palese insufficienza dei generici e frammentari riferimenti, privi degli
indicati requisiti prescritti, al primo capoverso di pg. 28 e al primo periodo
e secondo capoverso di pg. 32 del ricorso), in violazione del principio di
specificità del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c., che
prescrive di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per
consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione,
prima di esaminare nel merito la censura stessa (Cass.
22 dicembre 2005, n. 28480; Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 13
dicembre 2019, n. 32084);
8.3. la Corte milanese ha correttamente applicato il
principio di diritto, secondo cui il riferimento dell’art. 3 legge 8 agosto 1972 n. 464,
disponendo che il trattamento di integrazione salariale sostituisce l’indennità
giornaliera di malattia, non debba essere inteso soltanto alla cassa
integrazione straordinaria, ma anche alla cassa integrazione ordinaria, quando
l’intervento ordinario della cassa si riferisca ad un’ipotesi di sospensione
dell’attività produttiva e non già di mera riduzione dell’orario lavorativo:
posto che sussiste una piena identità di ratio, così da consentire l’estensione
a quest’ultima ipotesi della regola di sostituzione del trattamento di
integrazione salariale all’indennità giornaliera di malattia, nonché
dell’eventuale integrazione contrattualmente prevista (Cass. 13 giugno 1987, n.
5219);
8.4. essa ha pure fatto corretta applicazione del
principio per cui il trattamento di cassa integrazione guadagni, sia ordinario
che straordinario, non è escluso rispetto ai lavoratori assenti per malattia o
infortunio con diritto alla conservazione del posto (art.
2110 c.c.), per la prevalenza della lex specialis, rappresentata dal
complesso normativo della C.I.G., sulla lex contractus (art. 2110 c.c. e fonti
di derivazione), oltre che della speciale disposizione dell’art. 3 I. 464/1972,
interpretata come sopra indicato; tuttavia il loro credito, in deroga all’art. 2110 citato (che prevede la liberazione del
datore di lavoro dalla obbligazione di corrispondere anche a tali lavoratori la
retribuzione solo ove siano predisposte equivalenti forme previdenziali, con
conseguente permanenza di un’obbligazione integrativa nel caso che forme siffatte
diano luogo a trattamenti di minore entità rispetto al tetto massimo della
retribuzione stessa), si riduce nei limiti del suddetto trattamento: con la
conseguenza che la legittima ammissione alla cassa integrazione comporta il
subingresso dell’ente, erogatore delle relative prestazioni, in tali
obbligazioni del datore di lavoro (il quale rimane tenuto alle anticipazioni
quale adiectus solutionis causa), previa la corrispondente riduzione delle
medesime, nel senso che quest’ultimo è tenuto ad anticipare anche ai menzionati
lavoratori o l’intero trattamento di cassa integrazione o l’importo pari alla
differenza fra questo e l’inferiore trattamento di natura previdenziale o
assistenziale (Cass. 26 settembre 1991, n. 10057);
9. per le suesposte ragioni il ricorso deve essere
rigettato, con la statuizione sulle spese secondo il regime di soccombenza e
raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei
presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20
settembre 2019, n. 23535);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la lavoratrice alla
rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che
liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi professionali,
oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di
legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13,
se dovuto.