Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 giugno 2021, n. 17102
Declaratoria di illegittimità del licenziamento, Accertamento
investigativo, Giorni di permesso ex L. 104/1992 per assistere familiare,
Attività incompatibili con l’assistenza, Controllo del lavoratore al di fuori
del luogo di lavoro, consentito perché finalizzato all’utilizzo illecito del
permesso
Rilevato che
la Corte di appello di Bari confermava la sentenza
del giudice di primo grado che aveva respinto l’opposizione avverso il
provvedimento di rigetto della domanda di declaratoria di illegittimità del
licenziamento proposta da L.A.M. nei confronti di P.I. s.p.a.;
i giudici del merito rilevavano che il L.,
dipendente di P.I. s.p.a., aveva ricevuto comunicazione del 20/9/2017 con cui
la società, a seguito di accertamento investigativo, aveva evidenziato che il
lavoratore, il quale per le giornate del 24 e 25 agosto 2017 aveva usufruito di
giorni di permesso ai sensi della I. 104/1992
per assistere la madre, si era intrattenuto in attività incompatibili con
l’assistenza, essendosi recato prima presso il mercato, poi al supermercato e
infine al mare con la famiglia, piuttosto che presso l’abitazione della madre,
convivente con il marito; che il cambio di residenza della madre presso
l’abitazione del L. non era mai stato comunicato a P.I. s.p.a., se non dopo le
contestazioni disciplinari, con conseguente impossibilità per il datore di
lavoro di svolgere i controlli; ritenevano, quindi, corretta l’applicazione
della sanzione espulsiva prevista dall’art. 54 CCNL in caso di
violazioni dolosamente gravi, tali da non consentire la prosecuzione del
rapporto e da reputare lecito l’utilizzo di attività investigativa in relazione
alla verifica della sussistenza di atti illeciti compiuti dai dipendenti
durante la fruizione di un permesso;
avverso la sentenza propone ricorso per cassazione
il lavoratore sulla base di cinque motivi, illustrati con memorie;
P.I. s.p.a. resiste con controricorso;
la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., è stata comunicata
alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di
consiglio non partecipata;
Considerato che
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione
e falsa applicazione degli artt. 437 e 345 c.p.c., dell’art. 1 c. 59 della I. 92/2012 e
degli artt. 2, 3, 4 della I.
300/1970, quest’ultimo come riformulato dall’art. 23 del d.lg. 151/2015, e
degli artt. 5 e 6 I. 300/70,
rilevando che la sentenza era viziata nella parte in cui la Corte aveva
ritenuto che la tesi prospettata in sede di discussione, secondo cui a norma
dell’art. 3 dello Statuto dei
lavoratori il datore di lavoro è tenuto a informare il lavoratore di essere
oggetto di controllo, rappresentava circostanza nuova mai denunciata nelle
precedenti fasi di giudizio;
osservava in proposito che era sempre consentita la
proposizione di mere difese, come quella in esame, volta alla contestazione dei
fatti costitutivi allegati dalla controparte a sostegno della pretesa, così che
la sentenza risultava emessa in violazione del principio di carattere generale
espresso dalle citate norme dello statuto, in forza delle quali sono vietati
controlli lesivi di diritti inviolabili e i lavoratori devono essere informati
adeguatamente circa le modalità di esercizio del controllo, con il rispetto
della normativa in materia di privacy;
il motivo di ricorso è inammissibile perché il
ricorrente non censura l’altra ratio decidendi posta a fondamento della
decisione, diversa da quella attinente alla novità della questione e conforme
alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 15094 del 11/06/2018, Cass. n. 11697 del 17/06/2020), secondo cui la
norma invocata dal reclamante riguarda la vigilanza dell’attività lavorativa
del dipendente, mentre nel caso in disamina il controllo del lavoratore al di
fuori del luogo di lavoro era consentito perché finalizzato all’utilizzo
illecito del permesso ex l. 104/1992;
con il secondo motivo deduce violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.,
degli artt. 2110, 2727,
2729, 2119 e 2697 c.c., dell’art. 18 c. 4 I. 300/1070 e
degli artt. 33 della legge n.
104/1992 e 42 c. 5 d.lgs.
151/2001.
In relazione all’art.
360 n. 3 c.p.c., censurando la sentenza nella parte in cui il collegio ha
ritenuto raggiunta la prova in ordine alla sussistenza dei fatti contestati al
ricorrente, essendosi la Corte territoriale discostata dalle regole attinenti
all’apprezzamento della prova;
con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione
e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2119, 115 e 116 c.p.c. e art. 18 c.4 I. 300/1970, come
modificato dalla I. 92/2012, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. avendo la sentenza ribaltato
la regola secondo cui la sussistenza del fatto materiale giustificante il
licenziamento deve essere dimostrata dal datore di lavoro;
entrambi i suindicati motivi di ricorso sono
inammissibili, poiché, sub specie violazione di legge, censurano gli
apprezzamenti di merito posti a fondamento della decisione (Cass. n. 8758 del
04/04/2017, SU 34476 del 27/12/2019), tendendo
a una non consentita rivalutazione dei fatti, versandosi, peraltro, in
un’ipotesi di doppia conforme in fatto (cfr. Cass. n. 26774 del 22/12/2016);
con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione
dell’art. 33 I. 104/1992
(come modificato dall’art. 24
della I. n. 183/2010 e dal d.lgs.
n. 119/2011, art. 6 c. 1 lett. a) dell’art. 18 c. 4 I. n. 300/1970
(come modificato dalla legge n.92/2012) e
degli artt. 2697 e 2119
c.c., art. 115 e 116
c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.,
rilevando che la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che l’attività
di assistenza dovesse essere prestata soprattutto nelle ore in cui il
lavoratore avrebbe dovuto svolgere l’attività lavorativa;
la censura è priva di fondamento alla luce del
consolidato principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in forza
del quale l’assenza dal lavoro per usufruire di permesso ai sensi della I. 104/1992 deve porsi in relazione causale
diretta con lo scopo di assistenza al disabile, con la conseguenza che il
comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad
esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza
e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente
assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (Cass. n. 17968 del 13/09/2016);
con l’ultimo motivo è dedotta la violazione degli artt. 2014, 2106 2119 c.c., per avere la Corte ritenuto
erroneamente la sanzione disciplinare proporzionata;
la censura è inammissibile in forza del consolidato
principio secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa,
l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e
proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento
del giudice di merito (Cass. n. 26010 del
17/10/2018);
in base alle svolte argomentazioni il ricorso va
complessivamente rigettato e le spese sono liquidate secondo soccombenza;
in considerazione della statuizione, sussistono i
presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 4.200,00, di cui € 200,00
per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento
da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.