Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 giugno 2021, n. 17421
Rapporto di lavoro, CCNL pubblici esercizi, Licenziamento,
Impugnazione, Indennità di preavviso, Spettanza, Accertamento
Rilevato
che la Corte di Appello di Firenze, con sentenza pubblicata
in data 1.3.2016, accogliendo parzialmente il gravame interposto da R.B., nei
confronti di S.U., avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede n.
386/2015, resa il 24.3.2015, ha dichiarato che quest’ultimo ha lavorato alle
dipendenze dell’impresa individuale del B. dal 21.2.2005 al 26.6.2008 come
commis di cucina di sesto livello del CCNL pubblici esercizi – dalle 9.30 alle
17.30, nei giorni di apertura del locale sino a tutto il mese di dicembre 2007;
con orario ordinario contrattuale nel periodo successivo sino alla cessazione
del rapporto e, dalle 9.30 sino alle 23.30, nei giorni di apertura del locale
nei mesi di luglio e di agosto di ciascun anno -, ed ha condannato l’appellante
a corrispondere al lavoratore le differenze retributive conseguenti, anche a
titolo di straordinario e TFR, < confermando la sentenza impugnata in punto
di indennità sostitutiva del preavviso>>, riconosciuta dal primo giudice;
che per la cassazione della sentenza ricorre R.B.,
<<in proprio, già titolare della ditta individuale “il G.A.R. di
R.B.”, cessata>>, articolando tre motivi, cui S.U. resiste con
controricorso; che sono state depositate memorie nell’interesse del lavoratore;
che il P.G. non ha formulato richieste;
Considerato
che, con il ricorso, si deduce: 1) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.,
<<in relazione agli artt. 132 c.p.c., 2697 c.c., 2108 c.c.,
omessa motivazione; omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, che sono
stati oggetto di discussione tra le parti; motivazione apparente per il
contrasto tra affermazioni inconciliabili; motivazione perplessa ed
oggettivamente incomprensibile>>, e si lamenta che la Corte di merito,
<<in punto di orario di lavoro > sarebbe giunta alla decisione
impugnata, <<in parte attraverso omissioni motivazionali, in parte
attraverso un percorso motivazionale solo apparente, nonché connotato da contrasti
irriducibili tra le affermazioni da lei stessa rese a sostegno del
ragionamento>>, omettendo <<di considerare le numerose giornate non
lavorate da S. nei periodi di chiusura del locale e, conseguentemente, ogni
motivazione su tale aspetto della questione, oggetto di specifica deduzione da
parte dell’odierno ricorrente>>; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione
e falsa applicazione degli artt. 2118, 2119 c.c. e 115 c.p.c.,
perché i giudici di secondo grado, a sostegno della spettanza dell’indennità
sostitutiva del preavviso al lavoratore avrebbero errato, in quanto non
avrebbero tenuto conto del fatto che quest’ultimo, per vantare un diritto ad
ottenere la predetta indennità, avrebbe dovuto non solo dedurre la tardiva
contestazione, ma anche provare la illegittimità del licenziamento; 3)
<<Violazione del principio di soccombenza, in tema di spese, diritti ed onorari
del giudizio>> e si deduce che, <<in base ai principi preposti alla
condanna alle spese, diritti ed onorari del giudizio, la Corte avrebbe dovuto
addebitare tali oneri al ricorrente o, nella peggiore delle ipotesi,
compensarli integralmente fra le parti, poiché il lavoratore, già in esito al
giudizio di secondo grado è da considerare sostanzialmente parte soccombente;»;
che il primo motivo – che censura vizi di
motivazione in relazione alla valutazione delle risultanze istruttorie ed
altresì << connessa motivazione; motivazione perplessa ed oggettivamente
incomprensibile>> asseritamente posta a fondamento della decisione
impugnata – non può essere accolto, sia perché, all’evidenza, finalizzato ad
ottenere un nuovo esame del merito, non consentito in questa sede, sia per la
non conferenza del parametro normativo che si assume violato. Ed invero, non
viene indicato il fatto storico (cfr. Cass. n. 21152/2014), con carattere di
decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte
di Appello avrebbe omesso di esaminare; né, tanto meno, si fa riferimento, alla
stregua della pronunzia delle Sezioni Unite n.
8053 del 2014, ad un vizio della sentenza <<così radicale da
comportare>>, in linea con <<quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c., la nullità della pronunzia
per mancanza di motivazione>>, non potendosi configurare, nella
fattispecie, un caso di motivazione apparente o di mancanza di motivazione, da
cui conseguirebbe la non idoneità della sentenza a consentire il controllo
delle ragioni poste a fondamento della stessa, dato che la Corte di merito è
pervenuta alla decisione oggetto del giudizio di legittimità con argomentazioni
analitiche, del tutto condivisibili e scevre da vizi logico-giuridici (si
vedano, in particolare, al riguardo, le pagg. 4-6 della sentenza impugnata, in
cui vengono vagliate adeguatamente le risultanze istruttorie anche con
riferimento ai giorni di lavoro di S.U. ed all’orario dallo stesso osservato);
che il secondo motivo – che attiene <<alla
indennità di preavviso già riconosciuta dal primo giudice in ragione della
ritenuta illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore, sebbene non
impugnato > – non è fondato; al riguardo, va osservato che la Corte di
merito ha sottolineato che <<l’appellante non si duole specificamente del
principio di diritto richiamato dal Tribunale a fondamento della sussistenza
del diritto vantato dal lavoratore e che prescinde dalla avvenuta impugnazione
del licenziamento (Cass. n. 2318/2004)>>, ma <<piuttosto denuncia
vizio di ultrapetizione>>.
Pertanto, rebus sic stantibus, correttamente i
giudici di secondo grado hanno affermato che << d’appello, così
delimitato sul punto, è all’evidenza infondato, tenuto conto di quanto
chiaramente denunciato alla pagina 6) del ricorso introduttivo del S. con
riguardo alla illegittimità, per tardività, della sanzione disciplinare
irrogata>>; peraltro, il ricorrente non ha prodotto (e neppure indicato
come documento offerto in comunicazione unitamente al ricorso per cassazione),
né trascritto, l’atto di gravame, dal quale, eventualmente, poter evincere la
corretta censura della riconosciuta indennità di preavviso; e ciò, in
violazione del principio (arg. ex art. 366, primo
comma, n. 6, c.p.c.), più volte ribadito da questa Corte, che definisce
quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto
precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di
legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni
prima di esaminare il merito della questione (v., ex plurimis, Cass. nn. 10551/2016; 14541/2014; 23675/2013; 1435/2013).
Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in
grado di apprezzare la veridicità delle doglianze mosse al procedimento di
sussunzione operato dai giudici di seconda istanza, che si risolvono, quindi,
in considerazioni di fatto e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria
(cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);
che neppure il terzo motivo può essere accolto, poiché la Corte territoriale ha
motivato la compensazione delle spese del grado nella misura della metà, in
ragione del parziale accoglimento dell’appello; inoltre, alla stregua dei
costanti arresti giurisprudenziali dì legittimità, la statuizione sulle spese
di lite è sindacabile in questa sede esclusivamente nell’ipotesi in cui le
stesse vengano poste a carico della parte totalmente vittoriosa (la qual cosa
non è avvenuta nella fattispecie) ed esulando dal potere di controllo della
Suprema Corte la valutazione dell’opportunità dì compensarle in tutto o in
parte, sia nel caso di soccombenza reciproca che in quello in cui sussistano
altri giusti motivi, in quanto tale valutazione rientra nel potere
discrezionale del giudice di merito (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24502/2017; 8421/2017; 15317/2013);
che, per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso va
respinto;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui
all’art. 13, comma 1 -quater, del
d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.