Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 giugno 2021, n. 17471

Tributi, IRPEF, Redditi di lavoro autonomo, Ritenute subite
– Scomputo, Prova effettiva applicazione delle ritenute, Mancanza
certificazione sostituto d’imposta, Necessità di idonea documentazione
bancaria attestante l’importo netto incassato

 

Fatti di causa

 

1. G. M., notaio, impugnò dinanzi alla Commissione
tributaria provinciale di Bologna la cartella esattoriale emessa a seguito di
controllo formale della dichiarazione dei redditi per il recupero a tassazione,
in relazione all’anno d’imposta 2004, di somme scomputate a titolo di ritenute
d’acconto subite sui redditi di lavoro autonomo per le quali i sostituti
d’imposta avevano omesso di trasmettergli le certificazioni attestanti il
versamento delle ritenute stesse.

I giudici di primo grado, secondo quanto emerge
dalla sentenza impugnata accolsero il ricorso, osservando che l’Ufficio
finanziario chiedeva al contribuente ‹‹una vera e propria probatio diabolica››
e che la tesi dell’Agenzia delle entrate comportava il concreto pericolo di una
duplicazione d’imposta ‹‹qualora il sostituto avesse solo dimenticato di far
avere la certificazione ma in concreto l’avesse effettuata››.

2. Avverso la suddetta sentenza propose impugnazione
l’Agenzia delle entrate, deducendo che anche il sostituito doveva ritenersi sin
dall’origine obbligato solidale al pagamento dell’imposta e che la
certificazione del sostituto costituiva l’unico mezzo idoneo a dimostrare di
avere subito la ritenuta.

La Commissione tributaria regionale dell’Emilia
Romagna, accogliendo l’appello, affermò che il contribuente era legittimato
allo scomputo delle ritenute subite purché fosse in grado di documentare
l’effettivo assoggettamento a ritenuta, come precisato dall’Agenzia delle
entrate con la Risoluzione n. 68 del 19 marzo 2009. Ai fini della prova,
secondo i giudici di appello, non era tuttavia sufficiente la produzione della
fattura emessa dal contribuente con l’indicazione dell’assoggettamento a
ritenuta, ma era necessaria la produzione di documentazione bancaria idonea a
comprovare che fosse stato effettivamente percepito l’importo del compenso al
netto della ritenuta (oltre a dichiarazione sostitutiva di atto notorio con la
quale il contribuente dichiarava che la documentazione attestante il pagamento
si riferisse ad una determinata fattura regolarmente contabilizzata).

3. Il contribuente ha proposto ricorso per
cassazione contro la decisione d’appello, affidato a due motivi, cui resiste
l’Agenzia delle entrate mediante controricorso.

In prossimità dell’udienza pubblica il ricorrente ha
provveduto al deposito telematico di memoria ex art.
378 cod. proc. civ., non avendo avanzato istanza di discussione orale.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo – rubricato: ‹‹violazione e/o
falsa applicazione di norme di legge singolarmente ed in combinato disposto fra
loro, ed in particolare dell’art.
4 del d.P.R. 322/98 (vertente sulle modalità di dichiarazione e
certificazioni dei sostituti d’imposta), dell’art. 36-ter del d.P.R. n. 600 del 1973
(vertente sul controllo della dichiarazione dei redditi del contribuente), in
rapporto all’art. 22 del d.P.R.
917/86 (scomputo delle ritenute d’acconto subite) ed all’art. 67 del d.P.R. n. 600/73, che
stabilisce il divieto di doppia imposizione, nonché – in punto
istruttorio/documentale – dell’art.
6, comma 4, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente),
statuente il divieto di richiedere al contribuente documenti già in possesso di
essa Amministrazione finanziaria›› – il contribuente lamenta che la C.T.R.
avrebbe ritenuto fondato l’appello sulla base della circolare
dell’Agenzia delle entrate n. 68 del 19 marzo 2009, secondo la quale unico
mezzo utile al fine del corretto scomputo per il professionista delle ritenute
subite dalla propria dichiarazione Irpef doveva ritenersi l’esibizione
all’Amministrazione finanziaria della dichiarazione ‹‹cartacea››, sottoscritta
dal sostituto d’imposta, di avvenuto pagamento; in tal modo dando prevalenza
alla circolare piuttosto che alle norme.

Assume, altresì, che l’Amministrazione finanziaria,
non potendo pretendere dal contribuente, a norma dell’art. 6, comma 4, dello Statuto
del contribuente, documenti ed informazioni già in suo possesso, avrebbe dovuto
preliminarmente procedere all’esame dei modelli 770 dei sostituti d’imposta per
verificare se negli stessi risultasse l’indicazione delle ritenute operate,
piuttosto che imporgli un onere probatorio documentale molto oneroso,
considerato, peraltro, che la certificazione di cui all’art. 4 del d.P.R. n. 322 del 1998
non dimostrava il pagamento delle ritenute e non costituiva condicio sine qua
non per lo scomputo delle medesime.

Soggiunge che il mancato analitico controllo
dell’Amministrazione finanziaria viola anche il divieto di doppia imposizione,
poiché il mancato riconoscimento delle ritenute operate, ma non certificate, comporta
un duplice prelievo, prima in capo al sostituto e dopo in capo al sostituito.

Ribadisce che, per il professionista, l’unico modo
possibile di provare lo scorporo è l’esibizione delle copie di tutte le
fatture, nonché dei libri contabili obbligatori nei quali vengono annotate le
operazioni derivanti dalle fatture, sulla cui base viene poi predisposta la
dichiarazione dei redditi; osserva come l’art. 22 del t.u.i.r. consenta lo
scomputo delle ritenute operate dal sostituto, a prescindere dal fatto che esse
siano state effettivamente versate, e che questa Corte, con la sentenza n. 3725
del 1979 ha stabilito come il mancato rilascio dell’attestazione dell’avvenuta
ritenuta non possa comportare l’obbligo di pagare nuovamente l’imposta, non
essendovi solidarietà del debito.

2. Con il secondo motivo censura la decisione
impugnata per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato
oggetto di discussione tra le parti, deducendo che la motivazione è scarna e
non considera tutta la documentazione prodotta nel giudizio di merito ai fini
della dimostrazione della correttezza degli adempimenti nella redazione della
dichiarazione dei redditi per l’anno oggetto di contestazione.

3. I motivi di ricorso, che possono essere
scrutinati congiuntamente perché connessi, sono infondati.

3.1. Anche prima che intervenisse il mutamento del
quadro normativo per effetto dell’art. 1 del d.l. 31 maggio 1994, n.
330, convertito, con modificazioni, dalla legge
27 luglio 1994, n. 473, che ha emendato l’art. 3 del d.P.R. n. 600 del 1974,
sopprimendo l’obbligo di allegare alla dichiarazione dei redditi il certificato
del sostituto d’imposta attestante le ritenute operate, con risalenti pronunce
si è affermato che l’inosservanza dell’obbligo del sostituto d’imposta di
inviare tempestivamente la suddetta certificazione non toglie al contribuente
sostituito il diritto di provare la reale entità della base imponibile,
evitando la duplicazione di un’imposizione già scontata alla fonte (Cass., sez.
1, 4/08/1994, n. 7251); con l’ulteriore precisazione che, anche ove non abbia
allegato alla dichiarazione dei redditi il certificato del sostituto d’imposta,
il sostituito può comunque contestare in giudizio il recupero della detrazione,
producendo al giudice tributario la documentazione relativa alle ritenute
subite, stante la generale emendabilità della dichiarazione fiscale (Cass., sez. 5, 19/02/2004, n. 3304) e che, in
ogni caso, il contribuente non può essere assoggettato di nuovo all’imposta sol
perché chi ha operato la ritenuta non voglia consegnargli l’attestato da
esibire al fisco (Cass., sez. 5, 3/07/1979, n. 3725).

3.2. L’art.
22 del d.P.R. n. 917 del 1986, dedicato allo scomputo delle ritenute
d’acconto, subordina attualmente la detrazione dall’imposta delle ritenute alla
sola condizione che esse siano state ‹‹operate››, sicché assume rilevanza il
fatto oggettivo della loro applicazione, che può essere comprovato non solo con
la certificazione rilasciata dal sostituto di imposta, ma anche con altri mezzi
di prova equipollenti.

In questo senso si è espressa anche l’Agenzia delle
entrate con la circolare n. 68/E del 19 marzo 2009,
con la quale ha riconosciuto che, laddove il contribuente non abbia ricevuto,
nei termini di legge, dal sostituto d’imposta la certificazione delle ritenute
effettivamente subite, sia comunque legittimato allo scomputo delle stesse, ‹‹a
condizione che sia in grado di documentare l’effettivo assoggettamento a
ritenuta tramite esibizione congiunta della fattura e della relativa
documentazione, proveniente dalle banche o altri intermediari finanziari,
idonea a comprovare l’importo del compenso netto effettivamente percepito, al
netto della ritenuta, così come risulta dalla predetta fattura››.

3.3. Quanto detto comporta, come ha avuto modo di
chiarire questa Corte (Cass., sez. 5, 7/06/2017,
n. 14138), che ‹‹la norma sul controllo formale delle dichiarazioni
usualmente intesa come fonte del recupero delle ritenute non certificate deve
essere integrata secondo i principi generali della prova. In altri termini,
quando stabilisce che gli uffici “possono” escludere lo scomputo delle ritenute
d’acconto non risultanti da certificazioni dei sostituti d’imposta, l’art. 36-ter d.P.R. 600/1973 deve
essere interpretato nel senso che gli uffici finanziari (e a fortiori i giudici
tributari) “possono” apprezzare anche prove diverse dal certificato, ad esso
equipollenti››.

3.4. La Commissione tributaria regionale ha ritenuto
che sia consentito scomputare dall’imposta sul reddito delle persone fisiche le
ritenute sui redditi di lavoro autonomo subite dal professionista, anche quando
quest’ultimo non sia stato in grado di esibire la certificazione rilasciata dal
sostituto d’imposta, ai sensi dell’art.
4, commi 6-bis e 6-ter, del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, purché il
contribuente documenti l’effettivo assoggettamento a ritenuta; ha, tuttavia,
rilevato che tale prova non è stata fornita dall’odierno ricorrente, stante
l’insufficienza, a tali fini, della documentazione esibita.

Sono, dunque, infondate le censure rivolte alla
sentenza impugnata con le quali ci si duole che il giudice di appello abbia
aderito alla posizione espressa dall’Agenzia delle entrate nella risoluzione n. 68/E sopra richiamata, come pure
le prospettate violazioni degli artt.
4 del d.P.R. n. 322 del 1998 e 36-ter
del d.P.R. n. 600 del 1973, non essendosi la sentenza impugnata discostata
dai principi sopra richiamati.

Neppure è ravvisabile violazione del divieto di
doppia imposizione (art. 67 d.P.R. n.
600 del 1973), che postula la reiterata applicazione della medesima imposta
in dipendenza dello stesso presupposto (Cass.,
sez. 5, 25/05/2016, n. 10793), poiché nel caso di specie non si chiede al
sostituito il pagamento di un’imposta già effettuato dal sostituto e, quindi,
si esula dall’ipotesi di imposta applicata due volte.

3.5. Alla soluzione a cui si è pervenuti con la
decisione in questa sede impugnata non è di ostacolo la pronuncia a Sezioni
Unite di questa Corte n. 10378 del 12 aprile 2019
— richiamata dal contribuente nella memoria ex art.
378 cod. proc. civ. — che ha enunciato il principio secondo cui ‹‹nel caso
in cui il sostituto ometta di versare le somme, per le quali ha però operato le
ritenute d’acconto, il sostituito non è tenuto in solido in sede di
riscossione, atteso che la responsabilità solidale prevista dall’art. 35 del decreto del
Presidente della Repubblica n. 602 del 1973 è espressamente condizionata
alla circostanza che non siano state effettuate le ritenute››.

Infatti, le Sezioni Unite, con la sentenza da ultimo
citata, osservando che la tesi della solidarietà è stata tradizionalmente
fondata sul presupposto che l’obbligazione del versamento fosse unica, sia per
il sostituto, sia per il sostituito e che, alla stessa, fosse perciò in origine
tenuto in via solidale anche il sostituito, in applicazione dell’art. 1294 cod. civ., ha ritenuto di non
condividere tale orientamento, sottolineando che la speciale fattispecie di
solidarietà del sostituito per l’obbligazione di versamento dell’acconto
d’imposta, in caso di inadempimento del sostituto, sia espressamente
condizionata (anche dall’art.
35 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) alla circostanza che non siano
state operate le ritenute.

Ciò significa che, sebbene sia esclusa la
solidarietà passiva tra sostituto e sostituito per l’obbligazione di versamento
dell’acconto d’imposta, in caso di inadempimento del sostituto, tale esclusione
opera a condizione che le ritenute siano state operate, circostanza questa che
i giudici regionali hanno ritenuto, nel caso in esame, non dimostrata.

3.6. Quanto, poi, alla dedotta violazione, da parte
dell’Agenzia delle entrate, del divieto di richiedere al contribuente documenti
già in suo possesso, la doglianza non si sottrae alla declaratoria di
inammissibilità, trattandosi di questione nuova, di cui non si fa menzione
nella decisione impugnata, non avendo il ricorrente dimostrato, in ossequio al
principio di autosufficienza, di avere tempestivamente sollevato l’eccezione
nel giudizio di merito.

4. Parimenti insussistente è il denunciato vizio ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.,
dedotto con il secondo mezzo di ricorso.

4.1. Nell’illustrazione del motivo lo stesso
ricorrente, ribadendo di avere prodotto la documentazione necessaria e
sufficiente al fine di dimostrare tutti gli adempimenti richiesti ai fini della
redazione della propria dichiarazione dei redditi, sottolinea come non sia
possibile, sul piano pratico, offrire prova, attraverso la esibizione di
documentazione bancaria, dei singoli versamenti ricevuti, al netto della
ritenuta, a fronte delle prestazioni rese, e di ricollegare ciascuno di tali
versamenti ad ogni singola fattura emessa. E ciò perché ‹‹l’Amministrazione
contabile del Notaio ha da sempre eseguito un unico versamento giornaliero nel
quale i pagamenti con assegni vengono indicati singolarmente, laddove si
accorpano però anche pagamenti effettuati in contanti…, senza specifica
precisa, per praticità, con indicazione della sola cifra totale, senza
possibilità di individuare a quali fatture il versamento giornaliero si
riferisca››.

4.2. Con la censura così formulata il ricorrente si
limita, in realtà, a denunciare l’insufficienza della motivazione e l’impossibilità
di produrre la documentazione bancaria a dimostrazione della ritenuta subita,
ma non imputa alla Commissione tributaria regionale di avere trascurato l’esame
di un fatto storico che, se adeguatamente valutato, avrebbe potuto condurre ad
una diversa decisione; in sostanza, a fronte della ricostruzione fattuale
operata dai giudici di appello, le critiche rivolte tendono ad una
inammissibile richiesta di una diversa valutazione delle medesime risultanze
istruttorie, preclusa al giudice di legittimità.

La giurisprudenza di questa Corte è ormai
consolidata (Cass., sez. U., 7/04/2014, n. 8053;
Cass., sez. U., 18/04/2018, n. 9558; Cass.,
sez. U., 31/12/2018, n. 33679) nell’affermare che: a) il novellato testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., applicabile
ratione temporis, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che
concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui
esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia
costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere
decisivo; b) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio
di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa
sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non
abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; c) neppure il cattivo
esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del
giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma;
cosicché nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, e che si esaurisce nella
mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella
motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile,
esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della
motivazione.

Pertanto, nel rigoroso rispetto delle previsioni
dell’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ.,
il ricorrente deve indicare il ‹‹fatto storico››, il cui esame sia stato
omesso, il ‹‹dato››, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente,
il ‹‹come›› e il ‹‹quando›› tale fatto sia stato oggetto di discussione
processuale tra le parti e la sua ‹‹decisività››.

Non è allora sindacabile in questa sede il giudizio
espresso dai giudici di merito in ordine alla rilevanza degli elementi
probatori acquisiti, considerato, peraltro, che il ricorrente nemmeno spiega se
e in quale modo abbia rappresentato al giudice di appello l’esistenza di
specifici ‹‹fatti››, pacifici o documentati, né ricostruisce nel ricorso le
singole operazioni asseritamente mal valutate dalla Commissione regionale,
allegando i relativi riscontri documentali, sicché la doglianza così come
formulata difetta di autosufficienza.

5. Conclusivamente, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i
criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della
controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro
4.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma
del comma 1-bis dello stesso articolo
13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 giugno 2021, n. 17471
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