Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 giugno 2021, n. 17504

Stranieri, Domanda di protezione internazionale, Presupposti
per la protezione umanitaria, Sussistenza

 

Rilevato che

 

1. il Tribunale di Potenza, con decreto pubblicato
in data 12 dicembre 2019, ha respinto il ricorso proposto da K.M.M., nato in
Bangladesh il 6 ottobre 1999, avverso il provvedimento con il quale la
competente Commissione territoriale aveva, a sua volta, rigettato la domanda di
protezione internazionale proposta dall’interessato, escludendo altresì la
sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria;

2. il Tribunale ha ritenuto che non sussistessero le
condizioni per riconoscere sia lo status di rifugiato sia la protezione
sussidiaria, sulla base dello stesso racconto dell’istante che aveva narrato di
aver lasciato, da minorenne, il Bangladesh nel 2016, a causa della sua povertà
e di essere giunto in Italia dopo essere stato imprigionato due mesi in Libia;
quanto alla lettera c) dell’art.
14 del d.lgs. n. 251 del 2007, il Tribunale ha considerato che, dalle
informazioni di fonti internazionali specificamente indicate, non emergeva la
sussistenza di un conflitto armato interno che creasse nel Paese una situazione
di violenza indiscriminata;

circa la richiesta di protezione umanitaria, il
Tribunale, pur prendendo atto che risultava dimostrata l’esistenza di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato come cameriere, ha ritenuto che
“nel caso in esame la vicenda personale del ricorrente non vale
rappresentare un rischio specifico di compromissione dei diritti umani in caso
di rimpatrio in Bangladesh, Paese in cui il medesimo ha una famiglia né può
ritenersi, anche alla luce dell’attuale condizione del Paese di origine, che il
richiedente possa trovarsi nell’impossibilità di esercitare i diritti
fondamentali cui la legge subordina il riconoscimento della protezione in
questione”;

3. ha proposto ricorso per la cassazione del
provvedimento impugnato il soccombente con 2 motivi; il Ministero dell’Interno
ha depositato “atto di costituzione” per il tramite dell’Avvocatura
Generale dello Stato al solo fine di una eventuale partecipazione all’udienza
di discussione della causa;

 

Considerato che

 

1. il primo motivo di ricorso denuncia:
“Erroneo apprezzamento da parte dei giudici di primo grado dei fatti
esposti dal ricorrente durante la sua audizione.

Omessa e/o carente e/o illogica motivazione su di un
punto decisivo della controversia, ex art. 360,
comma 1, n. 5, c.p.c., violazione degli articoli
2, 3, e 5 Cost.
Violazione articoli 2, 3, 6, 10, 11 Cost.
Violazione dell’art. 1 della
Convenzione di Ginevra del 1951″;

il secondo motivo denuncia: “Violazione di
norme di diritto ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.
Omessa e/o carente e/o illogica motivazione su di un punto decisivo della
controversia, ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.

Sussistenza delle condizioni di riconoscimento dello
status di rifugiato e/o della protezione sussidiaria, ex D.LGS. n. 251/2007 e/o umanitaria ex art. 5, comma 6, D.LGS. n. 286/1998″;

2. I motivi, da valutare congiuntamente per
connessione, sono fondati nei limiti segnati dalla motivazione che segue;

sono inammissibili le censure che riguardano il
diniego delle protezioni maggiori in quanto carenti di adeguata specificità: invero,
la formulazione di essere risulta del tutto astratta, risolvendosi in una mera
elencazione di norme, senza l’osservanza del fondamentale principio secondo cui
i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza non possono essere
affidati a deduzioni generali e ad affermazioni apodittiche, con le quali la
parte non articoli specifiche censure esaminabili dal giudice di legittimità
sulle singole conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla
fattispecie decisa, avendo il ricorrente l’onere di indicare con precisione gli
asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto per la natura di
giudizio a critica vincolata propria del giudizio di cassazione, il singolo
motivo assolve alla funzione di identificare la critica mossa ad una parte ben
specificata della decisione espressa (v., da ultimo, Cass. n. 2959 del 2020;
conf. Cass. n. 1479 del 2018); pertanto, se nel ricorso per cassazione si
sostiene l’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo, si deve
chiarire a pena di inammissibilità l’errore di diritto impugnato al riguardo
alla sentenza impugnata, in relazione alla concreta controversia (Cass. SS.UU.
21672 del 2013); in caso contrario, la censura – pur formalmente formulata come
vizio di violazione di norme legge – nella sostanza si traduce in una
inammissibile denuncia di errata valutazione da parte del Giudice del merito
del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti,
effettuata nell’esercizio di un sindacato non censurabile in sede di
legittimità, se non sotto il profilo di vizio di motivazione, peraltro nei
ristretti di cui al nuovo testo dell’art. 360, n.
5, c.p.c., pure invocato da parte ricorrente, ma senza individuare il fatto
storico decisivo di cui sarebbe stato omesso l’esame e trascurando
completamente gli enunciati di Cass. SS.UU. nn.
8053 e 8054 del 2014 che hanno rigorosamente interpretato detta
disposizione novellata nel 2012;

i motivi risultano invece fondati nella parte in
cui, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, lamentano che il
Collegio adito abbia completamente trascurato la condizione di vulnerabilità
del ricorrente, in relazione al suo stato di migrante minorenne sia quando ha
lasciato il Bangladesh sia all’arrivo in Italia, alla traumatica esperienza
vissuta in Libia quale paese di transito nonché al contesto sociale ed
economico di estrema povertà in cui dovrebbe essere reintegrato;

come questa Corte ha avuto modo di precisare più
volte, la protezione umanitaria costituisce una misura atipica e residuale, nel
senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i
presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione
sussidiaria, tuttavia non possa disporsi l’espulsione (cfr. Cass. n. 13079 del
2019; Cass. n. 14005 del 2018; Cass. n. 23604 del 2017); l’applicazione di tale
misura richiede pertanto una valutazione individuale, da condursi caso per
caso, del livello d’integrazione sociale, e lavorativa raggiunto dal
richiedente in Italia, comparato alla situazione personale in cui versava prima
dell’abbandono del Paese di origine e nella quale si troverebbe nuovamente
esposto in conseguenza del rimpatrio, in modo tale da far emergere eventuali
situazioni personali di vulnerabilità, collegate alla violazione di diritti
fondamentali (cfr. Cass. Ss.UU. n. 29459 del 2019; Cass. n. 9304 del 2019;
Cass. n. 3681 del 2019);

tra le predette situazioni va indubbiamente
annoverata la minore età del richiedente, la quale costituisce oggetto di
specifica attenzione da parte della disciplina in tema di immigrazione, in
quanto, oltre a precludere l’emissione del decreto di espulsione, ai sensi
dell’art. 19, comma secondo,
lett. a), del d.lgs. n. 286 del 1998, salvo che per motivi di ordine
pubblico o di sicurezza dello Stato, giustifica l’applicazione di particolari
misure di tutela, sia sotto il profilo sostanziale, ai sensi degli artt. 28, 31 e 33 del medesimo decreto, dell’art. 19 del d.lgs. 18 agosto 2015,
n. 142 e della legge 7 aprile 2017, n. 47,
che sotto, quello procedimentale, ai sensi dell’art. 13, co. 3, e 28, co. lett. b, d. Igs. n. 25 del
2008 (v. Cass. n. 11743 del 2020);

è stato così affermato il principio secondo cui:
“In tema di protezione umanitaria, il giudice, ai fini dell’accoglimento
della domanda, deve valutare la minore età del richiedente al momento del suo
ingresso in Italia, trattandosi di condizione personale di particolare
vulnerabilità la quale, al pari di altre (come lo stato di gravidanza, l’età
avanzata, la disabilità, etc.), determina, pur in mancanza di un concreto
rischio per la vita, l’integrità fisica o la libertà individuale, il pericolo,
in caso di rimpatrio, di una significativa ed effettiva compromissione dei
diritti fondamentali inviolabili del richiedente” (Cass. n. 17185 del
2020);

l’aspetto non è stato preso in considerazione dal decreto
impugnato, il quale, nel rigettare la domanda di riconoscimento della
protezione umanitaria, si è limitato ad escludere la sufficienza
dell’inserimento sociale e lavorativo del ricorrente in Italia, pur
testimoniato dalla stipulazione di un contratto di lavoro a tempo
indeterminato, nonché a rilevare l’assenza di ragioni ostative al suo
reinserimento nel Paese di origine, omettendo invece di valutare l’età che il
ricorrente aveva al momento del suo ingresso in Italia, le vicissitudini da lui
attraversate nel lungo tragitto dal Paese di origine, le esperienze traumatiche
vissute in Libia, il tempo trascorso da quell’epoca e le relazioni
eventualmente intrattenute nel nostro Paese, le particolari esigenze di tutela
connesse alla sua età), ed alla sua formazione (cfr. Cass. n. 11743/20 cit.);
(va aggiunto che, ai fini dell’accertamento della condizione di vulnerabilità
del richiedente, all’esito della valutazione comparativa tra le condizioni di
vita alle quali lo straniero sarebbe esposto ove rimpatriato ed il raggiunto
grado di integrazione sociale nel nostro paese, la condizione di povertà del
paese di provenienza può assumere rilievo ove considerata unitamente alla
condizione di insuperabile indigenza alla quale, per ragioni individuali, il
ricorrente sarebbe esposto ove rimpatriato, nel caso in cui la combinazione di
tali elementi crei il pericolo di esporlo a condizioni incompatibili con il
rispetto dei diritti umani fondamentali (cfr. Cass. n. 18443 del 2020, a
proposito del Bangladesh);

il Tribunale ha inoltre omesso di verificare se il
ricorrente si trovasse nella posizione di minorenne non accompagnato, la quale,
come affermato dalla Corte EDU, costituisce di per sé una condizione di
«vulnerabilità estrema», da ritenersi prevalente rispetto alla qualità di
straniero illegalmente soggiornante nel territorio dello Stato, avuto riguardo
all’assenza di familiari maggiorenni in grado di prendersene cura ed al
conseguente obbligo dello Stato di adottare tutte le misure positive
necessarie, il cui inadempimento costituisce violazione dell’art. 3 del CEDU (cfr. Corte EDU,
sent. 12/10/2006, Mubilanzila Mayeka e Kaniki Mitunga c. Belgio; v. anche, in
ordine alle esperienze vissute dal minore, sent. 22/11/2016, Abdullahi Elmi ed
altri c. Malta; 21/1/2011/ M.S.S. c. Belgio) (in termini v. ancora Cass. n.
11743/20 cit.);

3. conclusivamente il ricorso dev’essere accolto per
quanto di ragione, con cassazione del decreto impugnato in relazione alle
censure accolte e rinvio, per un nuovo esame, al giudice indicato in
dispositivo che si uniformerà a quanto statuito e provvederà anche in ordine
alle spese del presente giudizio;

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa il
decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Potenza, in diversa composizione,
anche per le spese.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 giugno 2021, n. 17504
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