Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 giugno 2021, n. 17809
Rapporto di lavoro, Trasferimento nei ruoli dello Stato del
personale ATA degli enti locali, Differenze di trattamento retributivo
Rilevato che
la Corte di Appello di Palermo, con ordinanza
pronunciata ai sensi dell’art. 348 bis c. 1 c.p.c.,
ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto da G.G. avverso la
sentenza del Tribunale Palermo nella parte in cui essa aveva rigettato la
domanda volta alla condanna del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e
della Ricerca, al pagamento delle differenze di trattamento retributivo
verificatesi nel passaggio dall’Ente locale da cui, in forza del disposto
dell’art. 8, co. 2, L. 124/1999, egli proveniva e ciò in quanto in causa si era
accertata l’assenza di un peggioramento retributivo sostanziale quale
conseguenza del trasferimento; la Corte territoriale, adita dal lavoratore, ha
ritenuto che l’appello non avesse una ragionevole probabilità di essere accolto;
essa ha richiamato le precedenti decisioni assunte
in fattispecie sovrapponibili a quella dedotta in giudizio e, riassunti i
termini della vicenda relativa al trasferimento nei ruoli dello Stato del
personale ATA degli enti locali, ha, in sintesi, osservato che la Corte di
Giustizia con la sentenza del 6 settembre 2011 in
causa C – 108/10, nel ritenere applicabile alla fattispecie la direttiva 77/187/CEE, ha escluso che il
cessionario possa non tener conto dell’anzianità pregressa dei lavoratori
ceduti ma solo nei limiti necessari al mantenimento del livello retributivo in
precedenza goduto, valutato senza considerare eventuali accessori correlati a
specifiche modalità di svolgimento della prestazione presso il precedente
datore, atteso che la direttiva ha lo scopo di impedire che il lavoratore possa
subire per effetto del trasferimento un peggioramento retributivo;
avverso la sentenza pronunciata in primo grado il
Giglia ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi ed il Ministero
dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca Università e Ricerca ha
resistito con controricorso;
Considerato che
con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi
dell’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c, la violazione e
falsa applicazione della direttiva
77/187/CEE, art. 3 c. 1 come interpretato dalla Corte di Giustizia con la sentenza 108/10 in relazione all’art. 8 c. 2 della L. n. 124 del 1999
e all’art. 1 c. 218 della L. n.
266 del 2005, addebitando alla sentenza di primo grado di non avere fatto
corretta applicazione della direttiva 77/187/CEE
e dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia nella sentenza richiamata
nella rubrica del motivo in esame ed assumendo che l’accertamento relativo al
peggioramento retributivo avrebbe dovuto essere effettuato tenendo conto
dell’anzianità maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da
altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione
della posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo;
con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai
sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., la
violazione e falsa applicazione dell’art.
6 par. 1 della CEDU, dell’art.
1 del protocollo n. 1 della CEDU nella interpretazione datane dalla Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo con le sentenza del 7.6.2011 Agrati ed altri
contro Italia, del 11.12.2012 De Rosa contro Italia, del 14.1.2014 Montalto
contro Italia , in relazione all’art.
8 c. 2 della L. 124 del 1999 e all’art. 1 c. 218 della L. n. 266 del
2005 e violazione dell’art.
30 del D. Lgs. n. 165 del 2001, per non avere il Tribunale disapplicato la
disposizione contenuta nell’art. 1
c. 218 della L. n. 266 del 2005, che aveva modificato la norma contenuta
nell’art. 8 della L. n. 124 del
1999 in violazione dei principi della CEDU nella lettura data dalla Corte
Europea dei Diritti Dell’Uomo nella sentenza Agrati ed assumendo che la
sentenza di primo grado sarebbe in contrasto con i principi affermati dalla
CEDU nelle sentenze richiamate nella rubrica del motivo in esame e sostenendosi
che la fattispecie dedotta in giudizio deve ritenersi disciplinata dalla disposizione
contenuta nell’art. 30 del
D. Lgs. n. 165 del 2001 che garantisce la continuità giuridica del rapporto
di lavoro ed il mantenimento del trattamento economico in caso di passaggio da
una Pubblica Amministrazione ad altra Pubblica Amministrazione;
con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi
dell’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., la violazione e
falsa applicazione dell’art. 3 della Costituzione
e del principio di non discriminazione di cui alla direttiva
1999/70/CEE, clausola 4.4 dell’Accordo Quadro allegato, in relazione all’art. 8 c. 2 della L. 124 del 1999
e all’art. 1 c. 218 della L. n.
266 del 2005, assumendo che il Tribunale avrebbe dovuto interpretare, in
maniera costituzionalmente e comunitariamente orientata, l’art. 8 della L. n. 124 del 1999
e dichiarare il diritto al riconoscimento dell’anzianità maturata nell’Ente di
provenienza ai fini dell’inquadramento stipendiale ed economico nella nuova
classificazione del personale dell’Amministrazione statale secondo il CCNL ivi
vigente e sostenendo, inoltre, che la disciplina contenuta nella L. n. 266 del 2005 contrasta con l’art. 3 della Costituzione in quanto viola il
diritto acquisito da esso ricorrente alla conservazione dell’anzianità maturata
nella successione dei rapporti giuridici svoltisi senza alcuna soluzione dì
continuità e formula istanza di rimessione alla Corte Costituzionale anche ai
sensi dell’art. 117 c. 1 della Costituzione in
riferimento all’art. 6 convenzione
EDU;
procedendo alla disamina congiunta nel merito dei
tre motivi, va confermato quanto già ritenuto in controversia analoga da Cass.
20 febbraio 2019, n. 4958 e da Cass. 20 novembre 2018, n. 29935;
si rileva quindi che, in materia di trattamento
giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario
(ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base all’art. 8 della L. n. 124 del 1999,
questa Corte (Cass. nn. 7980/2018, 7698/2018, 7566/2018 7310/2018, 7311/2018,
7249/2018, 7053/2018, 6780/2018, 6604/2018, 6326/2018, 5965/2018, 7715/2016, 1725/2012, 25113/2011), ha osservato
che:
– il decreto del Ministro della pubblica istruzione
5 aprile 2001 recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle
organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000 in ordine ai criteri
applicativi della L. n. 124 del
1999, art. 8, e che il legislatore con la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218,
ha elevato a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva;
– l’incostituzionalità della disposizione innanzi
richiamata (cui è stata riconosciuta efficacia retroattiva, Cass. S.U. n. 17076/2011, Corte Costituzionale n. 234/2007) è stata esclusa
dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 234
e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del
2009);
– la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande
sezione) con la sentenza 6 settembre 2011
(procedimento C- 108/10, Scattolon), emessa su domanda di pronuncia
pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva
del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, nel rispondere alle quattro
questioni poste dal Tribunale di Venezia, ha ritenuto che: la riassunzione, da
parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di
un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di
servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e
assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi
della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977,
77/18//CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati
membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di
trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando
detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati
in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto
Stato membro; quando un trasferimento ai sensi della direttiva
77/187/CEE porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del
contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni
retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente
all’anzianità lavorativa, l’art.
3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto
alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un
peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento
dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella
maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della
determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso
quest’ultimo; è compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del
trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un
siffatto peggioramento retributivo;
– in motivazione la Corte di giustizia ha poi
rilevato che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e
quindi assoggettato alla direttiva 77/187/CEE,
al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma
anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui
l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a
favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame) ed ha
ritenuto che il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento
le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi
comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza della
Corte di Giustizia);
– la Corte di Giustizia ha altresì precisato anche
che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi
allo “scopo della direttiva”, consistente “nell’impedire che i
lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno
favorevole per il solo fatto del trasferimento” (n. 75, il concetto è
ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva non può “essere
validamente invocata per ottenere un miglioramento delle condizioni lavorative
in occasione di un trasferimento di impresa …. questa direttiva non osta a
che sussistano talune disparità di trattamento retributivo tra i lavoratori
trasferiti e quelli che, all’atto del trasferimento, erano già al servizio del
cessionario …. detta direttiva, per quanto la concerne, ha il solo scopo di
evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del
trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole
rispetto a quella di cui godevano precedentemente”);
questa Corte, nelle decisioni innanzi richiamate ha,
inoltre, osservato, che la Corte di Giustizia ha evidenziato che nella
definizione delle singole controversie, il giudice nazionale deve osservare I
seguenti criteri: a. quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il
confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello
stesso lavoratore trasferito (cfr. nn. 75, 77, 82 e 83) e, al contrario, non
rilevano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento
erano già in servizio presso il cessionario (n. 77); b. quanto alle modalità,
si deve trattare di “peggioramento retributivo sostanziale” (così il
dispositivo) e la comparazione tra le condizioni deve essere
“globale” (n. 76: “condizioni globalmente meno favorevoli”;
n. 82: “posizione globalmente sfavorevole”), quindi non limitato allo
specifico istituto; c. quanto al momento da prendere in considerazione, il
confronto deve essere fatto “all’atto del trasferimento” (nn. 82 e
84, oltre che nel dispositivo: “all’atto della determinazione della loro
posizione retributiva di partenza”);
la Corte di Giustizia, dando atto della pronunzia
emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza
Agrati), ha del resto statuito che “vista la risposta data alla seconda ed
alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale
in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i
principi di cui alle norme su indicate”;
in sintesi, la Corte di giustizia ha ritenuto che:
si verte nell’ambito del diritto dell’Unione europea; di conseguenza, la normativa
nazionale in esame deve essere interpretata alla luce del diritto dell’Unione
europea; l’interpretazione orientata alla luce del diritto europeo comporta che
il passaggio alle dipendenze dello Stato non può determinare per il lavoratore
condizioni meno favorevoli; la relativa verifica spetta al giudice nazionale;
ulteriore conseguenza di questa impostazione è
l’assorbimento del problema della conformità della norma in questione all’art. 6 del TUE in combinato
disposto con le norme della CEDU e della Carta di Nizza, come recepite nel
Trattato di Lisbona, problema esaminato dalla sentenza Agrati della CEDU,
precedente alla sentenza della Corte di giustizia e da quest’ultima
considerata;
la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione
europea incide sul presente giudizio in quanto in base all’art. 11 Cost. e art.
117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora,
l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle
norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti
derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato
ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la
possibilità del controllo di costituzionalità (per tutte, Corte Cost. sentenze
n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonché, da ultimo,
sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011);
l’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche
nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate
in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino
norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte
cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonché, sull’onere di
interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze
n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000);
la decisione della presente controversia deve
avvenire, in conclusione, sulla base della suindicata interpretazione della
normativa nazionale orientata dal diritto europeo (in tal senso le già
richiamate decisioni di questa Corte nn. 7980/2018, 7698/2018, 7566/2018
7310/2018, 7311/2018, 7249/2018, 7053/2018, 6780/2018, 6604/2018, 6326/2018,
5965/2018; 7715/2016, 1725/2012, 25113/2011);
l’esegesi della norma che regola la materia in senso
conforme al diritto europeo esclude la possibilità di disapplicarla o di
sottoporla nuovamente al giudizio della Corte di giustizia dell’Unione europea,
che si è espressa, su tutti i profili della sua compatibilità con il diritto
europeo, compreso quello, posto con il quarto quesito dal Tribunale di Venezia,
valutato dalla CGUE considerando espressamente anche il giudizio e gli
argomenti formulati dalla Corte EDU nella sentenza Agrati; va osservato che la
pronuncia della CGUE si colloca in ambiente normativo già caratterizzato
dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ed è stata seguita dalla sentenza 24 aprile 2012, nella causa C-571.10,
Servet Kamberaj c. Istituto per l’edilizia sociale della provincia autonoma di
Bolzano e altri, che si è espressa sul rapporto tra norme nazionali e
convenzione europea affermando: “il rinvio operato dall’art. 6, par. 3, TUE alla CEDU non
impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto
nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di
quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con
essa”;
analogamente, la Corte costituzionale italiana ha
escluso che l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona abbia comportato un
mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle
fonti (Corte Cost. n. 80 del 2011, Cass. SSUU n. 9595 del 2012), sicché il
giudice comune non ha il potere di disapplicare direttamente norme interne
ritenendole contrastanti con la convenzione; come evidenziato, la Corte
costituzionale italiana, su sollecitazione di questa Corte, si è già espressa
sulla specifica questione con la decisione n. 311 del 2009, che, sebbene
antecedente alla sentenza Agrati, considera i medesimi problemi, prendendo
posizione non solo sulla sussistenza nel caso in esame dei “motivi
imperativi di interesse generale”, ma anche, più in generale, sulla
competenza a valutarli;
d’altra parte, le sentenze della Corte EDU
successive a quella del 7 giugno 2011, Agrati, non hanno innovato il quadro
della vicenda già apprezzato da questa Corte, che ha costantemente ritenuto
(cfr. fra le tante Cass. n. 7859/2019, Cass. n. 4437/2019, Cass. n. 3016/2018)
non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa di
interpretazione autentica, rilevando che il giudice delle leggi, affermata la
propria competenza a compiere la valutazione, ha già ritenuto sussistenti
imperativi motivi di interesse generale che, secondo la stessa Corte di
Strasburgo, permettono al legislatore di intervenire sul processo in corso;
sulla base delle considerazioni che precedono si deve escludere la fondatezza
dei motivi di ricorso perché la domanda proposta dal ricorrente può trovare
accoglimento nei soli limiti indicati dalla Corte di Giustizia, ossia
garantendo ai lavoratori coinvolti nel trasferimento la conservazione del
medesimo trattamento economico in precedenza goduto mentre è da escludere che
il ricorrente, facendo leva sull’anzianità di servizio maturata ed applicata ai
diversi istituti contrattuali previsti dal CCNL del comparto di destinazione,
possa pretendere un aumento della retribuzione;
non colgono dunque nel segno gli ulteriori richiami
della parte ricorrente ad una determinazione del dovuto sulla base di
ricostruzioni di anzianità lavorativa; il giudice di primo grado nella
definizione della controversia ha fatto pertanto corretta applicazione dei
principi innanzi affermati in quanto ha rilevato, anche sulla base di c.t.u.
appositamente svolta, che l’odierno ricorrente per effetto del trasferimento
nei ruoli del personale ATA del Ministero, non aveva subito all’atto del
passaggio nei ruoli statali alcun decremento economico;
la riproposta questione (terzo motivo del ricorso)
di costituzionalità della legge n. 266/2005, è
stata già ritenuta manifestamente infondata da questa Corte (Cass. n. 4049/2013
e fra le più recenti Cass. n.6780, 7053, 7698 del 2018), pur apprezzando le
pronunce della Corte E.D.U. successive alla sentenza della Corte Costituzionale
n. 311/2009, in quanto il Giudice delle leggi, nell’escludere la violazione
dell’art. 117 Cost. per contrasto dell’art. 1, comma 218, della legge
n.266/2005 con l’art. 6 CEDU,
ha ritenuto sussistenti i «motivi imperativi d’interesse generale», valorizzati
anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ed ha evidenziato che la
decisione al riguardo implica una valutazione sistematica di profili
costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che la
Convenzione europea lascia alla competenza degli Stati contraenti, e, quindi,
un bilanciamento di interessi che può essere compiuto solo dalla Corte
Costituzionale (principio poi ribadito da Corte
Cost. n. 264/2012 e da Corte Cost. n. 166/2017);
sulla scorta delle considerazioni svolte il ricorso va pertanto dichiarato
inammissibile, ai sensi dell’art. 360-bis n. 1
c.p.c., stante il sovrapporsi di plurime pronunce del medesimo indirizzo e
su motivi di ricorso tra loro sostanzialmente analoghi e privi di elementi
nuovi;
le spese del giudizio restano regolate secondo
soccombenza;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in euro 3.500,00 per compensi, oltre rimborso delle
spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.