Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 giugno 2021, n. 16719
Decreto ingiuntivo, Pagamento delle retribuzioni,
Inesistenza del trasferimento del ramo di azienda, Illegittimità della
cessione del contratto di lavoro, Reintegrazione dei lavoratori nella
struttura aziendale del cedente
Rilevato
che T.I. S.p.A. ha proposto appello, nei confronti
di P.G.F., avverso la sentenza del Tribunale di Bologna n. 241/2014 – con la
quale era stata rigettata l’opposizione della società al decreto ingiuntivo 730/2013
-, rappresentando che il F. aveva chiesto al medesimo Tribunale (ed ottenuto),
in via monitoria, di ingiungere alla predetta società il pagamento della somma
di Euro 13.277,90, oltre interessi legali dalla richiesta al saldo, per il
pagamento delle retribuzioni relative al periodo ottobre al 2012/febbraio 2012,
non corrisposte dalla T.I. S.p.A., <<dovute in virtù della sentenza n.
128/2012 della stessa Corte di Appello >, con la quale, oltre
all’accertamento della inesistenza del trasferimento del ramo di azienda e
della illegittimità della cessione del contratto di lavoro di cui si tratta
dalla T. S.p.A. alla H.-P.D.C.S. S.r.l., era stata disposta la condanna della
società cedente alla reintegrazione dei lavoratori nella propria struttura
aziendale; che la Corte di merito, con la sentenza n. 1155/2016, pubblicata il
5.12.2016, ha respinto il gravame, osservando, per quanto ancora di rilievo in
questa sede, che è agli atti la decisione che ha statuito il diritto del
dipendente a vedersi ricostituito il rapporto di lavoro con la società T.I.
S.p.A., per cui sono sicuramente dovute le retribuzioni maturate, a nulla
rilevando fatti estranei a questo rapporto di lavoro; che <<parte
appellante non aveva allegato né dimostrato che il lavoratore avesse svolto
altra attività lavorativa, percependo compensi>>; che <<la sentenza
di condanna alla reintegra o al ripristino del rapporto di lavorò (nel caso di
specie presso la cedente per effetto della accertata illegittimità del
trasferimento di azienda e della cessione del contratto di lavoro) sia dotata
ex lege di efficacia esecutiva (ai sensi dell’art.
431 c.p.c. e dell’art., 18
co. 6, della legge n. 300/1970) non rilevando a tal fine l’incoercibilità
del relativo obbligo datoriale>>;
che per la cassazione della sentenza ricorre T.I.
S.p.A., articolando tre motivi, cui resiste con controricorso P.G.F.;
che sono state comunicate memorie nell’interesse del
lavoratore; che il P.G. non ha formulato richieste.
Considerato
che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 431
e 282 c.p.c., <<nella parte in cui la
sentenza ha ritenuto che la decisione dell’8.3.2012 della Corte di Appello di
Bologna – che aveva dichiarato l’illegittimità della cessione del ramo
d’azienda ove era occupato il lavoratore in epigrafe ed aveva ordinato il
ripristino del rapporto con T. – potesse costituire, prima del suo passaggio in
giudicato, un idoneo titolo sulla cui base emettere un decreto ingiuntivo di
pagamento delle retribuzioni>>, poiché <<non essendo la predetta sentenza
provvisoriamente esecutiva, dalla stessa non possono scaturire, sino al suo
passaggio in giudicato, diritti retributivi>>; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione
dell’art. 112 c.p.c., <<nella parte in
cui la sentenza ha dichiarato il diritto del F. al risarcimento del danno
quando il lavoratore aveva richiesto il pagamento delle retribuzioni per il
periodo dall’1.10.201-28.2.2013, in assenza di una espressa e specifica domanda
del lavoratore che, anzi, aveva espressamente qualificato la sua azione come di
adempimento della controprestazione, tale da richiedere le
retribuzioni>>; 3) in riferimento all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 2112 e 2126 c.c.,
<<nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che la condotta
del F. che ha prestato il proprio consenso alla risoluzione del rapporto di
lavoro con la cessionaria HP DCS S.r.l. fosse irrilevante per l’odierno
giudizio >;
che il primo motivo non è meritevole di
accoglimento; al riguardo, va premesso, quanto alla dedotta violazione dell’art. 282 del codice di rito, che, come, in più
occasioni affermato in sede di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. nn. 16737/2011; 1619/2005), la disciplina
dell’esecuzione provvisoria di cui all’art. 282
c.p.c. trova legittima attuazione anche con riferimento alle sentenze di
condanna implicita, nelle quali l’esigenza di esecuzione della sentenza
scaturisce dalla stessa funzione che il titolo è destinato a svolgere; ed
inoltre, quanto alla asserita violazione dell’art.
431 c.p.c., che <<la richiesta di decreto ingiuntivo deve ritenersi
consentita nonostante l’esistenza di una sentenza parziale sull’an debeatur, la
quale può essere utilizzata come atto scritto, idoneo a dimostrare l’esistenza
del diritto fatto valere con la richiesta di un decreto ingiuntivo>> (v.,
tra le molte, Cass. nn. 24649/2009; 9605/2009; 9132/2003);
peraltro, nella fattispecie – lo si rileva ad abundantiam – il lavoratore ha
rappresentato (v. pag. 2 della memoria) che la sentenza della Corte di Appello
di Bologna n. 128/2012, posta a fondamento della richiesta azionata in via
monitoria, <<è passata in giudicato a seguito della pronuncia della Corte
di Cassazione n. 16262/2015>>, con la quale è stato respinto il ricorso
della T.I. S.p.A.; che il secondo motivo non è fondato, poiché la
qualificazione giuridica della domanda spetta al giudice, il quale non è,
dunque, vincolato al tenore letterale della stessa o alla qualificazione
giuridica che la parte ne ha fatto, con il limite, ovvio, del divieto di
introdurre una questione nuova o un diverso tema di indagine (art. 113 c.p.c.; cfr., tra le molte, Cass. nn.
11805/2016; 118/2016); ed invero, laddove si sia in presenza di una mera
qualificazione giuridica della domanda, fermi restando i fatti dedotti a suo
fondamento, come nella fattispecie, non si configura alcuna violazione dell’art. 112 del codice di rito (v. ex plurimis, Cass.
n. 13405/2015). Va, comunque, osservato che la sentenza oggetto del presente
giudizio è anteriore ai recenti arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr.,
ex plurimis, Cass., SS.UU., n. 2990/2018; n. 17785/2019; 17784/2019) – cui questo Collegio, ai sensi dell’art. 118 Disp. att. c.p.c., fa espresso richiamo
-, alla stregua dei quali <<il lavoratore illegittimamente ceduto ha
diritto di ricevere le retribuzioni da parte del cedente che, senza
giustificato motivo, non ottemperi all’ordine di reintegra>>; e, quindi,
la prestazione rifiutata dalla società cedente a seguito della sentenza
accertativa della illegittimità del trasferimento del ramo d’azienda equivale
alla prestazione effettivamente resa, mantenendo inalterato il diritto del
lavoratore, ricevere la retribuzione; che neppure il terzo motivo è fondato; ed
invero, come innanzi rilevato, con la sentenza della Suprema Corte n.
16262/2015, era stato disatteso il ricorso proposto da T.I. S.p.A., avverso la
pronunzia della Corte distrettuale di Bologna che aveva dichiarato inefficace
il contratto di cessione del ramo di azienda di cui si tratta. Pertanto, a
seguito di tale decisione, attinente alla <<ricostituzione del rapporto
di lavoro tra T.I. S.p.A. e P.G.F.>>, a nulla rilevano fatti estranei –
quali le vicende intercorse tra quest’ultimo e la cessionaria – a questo
rapporto di lavoro, che, dunque, non può considerarsi trasferito dalla cedente
T.I. S.p.A. alla società cessionaria, essendo stato, appunto, accertato, con
pronunzia passata in giudicato, che non sussistono le condizioni per applicare
l’art. 2112 c.c. e che il F. non ha manifestato
il proprio consenso alla cessione del contratto, secondo quanto previsto dall’art. 1406 c.c.; che, quindi, il rapporto di lavoro
instauratosi, di fatto, tra la società cessionaria ed il lavoratore è rimasto
del tutto distinto rispetto a quello che quest’ultimo aveva con T.I. S.p.A.,
perché, se si ritenesse l’unicità del rapporto, come pretende la parte
appellante, si giungerebbe alla conclusione di ritenere l’avvenuta
modificazione soggettiva della persona del datore di lavoro, senza la
sussistenza delle condizioni richieste dall’art.
2112 c.c. o dall’art. 1406 c.c.(cfr., ex plurimis, Cass. nn. 5998/2019; 13617/2014; 13485/2014);
che, infine, alla stregua del recente orientamento
della giurisprudenza di legittimità, che ha rivisitato il precedente indirizzo
giurisprudenziale nella materia (v. Cass., SS.UU. n. 2990/2018 – relativa alla
illecita interposizione di manodopera ed alla natura delle somme spettanti al
lavoratore – ai cui principi ispiratori è stato riconosciuto valore di
<<diritto vivente>> dal Giudice delle leggi con la sentenza n.
29/2019; e cfr., altresì, Cass. nn. 17786/2019;
17785/2019; 17784/2019, che quei principi
hanno recepito in tema di trasferimento di azienda, poi dichiarato invalido),
qualora il datore di lavoro abbia operato un trasferimento di (ramo di) azienda
dichiarato illegittimo ed abbia rifiutato il ripristino del rapporto senza una
giustificazione, non sono detraibili dalle somme dovute al lavoratore dal
datore cedente, quanto il lavoratore stesso abbia percepito, nello stesso
periodo, anche a titolo di retribuzione, per l’attività prestata alle
dipendenze dell’imprenditore già cessionario, ma non più tale, una volta
dichiarata giudizialmente – come nella fattispecie – la non opponibilità della
cessione al dipendente ceduto; e ciò, perché, in tale ipotesi, permane in capo
allo stesso il diritto di ricevere le somme ad esso spettanti, da parte del
datore cedente, a titolo di retribuzione e non di risarcimento (v., ancora,
Cass. SS.UU. n. 2990/2018, cit.). Per la qual cosa, non trova applicazione il
principio della compensatio lucri cum damno, su cui si fonda la detraibilità
dell’aliunde perceptum dal risarcimento, poiché, appunto, è stato escluso che
la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo risarcitorio;
che per tutto quanto in precedenza esposto, il
ricorso va respinto;
che, in considerazione del superamento del
precedente orientamento giurisprudenziale nella materia, appare equo disporre
la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui
all’art. 13, comma 1-quater, del
d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese
del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.