Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 luglio 2021, n. 18822
Lavoratore autonomo iscritto alla relativa gestione
previdenziale Artigiani/Commercianti, Socio di società di capitale, Base
imponibile su cui parametrare obbligo contributivo, Redditi connessi allo
svolgimento di un’attività lavorativa
Rilevato che
la presente controversia attiene alla individuazione
della base imponibile sulla quale il lavoratore autonomo iscritto alla relativa
gestione previdenziale e, nel contempo, socio di società di capitale deve
parametrare il proprio obbligo contributivo, cioè se si debba tener conto di
tutti i redditi dal medesimo percepiti nel corso dell’anno di riferimento o se,
all’opposto, si debba tener conto solo dei redditi connessi allo svolgimento di
un’attività lavorativa; nella fattispecie L.B., socio di società di capitali
nelle quali non svolgeva attività lavorativa, aveva chiesto al Tribunale di
Pescara di annullare la revoca della pensione di anzianità di cui fruiva e che
era stata disposta sull’assunto dell’omesso versamento dei contributi eccedenti
il minimale in favore della gestione commercianti relativamente agli anni
1993-2004; tale domanda fu accolta dal Tribunale di Pescara e la Corte
d’appello di L’Aquila (sentenza del 25.6.2015) ha confermato tale decisione,
dopo aver respinto l’appello dell’Inps;
secondo la Corte territoriale l’espressione
“totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini IRPEF”, di cui al
D.L. n. 384 del 1992, art.
3 bis, deve essere intesa, contrariamente alla tesi dell’Inps, come
riferita al solo reddito di impresa denunciato ai fini IRPEF per l’anno solare
al quale i contributi si riferiscono, purchè derivante dall’attività di impresa
che dà titolo all’iscrizione alla Gestione Commercianti;
ne consegue, secondo la Corte d’appello, che gli
utili derivanti dal solo fatto di essere socio di società di capitali non
rientrano nella nozione di reddito d’impresa ai fini contributivi, per cui la
pretesa del loro cumulo, avanzata dall’Inps, era infondata;
per la cassazione della sentenza ricorre l’Inps con
un motivo, cui resiste A.C. con controricorso, illustrato da memoria.
Rilevato che
con un solo motivo l’Inps denuncia la violazione e
falsa applicazione della L. 14 novembre 1992, n.
438, art. 3-bis, di
conversione con modificazioni del decreto L. 19
settembre 1992, n. 384 e in connessione con questo della L. 2 agosto 1990, n. 233 (art. 360 c.p.c., n. 3); in pratica, l’Inps
contesta il rigetto della propria tesi basata sul fatto che l’assicurato non
aveva provveduto a pagare la contribuzione previdenziale c.d. a percentuale in
misura integrale, non avendo il medesimo utilizzato, per l’individuazione della
base imponibile, anche i redditi derivanti dalla sua partecipazione alle
società a responsabilità limitata (B. s.r.I., Industria Confezioni Ricami B.
s.r.I., Immobiliare M. s.a.s., D.M., A.d’O., C.E. s.r.I., Industria prodotti
alimentari, F.B.C. s.r.I.) e in proporzione alla quota di partecipazione agli
utili tratta da ciascuna, determinando un’omissione contributiva costituita dal
differenziale di contribuzione dovuta anche per i redditi percepiti in forza
delle citate partecipazioni societarie;
quindi, secondo l’Inps, la nuova disposizione
normativa di cui alla L. n. 438 del 1992, art. 3-bis non limita
(come la precedente disciplina di cui alla L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 1)
l’individuazione dei redditi imponibili ai soli redditi scaturenti dallo
svolgimento dell’attività lavorativa imprenditoriale, ma ha ampliato la base
imponibile estendendola alla “totalità dei redditi d’impresa”;
inoltre, una tale estensione comprende tutti i redditi d’impresa a prescindere
che gli stessi siano il frutto della partecipazione del lavoratore autonomo a
una società di persone o a una società
di capitali. In definitiva, i redditi da capitale e i dividendi costituiscono,
nella visione previdenziale dell’Inps, reddito a disposizione del lavoratore
autonomo che ne migliorano il tenore di vita e che saranno utili per il
miglioramento della prestazione pensionistica;
il motivo deve ritenersi infondato, in continuità
con quanto già affermato da questa Corte di cassazione con la sentenza n. 23790 del 24/09/2019; si è in tale
sede affermato che per i soci di società commerciali la condizione essenziale
per far scattare l’obbligo contributivo nella gestione Artigiani/Commercianti,
è quella della “partecipazione personale al lavoro aziendale”;
tuttavia, la sola percezione di utili derivanti da una mera partecipazione
(senza lavoro) in società di capitali, non può far scattare il rapporto
giuridico previdenziale, atteso che il reddito di capitale non rientra tra quelli
costituzionalmente protetti, per il quale la collettività deve farsi carico
della libertà dai bisogni (tra i quali rientra il diritto alla pensione al
termine dell’attività lavorativa);
in sostanza, l’obbligo assicurativo sorge nei
confronti dei soci di società a responsabilità limitata esclusivamente qualora
gli stessi partecipino al lavoro dell’azienda con carattere di abitualità e
prevalenza. Diversamente, la sola partecipazione a società di capitali, non
accompagnata dalla relativa iscrizione contributiva da parte del socio e senza
che emerga lo svolgimento di attività prevalente ed abituale all’interno
dell’azienda, non può giustificare il meccanismo di imposizione contributiva
prefigurato dall’INPS; inoltre, contrariamente a quanto affermato dall’Inps, non
possono trarsi elementi a sostegno della sua tesi dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 354 del 2001: invero, in
tale sentenza, con la quale si è ritenuta non fondata la censura di legittimità
costituzionale del D.L. 19
settembre 1992, n. 384, art. 3- bis, convertito, con modificazioni, nella L. 14 novembre 1992, n. 438 – concernente la
sottoposizione a contribuzione INPS dei redditi denunciati a fini IRPEF dal
socio accomandante di società in accomandita semplice – sollevata in
riferimento all’art. 3 Cost., art. 38 Cost., comma 2, e art. 53 Cost., si è chiarito che la norma che
sottopone a contribuzione INPS i redditi denunciati ai fini IRPEF dal socio
accomandante di società in accomandita semplice, non introduce una
discriminazione in danno di questi rispetto al socio di società di capitali.
Infatti, ha aggiunto il giudice delle leggi, nell’ambito delle società in
accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo) assume preminente
rilievo, a differenza delle società di capitali, l’elemento personale, in virtù
di un collegamento inteso non come semplice apporto di ciascuno al capitale
sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di una
attività produttiva riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in
essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante. Ciò in quanto il
reddito prodotto dalle società in accomandita semplice è reddito proprio del
socio, realizzandosi, in virtù del D.P.R.
n. 917 del 1986, art. 5, come la stessa Corte Costituzionale ha già avuto
occasione di rilevare, sia pure agli specifici fini tribitari,
“l’immedesimazione” fra società partecipata e socio (ordinanza n. 53 del 2001);
d’altra parte, lo stesso giudice delle leggi
rammenta che, secondo il D.P.R. n. 917 del 1986,
cui la norma denunciata fa rinvio, mentre i redditi da capitale costituiscono
gli utili che il socio consegue per effetto della partecipazione in società
dotate di personalità giuridica (art.
41), soggette, a loro volta, all’imposta sul reddito dalle stesse
conseguito, i redditi c.d. di impresa di cui fruisce il socio delle società in
accomandita semplice (così come, del resto, il socio delle società in nome
collettivo) sono i redditi delle stesse società, inclusi nella predetta
categoria dal medesimo D.P.R. n. 917
del 1986, art. 6, e, al tempo stesso, da imputare “a ciascun socio,
indipendentemente dalla percezione”, proporzionalmente alla “quota di
partecipazione agli utili”, in forza del precedente art. 5 (redditi prodotti in forma
associata): quindi, dalla pronuncia della Corte Costituzionale emerge in modo
chiaro il preminente rilievo che, nell’ambito delle società in accomandita
semplice (e in quelle in nome collettivo), assume, a differenza delle società
di capitali, l’elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come
semplice apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più
persone, in vista dello svolgimento di una attività produttiva riferibile nei
risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi
compreso il socio accomandante;
la sentenza impugnata va confermata in quanto ha
affermato che gli utili derivanti dall’essere socio di capitale di società di
capitali, come quelle in cui l’appellato aveva le proprie quote, non rientrano
nella nozione di reddito di impresa di cui al D.L. n. 384 del 1992, art. 3
bis (convertito nella L. n. 438 del 1992),
atteso che gli stessi, per le ragioni sopra esposte, non afferiscono al reddito
derivante da attività di impresa che dia titolo alla iscrizione alla Gestione
commercianti;
in definitiva, il ricorso va rigettato;
le spese di lite seguono la soccombenza del
ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo;
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese nella misura di Euro 4.000,00 per compensi, oltre ad Euro
200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di
legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13.