Laddove la cessione di un ramo d’azienda sia stata dichiarata giudizialmente illegittima, la responsabilità per l’eventuale dequalificazione del dipendente ceduto grava sull’impresa cessionaria che in concreto ha utilizzato la prestazione lavorativa.
Nota a Cass. (ord.) 20 maggio 2021, n. 13787
Sonia Gioia
“In caso di invalidità del trasferimento di azienda accertata giudizialmente, il rapporto di lavoro permane con il cedente e se ne instaura, in via di fatto, uno nuovo e diverso con il soggetto già, e non più, cessionario, alle cui dipendenze il lavoratore abbia materialmente continuato a lavorare, dal quale derivano effetti giuridici e, in particolare, la nascita degli obblighi gravanti su qualsiasi datore di lavoro che utilizzi la prestazione lavorativa nell’ambito della propria organizzazione imprenditoriale; ne consegue che la responsabilità per violazione dell’art. 2103 c.c. deve essere imputata a quest’ultimo e non anche al cedente”.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (ord. 20 maggio 2021, n. 13787, difforme da App. Napoli n. 1308/2019) in relazione alla responsabilità per demansionamento di un lavoratore coinvolto in un’operazione di cessione di ramo d’azienda, poi dichiarata giudizialmente illegittima.
Nello specifico, la Corte distrettuale, dopo aver verificato che il lavoratore era stato assegnato a mansioni inferiori a quelle di inquadramento dal mese di aprile 2002 fino ad ottobre 2010 e che da marzo 2004 era alle dipendenze esclusive della cessionaria, aveva ritenuto, conformemente al giudice di prime cure, che la dequalificazione fosse imputabile per l’intero periodo sia alla società cedente che alla cessionaria, con conseguente condanna in solido alla corresponsione del risarcimento dei danni.
Al riguardo, la Cassazione ha precisato che, laddove il giudice abbia riconosciuto l’illegittimità della cessione d’azienda, il rapporto di lavoro prosegue con l’originaria impresa cedente, mentre risulta instaurato in via di mero fatto quello svoltosi medio tempore con l’impresa (già e non più) cessionaria alle cui dipendenze il prestatore abbia materialmente continuato a svolgere le proprie mansioni.
Da tale rapporto derivano effetti giuridici e, in particolare, la nascita degli obblighi gravanti su qualsiasi datore di lavoro che utilizzi la prestazione lavorativa nell’ambito della propria organizzazione aziendale, tra cui quello di adibire il lavoratore alle “mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte” (art. 2103, co. 1, c.c.).
Pertanto, l’eventuale assegnazione del prestatore a funzioni deteriori rispetto a quelle di assunzione, in violazione dell’art. 2103 c.c., non può essere imputata alla società cedente che di fatto non utilizza la prestazione lavorativa ma al solo cessionario che è titolare del potere di assegnare le mansioni (Cass. n. 21161/2019).
In attuazione di tali principi, la Corte, nel censurare la pronuncia di merito, ha escluso la responsabilità della società cedente per il demansionamento protrattosi nel periodo in cui il lavoratore era alle dipendenze della cessionaria, in quanto conseguenza diretta ed immediata della scelta di quest’ultima di non impiegare il lavoratore in attività coerenti con la sua professionalità.