Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 luglio 2021, n. 18943
Sussistenza della natura subordinata del rapporto di lavoro,
Prova, Elementi della subordinazione, Assoggettamento del lavoratore al
potere organizzativo del datore
Rilevato
che la Corte territoriale di Catania, con sentenza
pubblicata il 6.5.2016, ha rigettato il gravame interposto da V.Q., nei
confronti di C.R., N.R., V.R., G.R., M.R. e F.R., quali eredi di A.R., avverso
la sentenza del Tribunale di Brindisi con cui era stata disattesa la domanda
del Q. diretta al riconoscimento della natura subordinata del rapporto di
lavoro intercorso <<con la ditta A.R. dall’1.1.1987 al gennaio 2006 ed
alla conseguente condanna di quest’ultimo al pagamento della complessiva somma
di Euro 399.713,35 per differenze retributive, indennità sostitutiva delle
ferie non godute e TFR>>, pretesamente spettanti secondo le previsioni
del CCNL Settore Commercio per gli addetti alle
vendite di prodotti agricoli; che la Corte di Appello, per quanto ancora di
interesse in questa sede, ha osservato che <<a fronte della richiesta
svolta da parte appellante di riconoscimento di differenze retributive, che
presuppongono la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, era suo
onere provare l’esistenza del dedotto rapporto, specie se, come avvenuto nella
fattispecie, controparte contesti specificamente l’assunto, eccependo la sua
carenza di legittimazione passiva>>;
che per la cassazione della sentenza ricorre V.Q.
articolando quattro motivi, cui resistono con controricorso C.R., N.R., V.R.,
G.R., M.R. e F.R., quali eredi di A.R.; che sono state depositate memorie
nell’interesse dei controricorrenti;
che il PG no ha formulato richieste;
Considerato
che, con il ricorso, si denunzia: 1) <<Nullità
della sentenza n. 906/16 RGS e del procedimento n. 370/13 R.G.>>, e si
lamenta che, nonostante la Corte di merito avesse <<rilevato la necessità
di disporre CTU al fine di definire, salve le altre questioni rilevate dagli appellati,
le eventuali differenze retributive spettanti al Q. sulla base del normale
orario di lavoro, nonché il TFR sulla scorta delle retribuzioni che si
dichiarano ricevute sulla base del CCNL astrattamente applicabile>> ed
avesse, pertanto, conferito, in tal senso, l’incarico al C.t.u., <<il
nuovo Collegio, nelle more mutato>> avesse emesso la seguente ordinanza:
<<… ritenuto di dover approfondire l’analisi della prova per testi e
documentale, indipendentemente dall’avvenuto espletamento di una consulenza
tecnica di ufficio, PQM rinvia la causa … per la discussione>>, senza
tenere conto dell’attività processuale precedentemente espletata, ed in
particolare della c.t.u., incorrendo, così, nel vizio di nullità della sentenza
e del procedimento previsto dall’art. 360, primo
comma, n. 4, c.p.c., <<per violazione di norme processuali, con
riguardo alla nomina del C.t.u. ed alle modalità di svolgimento dell’incarico
affidato allo stesso >; 2) <<Omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia>>, e si deduce che,
erroneamente, la Corte di merito avrebbe ritenuto che il lavoratore non avesse
fornito la prova della subordinazione, senza valutare correttamente le
dichiarazioni dei testi addotti, né la documentazione INPS prodotta a sostegno;
3) <<Violazione art. 2094 c.c., in
relazione all’art. 360 n. 5, c.p.c.>>, e
si assume che la Corte di merito non avrebbe valutato gli indici della subordinazione,
commettendo, in tal modo, un errore di qualificazione del rapporto di cui si
tratta, al quale, a parere del ricorrente, si sarebbe dovuto riconoscere,
contrariamente alle conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale, il
connotato della subordinazione; 4) <<Vizio di motivazione della sentenza
di secondo grado, disattendendo le richieste istruttorie;»>, per non avere i
giudici di secondo grado accolto le richieste istruttorie contenute nell’atto
di appello, in cui si lamentava che il giudice di prime cure le avesse ritenute
inspiegabilmente superflue ai fini della decisione; che il primo motivo non è
meritevole di accoglimento; al riguardo, si rileva che non è stata prodotta, né
indicata tra i documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso per
cassazione, la c.t.u. di cui si tratta e della quale <<il collegio, nelle
more mutato, non avrebbe tenuto conto>>: e ciò, in violazione del
principio, più volte ribadito da questa Corte (arg. ex art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c.), che
definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico
atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di
legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni
prima di esaminare il merito della questione (v., tra le altre, Cass. n.
14541/2014); che, comunque, il ricorso per cassazione non conferisce alla Corte
di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda
processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della
correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni
svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di
individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità
e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo,
quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad
essi sottesa, dando così libera prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di
prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., tra le
molte, Cass. n. 27197/2011); che, fatte queste premesse, va rilevato che, nella
fattispecie, del tutto correttamente e condivisibilmente, i giudici di seconda
istanza (v., in particolare, pag. 3 della sentenza impugnata) hanno
sottolineato che, <<Preliminarmente, occorre ribadire che il presente
giudizio, avendo ad oggetto l’accertamento di crediti retributivi, necessita
che pregiudizialmente venga accertata la natura subordinata del rapporto di lavoro,
discutendosi di pretese tipiche del rapporto di lavoro subordinato>>.
Pertanto, all’evidenza, correttamente i giudici di secondo grado hanno
<<ritenuto di dover approfondire l’analisi della prova per testi e
documentale, indipendentemente dall’avvenuto espletamento di una consulenza
tecnica d’ufficio>>, peraltro disposta dal precedente Collegio col fine
di definire, salve le altre questioni rilevate dagli appellati, le eventuali
differenze retributive spettanti al Q.>>;
che il secondo motivo è inammissibile; come,
infatti, sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della
riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il
vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto
con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella
<<mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e
grafico>>, nella <<motivazione apparente>>, nel
<<contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili>> e nella
<<motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile>>, esclusa
qualunque rilevanza del semplice difetto di <<sufficienza>> della
motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio
specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto
storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della
sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione
tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe
determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poiché la sentenza
oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in
narrativa, in data 6.5.2016, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il
nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come
sostituito dall’art. 54, comma 1,
lettera b), del D.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella I. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza
può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma,
nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non
indica il fatto storico (v., ex plurimis, Cass. n. 21152/2014), con carattere
di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la
Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; né, tanto meno, fa riferimento,
alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza
<<così radicale da comportare>>, in linea con <<quanto
previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c., la
nullità della sentenza per mancanza di motivazione>>. E, dunque, non
potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente
al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla
esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale dei giudici di merito
(cfr., ex multis, Cass. n. 25229/2015), che,
nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni
logico-giuridiche del tutto congrue e condivisibili, poste a fondamento della
decisione impugnata; peraltro – sia detto ad abundantiam – il Q., in violazione
dell’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c.,
neppure ha prodotto, né indicato tra i documenti offerti in comunicazione
unitamente al ricorso di legittimità, la documentazione INPS cui fa riferimento
nel corso del secondo motivo;
che il terzo motivo – anche prescindendo dalla non
correttezza del parametro invocato, in quanto, trattandosi di vizio di
sussunzione, avrebbe dovuto essere sollevato in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di rito –
non può essere accolto, poiché i giudici di seconda istanza hanno preso in
considerazione gli elementi che connotano la subordinazione e, dopo avere
vagliato le risultanze istruttorie, sono pervenuti, attraverso un percorso
motivazionale del tutto coerente, ad escluderne la sussistenza con riferimento
alla fattispecie. Al riguardo, è da premettere che il caso all’esame ripropone
la vexata quaestio della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto
di lavoro subordinato in una fattispecie che, per alcuni versi, presenta dei
connotati peculiari. Deve, del resto, prendersi atto che oggi i due cennati
tipi di rapporto non compaiono che raramente nelle loro forme e prospettazioni
“primordiali” e più semplici, in quanto gli aspetti molteplici di una
vita quotidiana e di una realtà sociale in continuo sviluppo e le diuturne
sollecitazioni che ne promanano hanno insinuato in ognuno di essi elementi per
così dire perturbatori che appannano, turbano, appunto, la primigenia
simplicitas del “tipo legale” e fanno dei medesimi, non di rado,
qualcosa di ibrido e, comunque, di difficilmente definibile. Per cui la
qualificazione sub specie di locatio operis o locatio operarum e la sua
sussunzione sotto l’uno o l’altro nomen iuris diventa più delicata e richiede
una più approfondita opera di accertamento della realtà fattuale e di
affinamento di quei momenti che la teoria ermeneutica caratterizza come
subtilitas explicandi e, soprattutto, come subtilitas applicandi. Soccorre,
peraltro, in questa actio finium regundorum tra lavoro autonomo e subordinato
l’insegnamento della giurisprudenza che, intervenendo con molta consapevolezza
sul tema, ha dato alla dibattuta questione una soluzione che può, nei principi,
ormai dirsi consolidata. E’ noto, difatti, che, secondo il richiamato e
consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’elemento
essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato
consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo,
organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un
accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento
della prestazione lavorativa. In particolare, mentre la subordinazione implica
l’inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di
lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie
lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di
costui, nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione è costituito dal
risultato dell’attività (opus): ex multis, e già da epoca non recente, Cass. nn. 12926/1999; 5464/1997; 2690/1994;
4770/2003; 5645/2009, secondo cui, ai fini
della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato oppure autonomo,
il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come
assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro,
deve essere accertato o escluso mediante il ricorso agli elementi che il
giudice deve concretamente individuare dando prevalenza ai dati fattuali
emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto (cfr. pure, tra le molte, Cass. nn. 1717/2009, 1153/2013). In subordine, l’elemento
tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è costituito
dalla subordinazione, intesa, come innanzi detto, quale disponibilità del
prestatore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento alle
direttive dallo stesso impartite circa le modalità di esecuzione dell’attività
lavorativa; mentre, è stato pure precisato, altri elementi – come l’assenza del
rischio economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la
stessa collaborazione – possono avere solo valore indicativo e non determinante
(v. Cass. n. 7171/2003), costituendo quegli
elementi, ex se, solo fattori che, seppur rilevanti nella ricostruzione del
rapporto, possono in astratto conciliarsi sia con l’una che con l’altra
qualificazione del rapporto stesso (fra le altre – e già da epoca risalente – Cass. nn. 7796/1993; 4131/1984); ciò precisato, è
da aggiungere che, anche in ordine alla questione relativa alla qualificazione
del rapporto contrattualmente operata, sovviene l’insegnamento della
giurisprudenza di legittimità. Alla cui stregua, onde pervenire alla
identificazione della natura del rapporto come autonomo o subordinato, non si
può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l’altro
tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto
nell’esercizio della loro autonomia contrattuale: pertanto, quando i contraenti
abbiano dichiarato di voler escludere l’elemento della subordinazione, specie
nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con l’uno
che con l’altro tipo di prestazione d’opera, è possibile addivenire ad una
diversa qualificazione solo ove si dimostri che, in concreto, l’elemento della
subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto
medesimo (v., fra le molte, e già da epoca meno recente, Cass. nn.4220/1991; 12926/1999). Il nomen iuris eventualmente
assegnato dalle parti al contratto non è quindi vincolante per il giudice ed è
comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità
di adempimento della prestazione (Cass. n. 812/1993); al proposito, la Corte di
legittimità ha avuto, altresì, modo di ribadire che, ai fini della
individuazione della c.d. natura giuridica del rapporto, il primario parametro
distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso
mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in
concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo
svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla
conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua
interpretazione (ai sensi dell’art. 1362, secondo
comma, c.c.), ma anche ai fini dell’accertamento di una nuova e diversa
volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e
diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto
lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata; con la conseguenza
che, in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della
natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, a
questi ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente nell’ambito di una
richiesta di tutela formulata tra le parti del contratto (Cass. nn. 4770/2003;
5960/1999). Del resto, come è stato osservato, il ricorso al dato della
concretezza e della effettività appare condivisibile anche sotto altro angolo
visuale, ossia in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti,
che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da
quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro. Più di recente, con la sentenza n. 7024/2015, questa Corte ha ribadito
che gli indici di subordinazione sono dati dalla retribuzione fissa mensile in
relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa; l’orario di lavoro fisso
e continuativo; la continuità della prestazione in funzione di collegamento
tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali; il vincolo di
soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e
disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua
autonomia; l’inserimento nell’organizzazione aziendale.
E sul lavoratore che intenda rivendicare in giudizio
l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava l’onere di fornire gli
elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata (cfr., tra
le molte, Cass. n. 11937/2009);
che, tutto ciò premesso, deve osservarsi che, nella
fattispecie, la Corte di merito ha tenuto conto che il lavoratore non ha
fornito la prova relativa ai requisiti della eterodirezione e del potere
disciplinare e di controllo di A.R. nei suoi confronti; ha esaminato tutti gli
elementi qualificanti la subordinazione, quali enunciati dalla Corte di
legittimità, pervenendo (come innanzi già sottolineato) – attraverso la delibazione
dei punti di emersione probatoria ed alla luce dei richiamati, costanti
insegnamenti giurisprudenziali – con un iter motivazionale del tutto coerente,
ad escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie, dando atto (v.,
in particolare, le pagg. 3-5 della sentenza impugnata) che, <<la prova
testimoniale esperita non solo aveva evidenziato che il ricorrente aveva
lavorato nei punti vendita nella disponibilità di C.A. ditta individuale o
Cooperativa e di E. s.r.l., soggetti non convenuti in giudizio, ma ha, altresì
permesso di appurare che, al contrario, i testimoni ricollegano la posizione
del lavoratore alla E. s.r.l. e, quindi, semmai al legale rappresentante della
stessa che non era R.A.. … e non può non evidenziarsi la carenza e genericità
del ricorso in punto di allegazioni, laddove nessun specifico riferimento viene
effettuato all’eventuale sottoposizione della parte appellante al potere
direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro….>>; che il
quarto motivo è inammissibile, poiché, in ordine alla valutazione ed
all’ammissione degli elementi probatori, posto che la stessa è attività
istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in Cassazione
se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo
apprezzamento (nella fattispecie, peraltro, congrua e scevra da vizi logici),
alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Corte, qualora il
ricorrente denunci, in sede di legittimità, l’omessa o errata valutazione di
prove testimoniali o la mancata ammissione delle stesse, ha l’onere non solo di
trascriverne il testo integrale nel ricorso per cassazione, ma anche di
specificare i punti ritenuti decisivi al fine di consentire il vaglio di
decisività che avrebbe eventualmente dovuto condurre il giudice ad una diversa
pronunzia, se le avesse ammesse, ovvero, con l’attribuzione di una diversa
valutazione alle dichiarazioni testimoniali relativamente alle quali si
denunzia il vizio (cfr., ex multis, Cass. nn. 17611/2018; 13054/2014; 6023/2009);
che, nel caso di specie, invero, la contestazione,
peraltro del tutto generica, sulla mancata ammissione di mezzi istruttori
richiesti dal lavoratore si risolve in una inammissibile richiesta di riesame
di elementi di fatto e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali
la motivazione sarebbe mancata (cfr. Cass. nn. 24958/2016; 4056/2009),
finalizzata ad ottenere una nuova pronunzia sul fatto, certamente estranea alla
natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014);
che, per tutto quanto esposto, il ricorso va
rigettato;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui
all’art. 13, comma 1 -quater, del
d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 7.700,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.