Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 luglio 2021, n. 20384
Professionista, Avvocato, Controversia di lavoro,
Violazione dell’articolo 19 del
nuovo Codice Deontologico, Richiesta del pagamento delle competenze legali
– Giudizi disciplinari, Prescrizione
Fatti rilevanti e ragioni della
decisione
1.1. L’avv. V.I. del Foro di Campobasso deduce, con
ricorso notificato il 12.1.2021, tredici motivi di cassazione della sentenza n.
243 del 4.12.2020, notificatagli il 14.12.2020, con la quale il Consiglio
Nazionale Forense, in parziale riforma delle due sentenze (nn. 9/17 e 14/17)
emesse dal Consiglio Distrettuale di Disciplina di Campobasso all’esito di due
distinti procedimenti disciplinari poi riuniti, ha unitariamente rideterminato
nella censura le sanzioni già a lui applicate dalle suddette sentenze:
rispettivamente della censura (sent. n.9/17) e della sospensione dalla
professione per mesi tre (sent. n. 14/17).
Nel primo procedimento (sent. n. 9/17) l’avv. I.
rispondeva dei seguenti addebiti:
1. per essersi reso colpevole della violazione dell’articolo 19 del nuovo Codice
Deontologico (art.22 prev.Codice)
in quanto nel corso di un incontro presso il suo studio con tale signor L.S.,
nel richiedere a costui il pagamento delle competenze legali afferenti una
controversia di lavoro patrocinata unitamente all’avvocato D., suo
collaboratore di studio, che aveva avuto in consegna le somme avute in
pagamento delle competenze legali stesse, lasciava intendere che il medesimo
avvocato D. avesse trattenuto per sé quanto versato dal signor S. in luogo di
versarle allo studio I., come invece era stato fatto, non serbando quindi, nei
confronti del collega D. un comportamento ispirato a correttezza e lealtà. In
Termoli in epoca prossima al 1° giugno 2012;
2. per essersi reso colpevole della violazione dell’articolo 42, comma 1, del nuovo
Codice Deontologico (art.29 n.1
previg. Codice) in quanto, nelle circostanze di cui al capo 1, apostrofava
il collega D. con il termine “capra” ritenendo non corretto il comportamento
dello stesso nella gestione della pratica, denigrando così l’attività
professionale posta in essere dall’avvocato D.. in Termoli in epoca prossima al
1^ giugno 2012.
Nel secondo procedimento (sent. n. 14/17) l’avvocato
I. rispondeva dei seguenti addebiti:
1. per essersi reso colpevole della violazione degli
articoli 19 e 42 comma 1 del nuovo Codice
Deontologico (artt. 22 e 29 n.1 prev.Codice) in quanto,
nel corso di un colloquio presso il suo studio con tale signor M.A., esprimeva
apprezzamenti denigratori nei confronti dell’avvocato N.D., suo ex collaboratore
di studio, usando espressioni del tipo “ho avuto la disavventura.. di un
collaboratore che ha pensato di cercare di fare l’avvocato a spese mie … ” è
una vergogna, mi vergogno” … checchè ne voglia dire il testa di cazzo
comune”… “le bestie hanno pensato bene di portarsi tutto e di formattare ed
azzerare tutti i dati del computer”… “perché non ha fatto niente?
Perché non è in grado? “Questi due signori (avv. D. e D.) che non sono mai
andati lontani, né professionalmente né personalmente. Ok ? … ma questo che è
andato via da qui, anzi che ho buttato fuori dallo studio, lo conosco molto
bene. Non è in grado di esercitare, ok? Se non nei limiti dei decreti
ingiuntivi per sentenze che io mi sono procurato, le cazzate che si possono
fare. Quando si tratta di fare il mestiere vero.., avrebbe dovuto dimostrare le
palle che non ha, avrebbe dovuto fare un atto particolare, che non è stato in
grado di fare”… con uno che gli ho dovuto insegnare l’a b c della
professione”, rivolgendosi a tale F.”… lui era dipendente della S. e N.D. lo
ha fatto licenziare”, venendo meno così al dovere di mantenere nei
confronti di un collega un comportamento ispirato a correttezza e lealtà. In
Termoli in data 16 Aprile 2012.
2. per essersi reso colpevole della violazione dell’articolo 37, comma 1, 3, 5 del
nuovo Codice Deontologico (art.19
comma 1 e nn. II e VI del prev.Codice) in quanto, nelle circostanze di cui al capo,
induceva lo stesso M. a farsi restituire l’incartamento delle vertenze
patrocinate dall’avvocato D. offrendo alla sua, ed offrendo allo stesso M. un
rapporto di lavoro con un suo conoscente, tentando così di acquisire rapporti
di clientela in modo non conforme a correttezza e decoro. In Termoli in data 16
Aprile 2012.
1.2 Come meglio si dirà esaminando le singole
censure, nella sentenza qui impugnata il Consiglio Nazionale Forense ha
ritenuto alcuni motivi di ricorso inammissibili ed altri infondati. Ha invece
parzialmente accolto i motivi di impugnazione relativi alle sanzioni
rispettivamente comminate dalle suddette decisioni di primo grado, assumendo
congruo un trattamento sanzionatorio unitario mediante censura.
Il Procuratore Generale ha chiesto il rigetto del
ricorso, rilevando:
– l’infondatezza dei motivi aventi ad oggetto
asserite violazioni di ordine processuale ed istruttorio nell’ammissione delle
prove testimoniali e documentali (tale dovendosi considerare anche la
registrazione su CD della conversazione con la parte);
– l’inammissibilità, e comunque di nuovo
l’infondatezza, di quelle censure invece riguardanti la valutazione della
prova, ovvero la natura ed adeguatezza della sanzione inflitta;
– l’infondatezza anche dei motivi con i quali il ricorrente
ha inteso far valere l’intervenuta prescrizione dell’illecito e la nullità
della sentenza per mancato rinvio dell’udienza di comparizione pur in presenza
di impedimento assoluto.
Fissato all’udienza pubblica dell’ 8 giugno 2021, il
ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina
dettata dal sopravvenuto art. 23,
comma 8-bis, del decreto-legge n. 137 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, senza
l’intervento in presenza fisica del Procuratore Generale e dei difensori delle
parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione
orale.
2.1 Con il primo ed il secondo motivo di ricorso
l’avv. I. lamenta – ex art.360, 1^ co. n. 3 e n. 5
cod.proc.civ. – violazione e falsa applicazione dell’art.56, co. 3, I. professionale
247/12, nonché omesso esame e carenza assoluta di motivazione su un fatto
decisivo. Per non avere il Consiglio Nazionale Forense rilevato l’avvenuta
prescrizione dell’azione disciplinare (eccezione dedotta a verbale dell’udienza
di discussione) per inutile decorso del termine massimo di sette anni e sei mesi
dalla consumazione dei fatti contestati (aprile 2012), termine qui applicabile
perché la notifica del capo di incolpazione era avvenuta (29 giugno 2016)
successivamente all’entrata in vigore della suddetta – sul punto più favorevole
– legge professionale.
2.2 I due motivi di ricorso, suscettibili di
trattazione unitaria per la sostanziale identità della questione posta, sono
infondati.
La circostanza che il Consiglio Nazionale Forense
nulla abbia in effetti pronunciato in ordine alla pur eccepita prescrizione
dell’azione disciplinare non determina, di per sé, l’invalidazione della
sentenza impugnata; si tratta infatti di eccezione rilevabile anche in sede di
legittimità (Cass. SS.UU. n.28159/08) e, comunque, di omissione alla quale può
e deve rimediarsi in quest’ultima sede processuale mediante l’ applicazione –
ad una fattispecie dagli estremi temporali pacifici – di un ormai consolidato
orientamento di diritto.
Si tratta dell’indirizzo interpretativo secondo cui
la disciplina risultante dall’art.
56 della I. 247/12 oggi vigente, comportante in sostanza un termine massimo
di sette anni e sei mesi oltre il quale l’azione disciplinare si prescrive, non
opera retroattivamente, cioè con riguardo ad illeciti disciplinari realizzati
prima della sua entrata in vigore.
Questa conclusione (che ha comportato il definitivo
superamento di una diversa posizione inizialmente espressa da Cass.SSUU n.21829/15) si basa sui seguenti
fondamentali argomenti:
– il principio di retroattività della lex mitior non
riguarda il termine di prescrizione, ma solo la fattispecie incriminatrice e la
pena (tra le altre, Cass. SSUU n. 14905/15, n. 9558/18, n. 5596/20 e 14233/20 cit.);
– nello stabilire che “le norme contenute nel
codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al
momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato”,
l’art. 65 u.c. l. 247/2012
esclude che possa darsi applicazione retroattiva più favorevole al regime della
prescrizione, previsto per legge ed avente ad oggetto illeciti di natura amministrativa;
– il momento di riferimento per l’individuazione del
regime della prescrizione dell’azione disciplinare da applicare, dunque, rimane
(nel caso, qui ricorrente, di illecito punibile solo in sede disciplinare)
quello della commissione del fatto, e non quello della incolpazione (da ultimo,
Cass. SSUU n. 1609/20, n. 23746/20, n.12902/21).
Non vi è ragione per discostarsi da questo
orientamento (né i motivi di ricorso contengono utili confutazioni in tal
senso), il che induce a ravvisare la piena legittimità della pronuncia
impugnata che disattendendo, seppure in via implicita, la relativa eccezione,
si è senz’altro pronunciata nel merito della contestazione.
Va infatti considerato che gli illeciti in
questione, consumati nel 2012, ricadevano appunto sotto il regime estintivo di
cui all’art. 51 R.D. n. 1578/33
non già di quello, seppure più favorevole, dell’art. 56 l. 247/12 cit. (invece
vigente al momento dell’incolpazione, avvenuta nel 2016), sicché il termine
prescrizionale così correttamente individuato (di cinque anni, e soggetto a
varie cause di interruzione qui ricorrenti) non era spirato.
3.1 Con il terzo ed il quarto motivo di ricorso si
lamenta – ex art.360, 1^ co. nn. 3 e 5
cod.proc.civ. – violazione dell’art.54 I. 247/12 nonché omesso
esame e carenza assoluta di motivazione su un fatto decisivo. Per non avere il
Consiglio Nazionale Forense accolto il motivo di impugnazione concernente la
mancata sospensione del presente procedimento disciplinare fin visto l’esito
del procedimento penale connesso, scaturito dalla querela che l’avvocato I.
aveva presentato, per calunnia e diffamazione, a carico del teste S..
Contrariamente a quanto affermato dal Consiglio Nazionale Forense, la
sospensione in questione doveva ritenersi “indispensabile” ex art.54 cit. in ragione sia della
identità dei fatti di rilevanza penale e disciplinare, sia della necessità di
verificare in sede penale perché lo S. avesse riferito dell’epiteto a carico
dell’avvocato D. solo in un secondo momento, per giunta sottraendosi al
confronto in contraddittorio avanti al giudice di primo grado.
3.2 I due motivi di ricorso, anche questi
suscettibili di trattazione unitaria per la sostanziale identità della
questione posta, sono infondati.
Sul punto la sentenza impugnata ha osservato che il
procedimento disciplinare può essere sospeso, in pendenza di procedimento
penale connesso, solo se ciò sia ritenuto indispensabile, dovendosi altrimenti
operare nel senso della totale autonomia e della diversa finalizzazione dei due
procedimenti.
Questa affermazione deve ritenersi corretta in
diritto, posto che la vigente disciplina di cui all’articolo 54 l. 247/12 (norma,
questa, di natura processuale e qui applicabile in quanto già vigente al
momento dell’incolpazione e dell’instaurazione del relativo procedimento) ha
fortemente attenuato il regime della pregiudizialità penale, prevedendo
espressamente, nel primo e nel secondo comma, che il procedimento disciplinare
si “svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al
processo penale relativo agli stessi fatti” e, inoltre, che la sospensione del
primo può essere disposta solo se il giudice disciplinare ritenga
‘indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penalè. Il
regime di autonomia e separatezza trova poi ulteriore conferma nell’istituto
della riapertura del procedimento disciplinare per il sopravvenire di
determinate sentenze penali in conflitto con la decisione disciplinare, ex art.55 I. 247/12.
E’ dunque evidente come il legislatore abbia posto
la sospensione (art.54 co.
2^) in un ambito di operatività limitato ed eccezionale (anche cronologicamente
contingentato), perché derogatorio della regola generale di autonomia della
valutazione disciplinare rispetto a quella propria del giudizio penale (co.
1″). Il che spiega perché il ricorso a tale istituto sia dalla legge
subordinato ad un rigoroso vaglio di “indispensabilità” (dell’acquisizione di
atti e notizie rinvenienti dal processo penale) affidato alla discrezionalità
del giudice del merito disciplinare.
Si è in tal senso recentemente ribadito (Cass.SSUU n.7336/21) che: “in tema di
procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, l’art. 54 I. n. 247 del 2012
(applicabile dal 10 gennaio 2015) disciplina in termini di reciproca autonomia
i rapporti tra tale procedimento e quello penale avente ad oggetto gli stessi
fatti, dovendo pertanto escludersi la sospensione necessaria del primo giudizio
in attesa della definizione del secondo, anche se, in via di eccezione, può
essere disposta una sospensione facoltativa, limitata nel tempo, qualora il giudice
disciplinare ritenga indispensabile acquisire elementi di prova apprendibili
esclusivamente dal processo penale”.
Orbene, nel caso di specie il giudice del merito
(sent.pag.4) non ha ravvisato questo presupposto imprescindibile di
indispensabilità, e tale valutazione – conseguente ad una determinata
considerazione del quadro istruttorio e ad una determinata ricostruzione del
fatto, chiaramente evincibili dal contesto complessivo della motivazione e
dalla compiuta illustrazione delle fonti del convincimento di colpevolezza;
– ha natura discrezionale, non sindacabile in sede
di legittimità.
Da questo punto di vista i due motivi in esame
risultano anzi finanche inammissibili nella parte in cui intendono sollecitare
questa Corte ad una diversa delibazione del quadro istruttorio e delle ragioni
che – essenzialmente attraverso una diversa opinione di globale inattendibilità
dello S. – avrebbero invece asseritamente dovuto imporre la sospensione fin
visto l’esito del procedimento penale; quest’ultimo peraltro avviato non già a
carico del ricorrente per i medesimi fatti qui addebitatigli, ma dello stesso
S. su denuncia del primo.
4.1 Con il quinto motivo di ricorso (addebiti di cui
in sentenza n.9/17) si deduce violazione e falsa applicazione degli articoli
10, 16, 17, 18, 23 comma 1 lettera c) del Regolamento Consiglio Nazionale
Forense n. 2 del 21 febbraio 2014, nonché degli articoli
191, 178 e 179
codice procedura penale. Per non avere il Consiglio Nazionale Forense
accolto l’eccezione difensiva (erroneamente ritenuta tardiva) di
inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo S. al consigliere istruttore il
20 ottobre 2016, cioè dopo che l’incolpato aveva già presentato la sua memoria
con allegati (14 ottobre 2016). Diversamente da quanto sostenuto nella sentenza
qui impugnata, questa eccezione di inutilizzabilità era stata tempestivamente
dedotta dall’avvocato I. all’udienza 7.4.2017 avanti al Consiglio Distrettuale
di Disciplina allorquando, preso atto della mancata comparizione dello S., si
ebbe formale contezza della acquisizione delle dichiarazioni dal medesimo rese
avanti al consigliere istruttore (altrimenti destinate a rimanere lettera morta
perché superate dalla deposizione dibattimentale). Si trattava, del resto, di
eccezione di nullità rilevabile in ogni stato e grado del giudizio perché di
natura assoluta, non relativa, in quanto incidente sull’esercizio dell’azione e
del diritto di difesa (artt.178-179 cpp).
4.2 Il motivo è destituito di fondamento.
Sul punto il Consiglio Nazionale Forense ha escluso
(sent.pag.5) la dedotta nullitàinutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo
S. al Consigliere Istruttore, per un verso rilevando la tardività della
relativa eccezione (opposta solo nella fase dibattimentale) e, per altro,
comunque facendo propria la valutazione sul punto già offerta dal Consiglio
Distrettuale di Disciplina (nel senso che le dichiarazioni così rese dal teste
non avrebbero comunque aggiunto nulla a quanto già acquisito documentalmente in
atti).
Va in proposito osservato, ad escludere la dedotta
violazione normativa, che il procedimento disciplinare nei confronti di
avvocati (art.10 Reg.CNF n.2/14) ha natura amministrativa rispondendo ai
principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’azione
amministrativa (art.97 Cost.) e ciò va detto, a
fortiori, per la fase preprocedimentale condotta dal consigliere istruttore ex art.58 I. 247/12. La legge (co.
2^ art.58 cit.) non prevede
che, in questa fase, le osservazioni richieste dal consigliere istruttore
all’indagato (da presentarsi entro 30 giorni dalla comunicazione) debbano
essere necessariamente (cioè a pena di nullità) depositate dopo gli
accertamenti istruttori (da effettuarsi nel termine di sei mesi dall’iscrizione
della notizia di illecito nell’apposito registro).
Dal che emerge come le osservazioni difensive
demandate all’avvocato svolgano un ruolo prettamente informativo e preliminare
volto, tra l’altro, proprio ad indirizzare e mirare i successivi accertamenti
istruttori preliminari.
Su questo presupposto non poteva dunque ravvisarsi
alcuna violazione processuale comportante la paventata “anomala sequenza
procedimentale” la quale – ad ogni modo, e se davvero sussistente – avrebbe
dovuto essere eccepita nel primo atto difensivo successivo alla sua
riscontrabilità, e non nella successiva fase dibattimentale alla stregua di una
(inesistente) nullità assoluta. E ciò indipendentemente dal fatto che solo in
quest’ultima fase potesse emergere la necessità di acquisizione delle
dichiarazioni rese dallo S. al Consigliere Istruttore, in quanto non comparso
avanti al Consiglio Distrettuale di Disciplina.
Il motivo di ricorso in esame appare poi lacunoso
sia nella parte in cui denuncia apoditticamente la nullità della sentenza senza
specificare sotto quale profilo la sequenza istruttoria della fase preliminare
qui seguita avrebbe determinato una effettiva lesione del diritto di difesa,
essendo pacifico che l’avvocato I. sia stato sottoposto ad un procedimento
disciplinare rispondente ai requisiti di cui all’articolo 59 I. 247/12, e sia
stato ammesso a svolgere piena difesa nel corso del procedimento stesso anche
nel contraddire a quanto dichiarato dal teste nella fase preliminare; sia nella
parte in cui non si confronta con la (ulteriore ed autosufficiente) ratio di
infondatezza dell’eccezione, così come recepita dal Consiglio Nazionale Forense
per relationem a quanto sul punto già considerato dal Consiglio Distrettuale di
Disciplina.
5.1 Con il sesto motivo di ricorso (addebiti di cui
in sentenza n. 14/17) si lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo
10 del regolamento Consiglio Nazionale Forense n.2/2014 cit., nonché degli articoli 190, 493
e 495 cpp.
Per avere il Consiglio Nazionale Forense
erroneamente respinto l’eccezione di nullità del procedimento perché il
Consiglio Distrettuale di Disciplina, richiesto il 24.3.2017 dell’ ammissione di
prove a difesa e di non ammissione della deposizione del teste M., non aveva
deciso nell’immediatezza ma soltanto all’ esito dell’istruttoria dibattimentale
(ud. 7.4.2017), mediante una “riserva all’esito del dibattimento” non
prevista dalla normativa e determinante uno sviamento valutativo della prova.
Con il settimo motivo di ricorso (addebiti di cui in
sentenza n. 14/17) si deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 10
del suddetto regolamento Consiglio Nazionale Forense nonché violazione degli articoli 468 co.4^, 495
co. 2^ e 603 cpp sulla prova contraria. Per
avere la sentenza qui impugnata, come già quelle del Consiglio Distrettuale di
Disciplina, alterato l’ordine delle decisioni sulla prova, ed inoltre
erroneamente ritenuto che l’avvocato I. fosse decaduto dall’istanza di
ammissione di prova contraria (deposizioni testimoniali V.F. e T., idonee a
smentire il teste d’accusa M.) per mancato deposito della relativa lista e
conseguente mancata indicazione delle circostanze di prova, nonostante che
queste incombenze fossero necessarie solo in materia di prova positiva ovvero
di prova contraria su contenuti innovativi.
5.2 I due motivi, unificabili perché entrambi
concernenti le modalità ed il contenuto delle decisioni sull’acquisizione
probatoria contraria, sono infondati.
Sul punto il Consiglio Nazionale Forense
(sent.pag.5) ha osservato come legittimamente il Consiglio Distrettuale di
Disciplina si fosse riservato di decidere in merito alle richieste ed alle
eccezioni avanzate dalla difesa all’udienza dibattimentale del 24 marzo 2017,
sciogliendo quindi la riserva nella successiva udienza del 7 aprile 2017
mediante ordinanza dedicata. Quanto alla mancata ammissione delle istanze di
prova contraria, ha ritenuto il giudice di merito che si trattasse di istanze
manifestamente superflue ed irrilevanti: “la prova contraria incontra tale
limite alla sua ammissione, come da consolidata giurisprudenza di legittimità
(si veda a titolo esemplificativo Cass.pen. n.31883/16). Quanto affermato dal
teste M. viene confermato dalla registrazione prodotta e la prova contraria
richiesta non è volta ad una contestazione del contenuto della conversazione,
bensì al solo giudizio di attendibilità e credibilità delle dichiarazioni del
teste che, come detto, trovano ampia conferma nella registrazione. Per tali
motivi quindi la richiesta di controprova deve considerarsi superflua ed
irrilevante, atteso che tali testimoni nessun contributo avrebbero potuto
apportare al procedimento”. Quanto così deciso non si presta a censura di
violazione della disciplina processuale, dal momento che la decisione
dibattimentale sulla prova contraria non escludeva l’assunzione a riserva della
relativa istanza al fine della valutazione complessiva del quadro istruttorio
fino a quel momento già conseguito. Si è in proposito stabilito (Cass.pen.n.
34352/09) che “non è ravvisabile alcun termine perentorio per Io
scioglimento della riserva da parte del giudice (riserva che va evidentemente
sciolta quantomeno con la decisione finale); né, ovviamente, stante il
principio di tassatività delle nullità, è rinvenibile nel codice di rito alcuna
sanzione di tal genere, come preteso dal ricorrente”. Nessuna preclusione
in tal senso era poi desumibile dagli artt.10 e 22 Reg.CNF n.2/14 cit..
Va inoltre considerato, quanto al fondo della
decisione istruttoria, che il giudice disciplinare era comunque chiamato ad una
valutazione (oltre che di ammissibilità sotto il profilo della specificità
della deduzione e capitolazione delle circostanze da provare), di rilevanza
ovvero pertinenza della prova dedotta, e questa valutazione è stata in effetti
compiuta con esiti certamente qui non rivedibili.
Nella concretezza del caso il Consiglio Nazionale
Forense argomenta, come detto, le ragioni della mancata ammissione dei testi
dedotti a prova contraria dalla difesa, in quanto chiamati ad un giudizio di
globale inattendibilità del teste M. nonostante che quanto da quest’ultimo riferito
trovasse conferma – ritenuta oggettiva e dirimente – nella registrazione della
conversazione. Deve dunque farsi applicazione dei noti ed invalicabili limiti
di sindacato fattuale e probatorio in sede di legittimità (anche qui
applicabili, a maggior ragione a fronte di censure di mera violazione
normativa) e, in particolare, del principio di diritto secondo cui (Cass.SSUU n. 21948/15), in tema di procedimento
disciplinare a carico di avvocati, il giudice “ha il potere di valutare la
convenienza a procedere all’esame di tutti o di parte dei testimoni ammessi, e,
quindi, di revocare l’ordinanza ammissiva e di dichiarare chiusa la prova,
quando ritenga superflua la loro ulteriore assunzione perché in possesso,
attraverso la valutazione delle risultanze acquisite, di elementi sufficienti a
determinare l’accertamento completo dei fatti da giudicare”.
6.1 Con l’ ottavo motivo di ricorso (addebiti di cui
in sentenza n. 14/17) si lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo
10, co. 4^, del regolamento Consiglio Nazionale Forense, nonché degli articoli 190, 191,
493, 495, 112 seguenti, 234 cpp,
8 legge 48/08. Per avere la
sentenza qui impugnata erroneamente negato il diritto della difesa di
contestare le modalità di acquisizione del mezzo di prova, senza al tempo
stesso contestarne il contenuto probatorio. Ciò, nonostante che la difesa
avesse per varie ragioni contestato (memoria 13 ottobre 2016; audizione del 14
ottobre 2016;
successive istanze di revoca dell’ammissione) anche
il contenuto della prova, nella specie rappresentata da un compact disc (CD)
che asseritamente riproduceva la conversazione registrata con un
microregistratore.
Con il nono motivo di ricorso (addebiti di cui in
sentenza n. 14/17) si deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 4, 5, 23 decreto legislativo 196 del 2003
vigente ratione temporis, 14 Costituzione e 103 cpp; si deduce inoltre nullità della sentenza
impugnata per motivazione apparente, in quanto meramente recettiva, sul punto,
di ciò che era già stato affermato dal Consiglio Distrettuale dì Disciplina. In
particolare, erroneamente il Consiglio Nazionale Forense non aveva accolto
l’eccezione di inutilizzabilità della registrazione riportata sul CD,
nonostante che si trattasse di una registrazione ambientale in luogo aperto ad
altri soggetti, concernente dati personali oggetto di privacy, eseguita in
violazione del diritto di difesa e del domicilio privato quale certamente
doveva considerarsi lo studio legale.
6.2 I due motivi – anch’essi unificabili perché
entrambi concernenti la violazione delle norme sull’utilizzabilità probatoria
delle dichiarazioni registrate e riversate su CD
– sono infondati.
In ambito penale, il regime di riferimento in
materia di registrazione tra presenti si è formato a partire da Cass.SSUU pen.
n.36747/03 (imp.Torcasio), secondo cui: “le intercettazioni regolate dagli
artt. 266 e segg. cod. proc. pen. consistono
nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra
due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escludere altri e con
modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla
stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele
ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato. Ne consegue che
la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante
strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o
comunque sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita
clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma costituisce forma di
memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre
legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione
dell’art. 234 cod. proc. pen., salvi gli
eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si
fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che
vi partecipa”.
Si tratta di indirizzo, volto a distinguere e
sottrarre la registrazione fonografica di conversazioni o comunicazioni tra
presenti alla disciplina autorizzativa ed esecutiva propria delle
intercettazioni ex artt.266 segg. cod.proc.pen.,
innumerevoli volte ribadito e specificato dalla giurisprudenza successiva, nel
senso che:
– essa è utilizzabile nei confronti dell’imputato
come prova documentale rappresentativa di un fatto storico, “a condizione
che l’autore abbia effettivamente e continuativamente partecipato o assistito
alla conversazione registrata”, e sempre fatta salva la sua valutazione di
affidabilità (Cass.pen.n. 13810/19 ed altre);
– qualora sia certa la sua realizzazione da parte di
uno dei partecipanti o comunque legittimati ad assistere al colloquio, è
escluso che la registrazione fonografica sia lesiva dei diritti fondamentali
dell’individuo costituzionalmente tutelati, così da porsi in violazione del
divieto previsto dall’art. 191, comma 1, cod. proc.
pen. (Cass.pen n. 5782/19);
– se effettuata da uno dei partecipanti al colloquio,
l’efficacia probatoria è attribuibile alla registrazione fonografica in sé,
costituendo la sua trascrizione la mera trasposizione del contenuto del
supporto magnetico che la contiene e supporta (Cass.pen. n. 4287/15; n.
50986/16 ed altre);
– essa, se effettuata tra presenti e d’iniziativa di
uno dei partecipi al colloquio, costituisce prova documentale utilizzabile in
dibattimento ex art. 234 cod.proc.pen., e non
intercettazione “ambientale” soggetta alla disciplina degli artt. 266 e ss. cod. proc. pen., anche quando
avvenga su impulso della polizia giudiziaria e/o con strumenti forniti da
quest’ultima “con la specifica finalità di precostituire una prova da far
valere in giudizio” (Cass.pen.n. 12347/21; n.
3851/16 ed altre);
– l’utilizzabilità è consentita anche quando la
registrazione “avvenga in sede di audizione nel procedimento disciplinare
ad opera di uno dei partecipanti, senza il consenso dell’interessato,
trattandosi di dati trattati per finalità di giustizia, quale precostituzione
di un mezzo di prova per la tutela di un proprio diritto in vista di un
eventuale futuro procedimento giurisdizionale” (Cass.pen.n. 41421/18).
Va ancora osservato che, diversamente da quanto
sostenuto dal ricorrente – il quale non si fa minimamente carico di questi
consolidati indirizzi – l’utilizzo processuale della fonoregistrazione non è
precluso dal c.d. Codice Privacy (d.lgs 196/93), se si tratti di “far valere
o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati
esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al
loro perseguimento” (art.13, co.5, lett.b ed art.26, co. 4^ lett.c).
A completamento del tema, si osserva poi che la
registrazione fonografica di un colloquio tra presenti rientra nel genus delle
riproduzioni meccaniche ex art.2712 cod.civ.,
così da costituire ammissibile mezzo di prova anche nel processo civile. Si è
in particolare osservato (Cass.n. 1250/18; v. anche Cass.n.
2117/11) che ad essa può essere ricondotta efficacia probante “se
colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la
conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante
dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si
svolge, sia parte in causa”. Proprio in quanto mezzo documentale
riproduttivo di una determinata realtà fattuale, il suo formale disconoscimento
deve avvenire – come per regola generale – in modo “chiaro, circostanziato
ed esplicito, e concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non
corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta” (ivi).
Orbene, tutto ciò premesso, va osservato che nella
sentenza impugnata il Consiglio Nazionale Forense argomenta sia sulla
legittimità in sé della prova mediante registrazione, sia sulla sua
utilizzabilità e concludenza dimostrativa (“vicenda Marini”) anche a fronte
dell’assenza di un disconoscimento specifico e mirato, da parte dell’incolpato,
sul suo contenuto effettivo.
Sul punto il Consiglio Nazionale Forense
(sent.pag.5) ha osservato che l’utilizzabilità delle registrazioni fonografiche
doveva ritenersi esclusa “solo ove la parte contro la quale sono prodotti
(non) contesti i fatti in modo chiaro, circostanziato ed esplicito e producendo
documenti, prove, da cui emerga la non corrispondenza tra la realtà fattuale e
quella riprodotta (…).
Nel caso di specie l’incolpato si è limitato ad una
mera richiesta di inutilizzabilità, senza addurre motivazioni come richieste da
costante orientamento giurisprudenziale domestico. Con riguardo invece alla
censura relativa al fatto per cui la registrazione sia avvenuta all’interno di
uno studio legale, questo CNF ritiene di richiamare interamente la motivazione
addotta dal Consiglio Distrettuale di Disciplina”.
Il convincimento del Consiglio Nazionale Forense è
dunque chiaro:
– nell’escludere che l’incolpato avesse contestato
l’obiettiva storicità del fatto rappresentato dalla conversazione registrata e
dal suo contenuto sostanziale, incentrato sulla denigrazione disciplinarmente
rilevante del collega avv.D. (va detto, anche se questa evenienza non sarebbe
comunque qui rilevante, che di tale contestazione non vi è traccia neppure nel
ricorso per cassazione);
– nell’escludere l’efficacia di un disconoscimento
generico e puramente estrinseco di utilizzabilità processuale del documento, a
fronte della ravvisata legittimità (come già ritenuta anche dal primo giudice)
della sua formazione e produzione in giudizio.
Si tratta di un ragionamento che le doglianze in
esame non sono in grado di sovvertire:
– non come violazione di legge ex art.360, co. 1^ n.3, cod.proc.civ., sia perché la
registrazione in questione, riportata nel CD, rientrava nei parametri generali
di utilizzabilità documentale, come detto prescritti dall’ordinamento, sia
perché conforme alla legge processuale è stata anche la valutazione
(prettamente di merito) del Consiglio Nazionale Forense circa la irrilevanza ed
aspecificità del suo disconoscimento da parte dell’interessato;
– non come violazione dell’obbligo motivazionale –
ex art.360, co. 1^ nn.4 e 5, cod.proc.civ. –
dal momento che il giudice di merito ha specificamente esaminato il fatto
documentato dalla registrazione, illustrando – seppur succintamente – le
ragioni per cui ha ritenuto di poterlo (doverlo) porre a base preminente del
proprio convincimento di colpevolezza disciplinare, come già ritenuto dal primo
giudice.
7.1 Con il decimo motivo di ricorso (addebiti di cui
in sentenza n. 14/17) ci si duole della violazione e falsa applicazione degli
artt. 10 e 22 del citato Regolamento Consiglio Nazionale Forense, nonché 190 cpp. Per avere la sentenza qui impugnata
respinto il motivo di impugnazione concernente la mancata ammissione da parte
del Consiglio Distrettuale di Disciplina di una produzione documentale
(richiesta con memoria 15 maggio 2017) avente ad oggetto una PEC e lettera
raccomandata inviata il 20 marzo 2012 dall’avvocato I. al collega avvocato D.,
e materialmente ricevuta dal M. in quanto collaboratore di quest’ultimo. Si
trattava di circostanza che denotava la non rispondenza al vero di quanto dal
M. affermato circa l’insussistenza di qualsivoglia rapporto di collaborazione
tra lui e lo stesso avvocato D.
La mancata ammissione della prova, per giunta con
motivazione apodittica, ledeva il diritto alla produzione documentale, nella
specie concernente un elemento istruttorio non inconferente ma idoneo a
denotare l’inconsistenza dell’accusa basata sui fatti riportati dal M.
7.2 II motivo è infondato.
Sul punto il Consiglio Nazionale Forense (sent.
pag.5-6) ha ritenuto inammissibile, e comunque infondato, il corrispondente
motivo di gravame, “poiché si vuole censurare il potere del Consiglio
Distrettuale di Disciplina di operare una valutazione in relazione alle prove
presentate. Secondo l’orientamento giurisprudenziale domestico il giudice della
deontologia ha un ampio potere discrezionale nel valutare la rilevanza e la
conferenza delle prove dedotte (…)”.
Questa affermazione, corretta in diritto, va
riguardata nella concretezza di un caso in cui il convincimento di merito sulla
colpevolezza disciplinare dell’incolpato per i capi in esame si è formato
essenzialmente sulla base della registrazione di una conversazione che il
Consiglio Nazionale Forense ha ritenuto probante, sia in sé sia perché non
specificamente contestata né disconosciuta nel suo contenuto oggettivo ed
intrinseco.
A fronte di tale convincimento non vi sono elementi
(né il motivo di ricorso li deduce) per ritenere che la pretermissione del
documento in questione – ancora una volta concernente non il contenuto in sé della
conversazione registrata ma la globale attendibilità del M., segnatamente là
dove questi aveva negato di fungere da collaboratore dell’avv. D., pur
ritirandone la posta – abbia sviato il giudizio di merito in termini di
assoluta concludenza, risolutività e decisività (v. Cass. pen. n. 27929/19, ed
altre, sulla rilevanza invalidante dell’omessa valutazione di una prova solo
nel caso di decisività di questa ai fini della pronuncia).
Per il resto, la doglianza – palesandosi in questa
parte senz’altro inammissibile – sollecita il richiamo al costante indirizzo (Cass.SSUU n.34476/19) per cui: “È
inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del
vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di
motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in
realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito.
(Principio affermato dalla S.C. con riferimento ad un motivo di ricorso che, pur
prospettando l’omesso esame di risultanze probatorie, in realtà tendeva ad una
diversa ricostruzione del merito degli accadimenti dai quali era originata la
condanna disciplinare di un avvocato).
8.1 Con l’undicesimo motivo (addebiti di cui in
sentenza n. 14/17) si lamenta nullità della sentenza per motivazione apparente,
e comunque omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, 1^ co. nn. 4 e 5 cod.proc.civ.).
Per non avere il Consiglio Forense rilevato l’omessa
valutazione da parte del Consiglio Distrettuale di Disciplina dell’istanza
difensiva di istruttoria integrativa (formulata in memoria 2 giugno 2017)
avente ad oggetto l’audizione dei testi avvocato V.F. e sig.ra T.
8.2 Il motivo è per più versi inammissibile.
In primo luogo, esso non esplicita la decisività
della prova testimoniale pretermessa in rapporto ai fatti di causa, il che
preclude a questa Corte ogni controllo di legittimità dell’operato del giudice
di merito, e persino di appurare se la mancata pronuncia in proposito (come già
osservato, appunto rilevante solo se incidente su aspetto dirimente di causa)
sia in effetti dipesa dall’obliterazione dell’elemento istruttorio o piuttosto
dall’implicito rigetto dell’istanza di sua ammissione proprio per difetto di
pertinenza e diretta o indiretta incidenza sul tema di prova e decisione.
In secondo luogo, vale anche in materia quanto già
osservato (Cass.SSUU n.21948/15) in ordine
all’esercizio dei poteri valutativi da parte del giudice del merito
disciplinare avvocati circa l’opportunità di procedere all’esame di tutti o di
parte soltanto dei testimoni ed anche, se del caso, di dichiarare senz’altro
chiusa la prova allorquando egli ritenga superflua l’ulteriore assunzione per
essere già stato compiutamente ed esaurientemente ricostruito il fatto da
provare.
In terzo luogo, la doglianza non potrebbe trovare
accoglimento neppure se in ipotesi rivolta a far valere il mancato esercizio di
una potestà istruttoria integrativa (art.507 cpp,
art.22 lett.d) Reg.CNF n. 2/14 cit.), vertendosi comunque di un potere di
natura discrezionale anch’esso bilanciato sul requisito di rilevanza
dimostrativa ed il cui esercizio o mancato esercizio da parte del giudice di
merito non è sindacabile in sede di legittimità.
9.1 Con il dodicesimo motivo di ricorso (addebiti di
cui in sentenze nn. 9/17 e 14/17) viene dedotta la violazione e falsa
applicazione delle medesime disposizioni del regolamento Consiglio Nazionale
Forense nonché degli articoli 24 Cost. e 420 ter cpp.
Per avere la sentenza del Consiglio Nazionale
Forense respinto il motivo di impugnazione concernente il legittimo impedimento
dell’avvocato I. a presenziare all’udienza del 18 maggio 2017 (preposta
all’esame dell’ incolpato ed all’ascolto della registrazione), nonostante che
tale legittimo impedimento andasse invece affermato. Esso si doveva infatti
riguardare non nel senso della assoluta impossibilità a comparire all’udienza,
quanto alla impossibilità di partecipare attivamente ed efficacemente ad essa;
evenienza, quest’ultima, che di certo nella specie si verificava, risultando
dal certificato medico allegato l’esistenza di una patologia limitativa fisica
della funzione del “parlare” aggravata dallo stato febbrile
(“faringo-laringite, stato febbrile, riposo per tre giorni”).
9.2 Il motivo è inammissibile.
Per quanto riguarda l’affermata nullità del
procedimento e della sentenza per violazione del diritto di difesa, si ritiene
opportuno premettere il consolidato indirizzo di legittimità (anche
recentemente ribadito) sull’impedimento a partecipare all’udienza disciplinare,
i cui passaggi fondamentali possono così riassumersi (v. Cass. SS.UU. civ. nn.
8777/21; 5596/20; 24377/20; 15607/01 ed altre;
nonché Cass. SSUU pen. n. 36635/05, Cass.pen.nn.15407/20;
11460/18 ed innumerevoli altre):
– la partecipazione all’udienza costituisce una
libera scelta dell’incolpato, mentre la mancata partecipazione comporta una
lesione del suo diritto di difesa solo se determinata da un impedimento a
comparire dalle caratteristiche tali da non risolversi in una mera difficoltà
di presenziare all’udienza nella data stabilita, bensì in una situazione
impedítiva di natura cogente ed assoluta;
– è vero che in applicazione della norma di
riferimento qui applicabile – l’art.420 ter c.p.p.-
il requisito legale dell'”assoluta impossibilità di comparire per caso
fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento” non concerne
soltanto la capacità di recarsi fisicamente in udienza, ma anche quella di
parteciparvi dignitosamente ed attivamente per l’esercizio del diritto
costituzionale di difesa;
– cionondimeno, anche al fine di garantire il
necessario bilanciamento con il principio di ragionevole durata del processo,
la condizione ostativa così delineata non può derivare in via automatica
dall’esistenza di una patologia più o meno invalidante, dovendo questa essere
vagliata dal giudice di merito (con esiti certamente non rivedibili in sede di
legittimità se congruamente motivati) sotto il profilo di una impossibilità
effettiva ed assoluta (oltre che non ascrivibile al soggetto) perché non
dominabile né contenibile secondo parametri di normale esigibilità.
Ciò posto, il Consiglio Nazionale Forense
(sent.pag.6) ha osservato che il motivo era inammissibile e comunque infondato
perché “lo stato di salute in cui versava l’ incolpato non emergeva dal
certificato presentato come un impedimento di tipo assoluto”. Si tratta di
valutazione fattuale qui insindacabile, e non irragionevolmente incentrata
sull’obiettiva genericità e lacunosità del certificato medico allegato, dal
quale non era dato evincere elementi fondamentali di valutazione quali, ad
esempio, il grado della febbre, la possibilità di farvi fronte con i farmaci
normalmente in uso negli stati febbrili meno severi e non complicati da
rilevanti patologie, l’incidenza debilitante ed impeditiva alla presenza in
udienza, nel maggio 2017, della faringo-laringite.
Nella considerazione del giudice di merito, in
definitiva, tutto ciò si è risolto nel disconoscimento non già dello stato di
malattia in sé, bensì della sua ostatività processualmente rilevante, in quanto
integrante – come detto – un impedimento cogente, assoluto e non superabile con
modalità di normale esigibilità.
Tutto ciò considerato, la censura si risolve – anche
sotto questo profilo – nell’inammissibilmente contrapporre, a quella resa dal
giudice del merito, una diversa valutazione del quadro prettamente fattuale di
riferimento.
10.1 Dopo aver ritenuto “utile” riportare le censure
di merito mosse alla decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina “al
fine di valutare i proposti motivi di Cassazione” (così in ricorso, pagg.35
segg.), il ricorrente formula, in via di subordine, un ulteriore motivo di
ricorso per cassazione (pag.52) per violazione e falsa applicazione degli articoli 21 e 22 del codice
deontologico, attesa la mancanza di adeguatezza e proporzionalità della
sanzione unitariamente applicata dal Consiglio Nazionale Forense (censura).
L’assenza di precedenti contestazioni disciplinari, l’onorato esercizio per
oltre 25 anni della professione di avvocato cassazionista, il contesto nel
quale la vicenda era maturata, l’inesistenza di qualsivoglia prospettiva di
reiterazione di fatti analoghi, l’assenza di ogni pregiudizio per i clienti M.
e S., così come di alcun pregiudizio effettivo per l’immagine dell’avvocato D.,
costituivano – tutti – elementi per l’applicazione di una sanzione inferiore
alla censura, e consistente nell’avvertimento ai sensi dell’articolo 22 lettera a) del
codice deontologico.
10.2 Il motivo è inammissibile.
Sulla unificazione nella censura delle due sanzioni
già inflitte dal Consiglio Distrettuale di Disciplina nei separati
procedimenti, ha osservato il Consiglio Nazionale Forense (sent. pag.6) che ciò
si rendeva opportuno in ragione del contesto di forte contrapposizione
professionale tra l’avvocato I. e l’avvocato D. nel quale era maturata l’intera
vicenda, dell’episodicità dell’accaduto, della mancata percezione delle
condotte da parte di altri operatori dello studio professionale e, infine,
della circostanza che il teste M. (colui che aveva riferito all’avvocato D. lo
sfogo dell’incolpato) si fosse appositamente munito di un registratore nel
corso del colloquio con quest’ultimo, così da gettare “una luce a dir poco
particolare sull’intera vicenda” (ivi).
In presenza di questa motivazione – già orientata a
mitigare il trattamento sanzionatorio iniziale – non vi sono i presupposti per
alcun sindacato di legittimità.
Si è in materia osservato (Cass.SSUU n. 26250/18)
che: “le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare
sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della S. C, ai sensi dell’art. 56, comma 3, del r.d.l. n. 1578
del 1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di
legge, nonché, ai sensi dell’art. 111 Cost.,
per vizio di motivazione, con la conseguenza che, salva l’ipotesi di sviamento
di potere, in cui il potere disciplinare sia usato per un fine diverso rispetto
a quello per il quale è stato conferito, l’accertamento del fatto e
l’apprezzamento della sua gravità ai fini della concreta individuazione della
condotta costituente illecito disciplinare e della valutazione dell’adeguatezza
della sanzione irrogata non può essere oggetto del controllo di legittimità, se
non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza” (così Cass.SSUU n. 28176/20); e così pure Cass.SSUU
n.1609/20, secondo cui: “in tema di procedimento disciplinare a carico
degli avvocati, la determinazione della sanzione adeguata costituisce tipico
apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità”.
Dunque, fermo restando che il trattamento applicato
non esula dalla previsione legale per gli illeciti in condanna, resta
inammissibile ogni argomento con cui, nella sostanza, si intenda qui confutare
la scelta della sanzione più opportuna e la congruità di quella in concreto
applicata.
Ne segue il rigetto del ricorso.
Nulla si provvede sulle spese, attesa la mancata
partecipazione al giudizio del Consiglio dell’Ordine intimato.
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso;
– v.to l’art.
13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;
– dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, di un ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso
principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.