Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 20 luglio 2021, n. 157
Patrocinio a spese dello Stato, Patrocinio a favore di
cittadini di Stati non appartenenti all’UE, Istanza, Certificazione
dell’autorità consolare competente circa i redditi prodotti all’estero, Impossibilità
di produrla, avendo compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria
diligenza, Possibile allegazione di dichiarazione sostitutiva, Omessa
previsione, Irragionevolezza e violazione dell’accesso effettivo alla tutela
giurisdizionale, Illegittimità costituzionale in parte qua, D.P.R. 30 maggio
2002, n. 115, art. 79, co. 2, Costituzione, artt. 3, 24, 113 e 117, primo
comma; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 47
Ritenuto in fatto
1.- Con due
ordinanze del 14 giugno 2020, identiche nella motivazione ed iscritte,
rispettivamente, ai numeri 142 e 143 reg.ord. del 2020, il Tribunale
amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione –
quest’ultimo in relazione sia all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, sia all’art. 3, comma 3, del decreto del
Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, concernente «Disposizioni
legislative in materia di documentazione amministrativa (Testo A)» – questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 79, comma 2, del decreto del Presidente
della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia
(Testo A)», nella parte in cui non prevede che, nei casi di impossibile
produzione dell’attestazione consolare, i cittadini di Stati non aderenti
all’Unione europea possano produrre «forme sostitutive di certificazione, in
analogia agli istituti previsti dall’ordinamento nazionale», qualora dimostrino
«di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza per
ottenere la prevista attestazione consolare».
2.- In punto
di fatto, il giudice rimettente riferisce di doversi pronunciare, in entrambi i
giudizi a quibus, sulla richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello
Stato di due cittadini indiani, G. S. e B. S.
Nelle due ordinanze,
il TAR Piemonte espone che le istanze di ammissione a tale beneficio erano
state avanzate dinanzi alla Commissione competente e che, a seguito della
richiesta di integrazione documentale ai sensi della norma censurata, i due
ricorrenti avevano prodotto nei rispettivi giudizi: copie del messaggio di
posta elettronica certificata e della lettera raccomandata, inviati
all’Ambasciata e al Consolato indiano in Italia, con i quali avevano richiesto
l’attestazione della veridicità di quanto dichiarato in ordine ai redditi
prodotti all’estero; nonché una autodichiarazione, con la quale ciascuno
affermava di non disporre di tali redditi e dava atto di non aver avuto
riscontro da parte dell’autorità consolare.
In ambedue i provvedimenti introduttivi del giudizio
di legittimità costituzionale, il Collegio rimettente riferisce che il giudice
delegato per i rispettivi procedimenti, visto il verbale della Commissione per
l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, rigettava le istanze, dal
momento che i ricorrenti non avevano prodotto la certificazione dell’autorità
consolare competente che, ai sensi dell’art. 79, comma 2, t.u. spese di
giustizia, avrebbe dovuto attestare la veridicità di quanto indicato
relativamente ai redditi prodotti all’estero.
Il rimettente,
infine, riferisce che i ricorrenti avevano proposto reclamo per la revoca del
decreto di esclusione dal patrocinio a spese dello Stato.
3.- In punto di rilevanza, il rimettente espone che
«una pedissequa applicazione della littera legis comporterebbe la reiezione del reclamo con conferma della
mancata ammissione al patrocinio a spese dello Stato», sicché la norma
censurata condizionerebbe la decisione sul ricorso presentato dagli istanti.
3.1.- Il giudice a quibus non ritiene, d’altro
canto, possibile un’interpretazione della disposizione costituzionalmente
orientata, in quanto non reputa praticabile l’estensione analogica dell’art.
94, comma 2, t.u. spese di giustizia, difettando sia la lacuna normativa sia
l’eadem ratio fra le due norme. In particolare, questa Corte, con la sentenza
n. 237 del 2015, avrebbe rimarcato l’intenzione del legislatore di
differenziare i regimi di accesso al patrocinio a spese dello Stato, in ragione
della diversità di interessi coinvolti nel processo penale rispetto agli altri
giudizi.
4.- Tanto premesso, e passando ad argomentare sulla
non manifesta infondatezza, il Collegio rimettente sostiene che la norma
censurata comporterebbe un irragionevole vulnus al principio di eguaglianza
nell’accesso alla tutela giurisdizionale, in quanto condizionerebbe il
beneficio del patrocinio a spese dello Stato, per i cittadini di Paesi non
aderenti all’Unione europea, al rispetto di incombenze documentali, non
sostituibili, neanche in caso di «inerzia di un soggetto pubblico terzo», «con
gli istituti di semplificazione amministrativa e decertificazione documentale,
previsti, invece, per i cittadini italiani e dell’Unione europea».
4.1.- In particolare, il giudice a quibus ritiene
che l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia priverebbe di effettività
l’art. 24 Cost., che, al terzo comma, richiede, viceversa, di assicurare ai non
abbienti, con appostiti istituti, i mezzi per agire e difendersi, onde
salvaguardare la pienezza del diritto alla tutela giurisdizionale consacrato
nel suo primo comma.
4.2.-
L’«effettività dell’accesso alla tutela giurisdizionale» – secondo il
rimettente – «sarebbe [in particolare] svuotata della propria portata
sostanziale [in quanto si farebbe gravare il rischio] dell’inerzia degli
apparati amministrativi degli uffici consolari dei Paesi non appartenenti
all’Unione europea [su] stranieri non abbienti». La disposizione violerebbe,
dunque, l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto, in
contrasto «con un naturale e immanente principio di auto-responsabilità», non
prevede «un meccanismo alternativo che consenta al richiedente di prescindere
dalla mancata collaborazione delle proprie Autorità consolari». Tale rilievo è
aggravato, secondo il giudice a quibus, dalla considerazione che alcuni
ordinamenti potrebbero finanche «disconoscere un obbligo di conclusione del
procedimento a istanza di parte».
4.3.- Il
vulnus risulterebbe, inoltre, confermato dal riferimento all’art. 113 Cost.,
secondo cui «è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli
interessi legittimi contro gli atti della pubblica amministrazione».
«L’effettività di questa tutela» – rileva il giudice a quibus in riferimento al
citato parametro costituzionale – «corre sul filo della concreta accessibilità
su un [piano] di eguaglianza sostanziale per tutti […] non tollerando
discriminazioni – dirette o indirette, de iure o de facto – fondate sullo
status civitatis».
4.4.- Parimenti, il diritto a un accesso effettivo
alla giustizia per coloro che non dispongano di sufficienti risorse troverebbe
ulteriore protezione nell’art. 117, primo comma, Cost., relativamente all’art.
47 CDFUE, secondo cui «[o]gni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti
dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo
dinanzi a un giudice, nel rispetto delle
condizioni previste nel presente articolo» (paragrafo 1); «[a] coloro che non
dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato,
qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia»
(paragrafo 3).
4.5.- Giunto alla conclusione che la norma censurata
si ponga in contrasto con i citati parametri costituzionali, il rimettente
ritiene che, onde recuperare «[l]a tenuta costituzionale» della disposizione, basterebbe
che essa «prevedesse, in via additiva, il soddisfacimento dell’onere
documentale», «tramite forme sostitutive di certificazione, in analogia agli
istituti previsti dall’ordinamento nazionale», «nei casi di impossibilità,
comprovando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria
diligenza per ottenere la prevista attestazione consolare, valutazione
quest’ultima da rimettersi al prudente apprezzamento del giudicante».
4.6.- Alla denuncia della violazione dell’art. 3
Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, che sfocia nella citata richiesta
di pronuncia additiva, si aggiunge,
ancora, la censura, sempre rispetto al medesimo parametro costituzionale, di
una irragionevole disparità di trattamento fra stranieri di diverse nazionalità,
a seconda della reattività e dell’efficienza dei rispettivi apparati
burocratici.
4.7.- Infine, il giudice a quibus rileva un «profilo
di tensione» della norma censurata in riferimento all’art. 117, primo
comma, Cost., relativamente a «tutte le
convenzioni internazionali, stipulate e stipulande dallo Stato [i]taliano, che
prevedano bilateralmente e multilateralmente l’estensione degli istituti della
decertificazione amministrativa». L’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 445 del
2000, prevede, infatti, che i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione
europea autorizzati a soggiornare nel territorio dello Stato «possono
utilizzare le dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47» dello
stesso d.P.R., nei casi in cui la produzione delle stesse avvenga in
applicazione di convenzioni internazionali fra l’Italia ed il Paese di
provenienza del dichiarante».
5.- E’
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni
vengano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
5.1.- Secondo
la difesa erariale, le questioni sarebbero inammissibili, innanzitutto, per
difetto di rilevanza, dal momento che il ricorso avverso il decreto
prefettizio, che aveva negato la conversione del permesso di soggiorno per
lavoro stagionale, è stato accolto con le sentenze n. 253 e n. 254 del 2020
dall’autorità giurisdizionale rimettente. Di conseguenza, la rilevanza non
sussisterebbe per un duplice motivo: da un lato, se il ricorrente ha ottenuto
il bene della vita a cui aspirava, ciò significa – a parere dell’Avvocatura
generale – che l’accesso alla tutela è stato pieno ed effettivo; dall’altro
lato, «se il giudice amministrativo ha deciso il ricorso in relazione al quale
era stato chiesto il gratuito patrocinio, non può, poi, con successiva
ordinanza […] sollevare questione di legittimità costituzionale».
5.2.- Una
seconda eccezione di inammissibilità riguarda il carattere manipolativo della
sentenza invocata dal rimettente, che non sarebbe praticabile nel contesto
normativo di riferimento.
L’istituto del patrocinio a spese dello Stato
rientra nella disciplina processuale, per la quale il legislatore gode di ampia
discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o
arbitrarietà delle scelte. Nell’esercizio di tale discrezionalità, il
legislatore avrebbe individuato alcune regole valide per il solo processo
penale, tra cui quella che ammette l’autodichiarazione, qualora sia impossibile
ottenere la certificazione da parte dell’autorità consolare. Nell’ottica,
dunque, della differenziazione tra distinti giudizi, tale norma, a parere
dell’Avvocatura generale, sarebbe espressione della volontà di escludere la
possibilità di autodichiarazione nei giudizi diversi da quello penale.
Di
conseguenza, nel descritto quadro normativo, risulterebbe inammissibile una
pronuncia, come quella proposta dal Collegio rimettente, connotata da un
elevato tasso di manipolatività.
6.- In ogni caso, le questioni di legittimità
costituzionale risulterebbero, a parere dell’Avvocatura, non fondate.
In relazione
ai primi due parametri evocati – gli artt. 24 e 113 Cost. – la difesa erariale
afferma che la diversa disciplina prevista dal legislatore per alcune
fattispecie, quali il processo penale (art. 94 t.u. spese di giustizia) o
quello avverso il provvedimento di espulsione (art. 142 t.u. spese di
giustizia), troverebbe giustificazione nella loro peculiarità, mentre la norma
censurata non priverebbe di effettività l’accesso alla tutela giurisdizionale,
ma realizzerebbe un indispensabile contemperamento fra contrapposti interessi,
in un sistema a risorse economiche limitate.
In riferimento all’art. 3 Cost., l’Avvocatura
generale considera che l’autocertificazione rinviene il proprio fondamento
nella disciplina di cui al d.P.R. n. 445 del 2000, ovvero nella verificabilità
d’ufficio delle dichiarazioni sostitutive di certificazione. Per il cittadino
di uno Stato che non possa invocare neppure una convenzione bilaterale con
l’Italia non sarebbe possibile un controllo di questo tipo; di conseguenza, non
sarebbe consentito autocertificare il possesso dei requisiti per l’accesso al
beneficio.
A parere dell’Avvocatura generale, infine, non
risulterebbe sviluppato adeguatamente il richiamo al parametro di cui all’art.
117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 47 CDFUE, che trova applicazione
nei soli settori ascrivibili alla competenza del diritto dell’Unione europea.
Il giudice rimettente non avrebbe, in particolare, motivato perché il diritto
che il ricorrente intendeva tutelare in sede giudiziale ricadrebbe nel raggio
di applicazione del parametro interposto, tanto più che la fattispecie – la
conversione di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro – non sembrerebbe
rientrare né nell’ambito riconducibile all’art. 15 CDFUE (Libertà professionale
e diritto di lavorare), né in quello riferibile all’art. 19 CDFUE (Protezione
in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione).
Considerato in diritto
1.- Con due ordinanze del 14 giugno 2020, identiche
nella motivazione ed iscritte, rispettivamente, ai numeri 142 e 143 reg. ord.
del 2020, il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima,
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 113 e 117, primo comma, della
Costituzione – quest’ultimo in relazione sia all’art. 47 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, sia all’art. 3,
comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445,
concernente «Disposizioni legislative in materia di documentazione
amministrativa (Testo A)» – questioni di legittimità costituzionale dell’art.
79, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n.
115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui non prevede che,
nei casi di impossibile produzione dell’attestazione consolare, i cittadini di
Stati non appartenenti all’Unione europea possano produrre «forme sostitutive
di certificazione, in analogia agli
istituti previsti dall’ordinamento nazionale», qualora dimostrino «di aver
compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza per ottenere la
prevista attestazione consolare».
1.1.- L’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia
stabilisce, infatti, che «[p]er i redditi prodotti all’estero, il cittadino di
Stati non appartenenti all’Unione europea correda l’istanza con una
certificazione dell’autorità consolare competente, che attesta la veridicità di
quanto in essa indicato».
2.- Il giudice rimettente riferisce di doversi
pronunciare, in entrambi i giudizi a quibus, sul rigetto della richiesta di
ammissione al patrocinio a spese dello Stato di due cittadini indiani, la cui
istanza era stata respinta dal giudice delegato, visto il verbale della
commissione competente, proprio in ragione della mancata presentazione della
certificazione dell’autorità consolare, richiesta dalla norma censurata.
In punto di rilevanza, il TAR Piemonte evidenzia,
pertanto, che l’applicazione di tale disposizione condiziona l’esito dei
giudizi a quibus.
3.- Secondo
il Collegio, se l’esclusione dal patrocinio a spese dello Stato di uno
straniero non abbiente, cittadino di un Paese non appartenente all’Unione
europea, «viene a dipendere dall’inerzia di un soggetto pubblico terzo, non
sopperibile […] con gli istituti di semplificazione amministrativa e
decertificazione documentale previsti, invece, per i cittadini italiani e
dell’Unione europea», si verrebbe a creare un irragionevole vulnus al principio
di eguaglianza nell’accesso alla tutela giurisdizionale.
In particolare, la norma censurata si porrebbe
irragionevolmente in contrasto con l’effettività del diritto alla tutela
giurisdizionale, violando gli artt. 3, 24, 113 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art. 47 CDFUE, poiché «svuoterebbe tale diritto]
della [sua] portata sostanziale in conseguenza dell’inerzia degli apparati
amministrativi degli uffici consolari dei Paesi non appartenenti all’Unione
europea». La disposizione, pertanto, contrasterebbe con il principio di
autoresponsabilità, riconducibile alla ragionevolezza, di cui al citato art. 3
Cost., là dove addosserebbe al richiedente le conseguenze sfavorevoli di un
comportamento a lui non riferibile.
Infine, il rimettente denuncia una irragionevole
disparità di trattamento fra cittadini di differenti Paesi non aderenti
all’Unione europea, in ragione della possibile diversa efficienza dei
rispettivi apparati burocratici, nonché – in relazione all’art. 3, comma 3, del
d.P.R. n. 445 del 2000 – una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.,
relativamente a «tutte le convenzioni internazionali, stipulate e stipulande
dallo Stato Italiano, che prevedano bilateralmente e multilateralmente
l’estensione degli istituti della decertificazione amministrativa».
4.- Secondo
il rimettente per recuperare «[la] tenuta costituzionale» della disposizione
sarebbe necessario che essa «prevedesse, in via additiva, il soddisfacimento
dell’onere documentale», tramite «forme sostitutive di certificazione, in
analogia agli istituti previsti dall’ordinamento nazionale», «nei casi di
impossibilità [ad ottenere la prevista attestazione consolare], comprovando di
aver compiuto tutto quanto esigibile secondo l’ordinaria diligenza […],
valutazione quest’ultima da rimettersi al prudente apprezzamento del
giudicante».
5.- Le due ordinanze di rimessione pongono questioni
sostanzialmente identiche in relazione alle disposizioni censurate e ai
parametri evocati: pertanto, i giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente
esaminati e decisi con un’unica sentenza.
6.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili o, comunque,
infondate.
6.1.- Con una
prima eccezione, l’Avvocatura generale fa presente che i giudizi principali,
per i quali gli istanti avevano richiesto l’accesso al patrocinio a spese dello
Stato, sono stati decisi con le sentenze n. 253 e n. 254 del 2020, dalla stessa
autorità giurisdizionale rimettente. Di conseguenza, secondo la difesa
erariale, la rilevanza non sussisterebbe, avendo i ricorrenti ottenuto il bene
della vita a cui aspiravano, il che dimostrerebbe un accesso pieno ed effettivo
alla tutela giurisdizionale. Inoltre, «se il giudice amministrativo ha deciso
il ricorso in relazione al quale era stato chiesto il gratuito patrocinio, non
può poi, con successiva ordinanza […] sollevare questione di legittimità
costituzionale», in quanto si sarebbe «spogliato del processo».
L’eccezione non è fondata. La decisione sul
patrocinio a spese dello Stato è diversa e indipendente rispetto a quella relativa
al merito della controversia, il che rende possibile una sua adozione «in ogni
tempo […] e, dunque, sia prima che la causa pervenga alla sentenza sia dopo
la pronuncia definitiva» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza
20 febbraio 2020, n. 4315, nello stesso senso anche Corte di cassazione,
sezione prima civile, ordinanza 15 novembre 2018, n. 29462).
D’altro canto, i giudizi sull’ammissione al
patrocinio a spese dello Stato incidono sull’imputazione dei costi relativi al
compenso dovuto al difensore per l’opera prestata nell’ambito del processo. Il
TAR Piemonte, con le sentenze n. 253 e n. 254 del 2020, con le quali ha deciso
le questioni relative all’annullamento del decreto prefettizio di rigetto della
domanda di conversione del permesso di soggiorno, si è riservato, non a caso,
di pronunciarsi sia sull’ammissione al patrocinio a spese dello Stato sia sulle
spese di giudizio. Non può, pertanto, ritenersi che si sia «spogliato del
processo».
Per le
ragioni esposte cade il dubbio sulla rilevanza delle questioni di legittimità
costituzionale relative all’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia, norma
che trova sicura applicazione nei giudizi a quibus, dal momento che i soggetti
istanti sono cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione europea.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’ammissibilità
delle questioni, è sufficiente che la norma impugnata sia applicabile nel
giudizio a quo (sentenze n. 253 del 2019, n. 46 e n. 5 del 2014 e n. 294 del
2011) e che la pronuncia di accoglimento possa influire «sull’esercizio della
funzione giurisdizionale, quantomeno sotto il profilo del percorso
argomentativo che sostiene la decisione del processo principale (tra le molte,
sentenza n. 28 del 2010)» (sentenza n. 20 del 2016; in senso conforme sentenza
n. 84 del 2021).
6.2.- L’Avvocatura generale ha sollevato, poi, una
seconda eccezione di inammissibilità, adducendo che il rimettente avrebbe
invocato una sentenza manipolativa non costituzionalmente obbligata in una materia
riservata alle scelte discrezionali del legislatore.
Anche questa eccezione non è fondata.
Vero è che questa Corte ha più volte ribadito che le
scelte adottate dal legislatore nel regolare l’istituto del patrocinio a spese
dello Stato sono connotate da una rilevante discrezionalità, che è doveroso
preservare (sentenza n. 47 del 2020; ordinanze n. 3 del 2020 e n. 122 del
2016).
Tuttavia, questo non sottrae tale normazione al
giudizio sulla legittimità costituzionale, in presenza di una «manifesta
irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (da ultimo, sentenze n.
97 del 2019 e n. 81 del 2017; ordinanza n. 3 del 2020)» (sentenza n. 47 del
2020), in quanto è necessario «evitare zone franche immuni dal sindacato di
legittimità costituzionale, tanto più ove siano coinvolti i diritti
fondamentali e il principio di eguaglianza, che incarna il modo di essere di
tali diritti» (sentenza n. 63 del 2021).
Deve poi
aggiungersi che la «ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
risulta […] condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione
costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o
più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto
normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (si veda, da
ultimo, la sentenza n. 252 del 2020 e in senso conforme le sentenze n. 224 del
2020; n. 99 del 2019; n. 233, n. 222 e n. 41 del 2018; n. 236 del 2016)»
(sentenza n. 63 del 2021). In tale prospettiva, onde non sovrapporre la propria
discrezionalità a quella del Parlamento, la valutazione della Corte deve essere
condotta attraverso «”precisi punti di riferimento e soluzioni già
esistenti” (ex multis, sentenze n. 224 del 2020 e n. 233 e n. 222 del
2018; n. 236 del 2016)». (sentenza n. 63 del 2021).
Nello
specifico contesto, il giudice rimettente sollecita un intervento additivo di
questa Corte, che in effetti rinviene nell’ordinamento «precisi punti di
riferimento» sia nell’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia sia nell’art.
16 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva
2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri
ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato), che
richiama espressamente il citato art. 94.
7.- Nel merito, occorre, innanzitutto, verificare se
l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia contrasti con l’art. 3 Cost., in
coordinamento con gli artt. 24 e 113 Cost., nella parte in cui non prevede che
i cittadini di Stati non aderenti all’Unione europea possano presentare «forme
sostitutive di certificazione», «comprovando di aver compiuto tutto quanto
esigibile secondo l’ordinaria diligenza per ottenere la prevista attestazione
consolare», la cui allegazione risulta, pertanto, impossibile.
8.- Le questioni sono fondate.
8.1.- La norma censurata si inquadra nell’ambito
della disciplina sul patrocinio a spese dello Stato, volto a dare attuazione
alla previsione costituzionale, secondo cui devono essere assicurati «ai non
abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione»
(art. 24, terzo comma, Cost.).
L’istituto serve, dunque, a rimuovere, in armonia
con l’art. 3, secondo comma, Cost. (sentenza n. 80 del 2020), «le difficoltà di
ordine economico che possono opporsi al concreto esercizio del diritto di
difesa» (sentenza n. 46 del 1957, di seguito citata dalla sentenza n. 149 del
1983; in senso analogo, le sentenze n. 35 del 2019, n. 175 del 1996 e n. 127
del 1979), assicurando l’effettività del diritto ad agire e a difendersi in
giudizio, che il secondo comma del medesimo art. 24 Cost. espressamente
qualifica come diritto inviolabile (sentenze n. 80 del 2020, n. 178 del 2017,
n. 101 del 2012 e n. 139 del 2010; ordinanza n. 458 del 2002).
«L’azione in giudizio per la difesa dei propri
diritti», ha osservato questa Corte, «è essa stessa il contenuto di un diritto,
protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli
inviolabili, riconducibili all’art. 2 della Costituzione […] e
caratterizzanti lo stato democratico di diritto» (sentenza n. 26 del 1999; in
senso conforme sentenze n. 238 del 2014, n. 120 del 2014 e ordinanza n. 386 del
2004). Esso è riconosciuto a tutti, dal primo comma dell’art. 24 Cost., e a
tutti spetta, com’è proprio dei diritti ascrivibili all’alveo dell’art. 2
Cost., riferito in maniera cristallina all’uomo.
8.2.- D’altro
canto, la natura inviolabile del diritto ad accedere ad una tutela effettiva,
ai sensi dell’art. 24, terzo comma, Cost., non lo sottrae al bilanciamento di
interessi che, per effetto della scarsità delle risorse, si rende necessario
rispetto alla molteplicità dei diritti che ambiscono alla medesima tutela. Questa Corte «ha sottolineato che, in tema
di patrocinio a spese dello Stato, è cruciale l’individuazione di un punto di
equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di
contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia (sentenza n. 16 del
2018)» (sentenza n. 47 del 2020).
In tale «prospettiva si spiega», prosegue la
sentenza n. 47 del 2020, «che per tutti i processi diversi da quello penale
(civile, amministrativo, contabile, tributario e di volontaria giurisdizione)
per il riconoscimento del beneficio è richiesto […] che le ragioni di chi
agisce o resiste “risultino non manifestamente infondate”», onde
evitare che i non abbienti siano indotti «a intentare cause palesemente
infondate senza dover tener conto del loro peso economico». Diversamente,
«[a]ppare giustificato [che, nel caso del processo penale, in cui l’azione
viene subita da chi aspira al patrocinio a spese dello Stato], venga assicurata
[…] una più intensa protezione, sganciando l’ammissione al beneficio de quo
da qualsiasi filtro di non manifesta infondatezza delle ragioni del soggetto
interessato» (ancora sentenza n. 47 del 2020).
Appare allora evidente la motivazione che può
rendere non irragionevole il variare di talune regole in funzione dei processi
interessati dalla richiesta di accesso al patrocinio a spese dello Stato (si
vedano, in senso analogo, anche le ordinanze n. 270 del 2012, n. 201 del 2006 e
350 del 2005, con riferimento alla liquidazione degli onorari e dei compensi ai
difensori, di cui all’art. 130, t.u. spese di giustizia, e la sentenza n. 237
del 2015, relativa alla quantificazione dei limiti di reddito, di cui all’art.
92, t.u. spese di giustizia). Non viene in considerazione un presunto diverso
rango assiologico del diritto alla tutela giurisdizionale, associato ai
differenti processi, quanto piuttosto sono le caratteristiche di questi ultimi
a poter condizionare il bilanciamento di interessi rispetto a specifiche
disposizioni. «Va da sé», ha rilevato
sempre questa Corte, «che [la] diversità fra “gli interessi civili” e
le “situazioni tutelate che sorgono per effetto dell’esercizio della
azione penale” implica non già la determinazione di una improbabile
gerarchia di valori fra gli uni e le altre, ma soltanto l’affermazione
dell’indubbia loro distinzione, tale da escludere una valida comparabilità fra istituti
che concernano ora gli uni ora le altre (in particolare, le ordinanze n. 270
del 2012; n. 201 del 2006 e n. 350 del 2005)» (sentenza n. 237 del 2015).
8.3.- Tanto
premesso, il testo unico in materia di spese di giustizia introduce, nell’art.
119, con riferimento al patrocinio a spese dello Stato nei processi civile,
amministrativo, contabile e tributario, una equiparazione al trattamento
previsto per il cittadino italiano di quello relativo allo «straniero
regolarmente soggiornante sul territorio nazionale al momento del sorgere del
rapporto o del fatto oggetto del processo da instaurare». Sennonché, a fronte di tale equiparazione,
l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia stabilisce che, per i soli cittadini
di Paesi non aderenti all’Unione europea, «i redditi prodotti all’estero
[debbano essere certificati dalla] autorità consolare competente, che attest[i]
la veridicità di quanto in essa indicato», senza contemplare alcun rimedio
all’eventuale condotta non collaborativa di tale autorità e, dunque,
all’impossibilità di produrre la relativa certificazione.
Per converso, nella disciplina riservata al processo
penale, l’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia prevede che «in caso di
impossibilità a produrre la documentazione richiesta ai sensi dell’art. 79,
comma 2, il cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea, la
sostituisce, a pena di inammissibilità, con una dichiarazione sostitutiva di
certificazione».
8.4.- Orbene, deve rilevarsi, innanzitutto, che
l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia palesa rilevanti distonie, posto
che, avvalendosi del mero criterio della cittadinanza, richiede, stando alla
sua lettera, la certificazione dell’autorità consolare competente per i redditi
prodotti all’estero solo ai cittadini di Stati non aderenti all’Unione europea
e non anche a quelli italiani o ai cittadini europei, che pure possano aver
prodotto redditi in Paesi terzi rispetto all’Unione europea; al contempo, la
medesima disposizione sembra pretendere dai cittadini degli Stati non aderenti
all’Unione europea la certificazione consolare per qualsivoglia reddito
prodotto all’estero, compresi quelli realizzati in Paesi dell’Unione.
Ma
soprattutto, anche a voler prescindere da tali anomalie, non può tacersi la
manifesta irragionevolezza che deriva dalla mancata previsione, nell’art. 79,
comma 2, t.u. spese di giustizia, per i processi civile, amministrativo,
contabile e tributario, di un meccanismo che – come, viceversa, stabilisce per
il processo penale l’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia – consenta di
reagire alla mancata collaborazione dell’autorità consolare, così bilanciando
la necessità di richiedere un più rigoroso accertamento dei redditi prodotti in
Paesi non aderenti all’Unione europea, per i quali è più complesso accertare la
veridicità di quanto dichiarato dall’istante, con l’esigenza di non addebitare
al medesimo richiedente anche il rischio dell’impossibilità di procurarsi la
specifica certificazione richiesta.
8.5.- La
distinzione tra processo penale e altri processi (civile, amministrativo,
contabile e tributario) può giustificare, dunque, – come sopra illustrato – che
vengano ritenute non irragionevoli, se correlate alle diverse caratteristiche e
implicazioni dei vari processi, talune differenziazioni nella disciplina del
patrocinio a spese dello Stato. Tuttavia, tale dicotomia non può in alcun modo
legittimare, rispetto ai parametri
costituzionali invocati, la mancata previsione di un correttivo, nell’art. 79,
comma 2, t.u. spese di giustizia, che permetta di superare l’ostacolo creato
dalla condotta omissiva, o in generale non collaborativa, dell’autorità
consolare.
8.5.1.- La disposizione censurata, infatti, in
contrasto con la ragionevolezza e con il principio di autoresponsabilità,
inficia la possibilità di un accesso effettivo alla tutela giurisdizionale,
facendo gravare sullo straniero proveniente da un Paese non aderente all’Unione
europea il rischio dell’impossibilità di produrre la sola documentazione
ritenuta necessaria, a pena di inammissibilità, per comprovare i redditi
prodotti all’estero.
Più
precisamente, la norma censurata sottende, secondo il diritto vivente, una
presunzione che lo straniero abbia redditi all’estero (si vedano Tribunale
amministrativo regionale per la Campania, sezione di Napoli, sentenze 3 maggio
2021, n. 2913, 30 aprile 2021, n. 2887, 28 aprile 2021, n. 2777; Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, sezione di Roma, sentenza 13 gennaio
2020, n. 298, decreti 22 ottobre 2018, n. 10237 e 19 luglio 2018, n. 8135;
Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, sentenza 11 ottobre 2019, n.
1350; Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 30 luglio 2020, n.
16424; con la sola eccezione della sentenza della Corte di cassazione, sezione
quarta penale, sentenza 9 febbraio 2018, n. 6529). Tale presunzione implica un
onere gravoso, specie quando la prova abbia un contenuto negativo, poiché tali
redditi in effetti non sussistono, il che può ritenersi ipotesi non rara, se è
vero che spesso è proprio lo stato di indigenza ad indurre le persone ad
emigrare. Inoltre, sempre la norma censurata consente di vincere la presunzione
solo con le forme documentali da essa previste, vale a dire con la
certificazione dell’autorità consolare competente, prescindendo dall’eventuale
esistenza di altre prove circa l’effettiva consistenza dei propri redditi
all’estero. Ma soprattutto, e questo è il profilo che palesa nella maniera più
evidente il vulnus costituzionale, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia
fa gravare sull’istante il rischio del fatto del terzo (ossia l’autorità
consolare), la cui eventuale inerzia o inadeguata collaborazione rendano
impossibile produrre tempestivamente la corretta certificazione richiesta. Questa Corte, viceversa, anche di recente ha
ribadito, relativamente alla documentazione necessaria ad accedere ai benefici dell’edilizia
residenziale pubblica, che non possono «gravare sul richiedente le conseguenze
del ritardo o delle difficoltà nell’acquisire la documentazione in parola, ciò
che la renderebbe costituzionalmente illegittima in quanto irragionevolmente
discriminatoria» (sentenza n. 9 del 2021).
Gli stessi principi sono stati, del resto, affermati
in materia di notifiche, là dove la Corte ha ritenuto «palesemente
irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un
effetto di decadenza possa discendere […] dal ritardo nel compimento di
un’attività riferibile non al medesimo notificante, ma a soggetti diversi […]
e che, perciò resta del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo»
(sentenza n. 447 del 2002, che estende a tutte le notifiche quanto già previsto
per le notifiche all’estero dalla sentenza n. 69 del 1994. Il principio
generale è stato poi ripreso dalle sentenze n. 3 del 2010, n. 318 del 2009, n.
28 del 2004 e dalle ordinanze n. 154 del 2005, n. 118 del 2005 e n. 153, n. 132
e n. 97 del 2004). In definitiva,
contrasta con gli artt. 3, 24 e 113 Cost. una previsione, come quella della
norma censurata, che fa gravare sull’istante il rischio della impossibilità di
produrre una specifica prova documentale richiesta per ottenere il godimento
del patrocinio a spese dello Stato; essa, infatti, impedisce – a chi è in una
condizione di non abbienza – l’effettività dell’accesso alla giustizia, con
conseguente sacrificio del nucleo intangibile del diritto alla tutela
giurisdizionale.
8.5.2.- Tanto considerato, risulta meritevole di
accoglimento la richiesta del rimettente di una pronuncia additiva, che eviti
il contrasto con il principio di autoresponsabilità, tramite l’aggiunta di una
previsione che già trova riscontro nella disciplina dettata dall’art. 94, comma
2, t.u. spese di giustizia, per il processo penale, nonché dall’art. 16 del
d.lgs. n. 25 del 2008, per l’impugnazione in sede giurisdizionale delle decisioni
sullo status di rifugiato, che al medesimo art. 94 si richiama. Il problema
relativo alla documentazione dei redditi prodotti in Paesi non aderenti
all’Unione europea non presenta, infatti, a ben vedere, alcuna ragionevole
correlazione con la natura dei processi, nei quali si richiede il beneficio del
patrocinio a spese dello Stato. In
linea, dunque, con le citate disposizioni, la legittimità costituzionale
dell’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia può essere ricostituita,
integrando la previsione sull’onere probatorio, con la possibilità per
l’istante di produrre, a pena di inammissibilità, una «dichiarazione
sostitutiva di certificazione» relativa ai redditi prodotti all’estero, una
volta dimostrata l’impossibilità di presentare la richiesta certificazione.
In tal modo, analogamente a quanto previsto per il
processo penale e per l’impugnazione in sede giurisdizionale dello status di
rifugiato, la disposizione censurata può essere resa conforme alla disciplina
generale che concretizza il principio di autoresponsabilità.
Tale
principio, che implica quale corollario quello secondo cui ad impossibilia nemo
tenetur, non solo esclude che si possa far gravare sull’istante il rischio
dell’impossibilità di procurarsi la documentazione consolare, ma oltretutto
impedisce di pretendere la probatio spesso diabolica del fatto oggettivo
costitutivo di un’impossibilità in termini assoluti. Questo sposta la categoria
dell’impossibilità verso una accezione relativa, che si desume in controluce
rispetto al comportamento esigibile, suscettibile cioè di essere preteso in
base alla regola di correttezza, nella misura dell’impegno derivante dal canone
di diligenza: l’impossibilità relativa inizia (ed è implicitamente dimostrata)
là dove finisce il comportamento esigibile (ex fide bona e) secondo diligenza
(in termini simili sentenza n. 9 del 2021).
Non a caso,
anche nell’interpretazione che dell’art. 94, comma 2, t.u. spese di giustizia
offre la Corte di cassazione, il cittadino di Paesi non aderenti all’Unione
europea non deve provare un’impossibilità in senso assoluto di avvalersi
dell’autocertificazione, ma è sufficiente che dimostri un’impossibilità in
senso relativo, desumibile in via presuntiva dalla circostanza che «il
richiedente si sia utilmente e tempestivamente attivato per ottenere le
previste certificazioni» (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza
26 maggio 2009, n. 21999). La prova dell’impossibilità assoluta viene, infatti,
ritenuta «di per sé incompatibile con un procedimento teso ad assicurare la
difesa al non abbiente» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza
22 febbraio 2018, n. 8617).
A fronte, dunque, dell’impossibilità di ottemperare
all’onere di esibire la documentazione
consolare, deve riespandersi, a favore dell’istante, l’opportunità di avvalersi
della dichiarazione sostitutiva di certificazione.
9.- In
conclusione, l’art. 79, comma 2, t.u. spese di giustizia risulta
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente al cittadino di
uno Stato non aderente all’Unione europea di presentare, a pena di
inammissibilità, una dichiarazione sostitutiva di certificazione sui redditi
prodotti all’estero, qualora dimostri – nei termini sopra illustrati, ossia
provando di aver compiuto tutto quanto esigibile secondo correttezza e
diligenza – l’impossibilità di produrre la richiesta documentazione.
10.- Restano assorbite le questioni di legittimità
costituzionale poste in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della
disparità di trattamento tra stranieri di Paesi non appartenenti all’Unione
europea, nonché in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente
all’art. 47 CDFUE, nonché relativamente alle convenzioni internazionali, che
prevedano l’estensione degli istituti della decertificazione amministrativa.
P.Q.M.
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
79, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n.
115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui non consente al
cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea, in caso di
impossibilità a presentare la documentazione richiesta ai sensi dell’art. 79,
comma 2, di produrre, a pena di inammissibilità, una dichiarazione sostitutiva
di tale documentazione.
—
Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costuzionale 21
luglio 2021, n.29.