Le dimissioni del dipendente pubblico sono efficaci indipendentemente dall’accettazione da parte dell’Amministrazione datrice di lavoro, che ha soltanto il dovere di verificare la genuinità e la spontaneità delle stesse.
Nota a Cass. 28 maggio 2021, n. 14993
Sonia Gioia
A seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, le dimissioni del dipendente non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte dell’ente datoriale, che è tenuto esclusivamente ad accertare che la volontà di porre fine al rapporto di impiego sia stata manifestata in maniera spontanea, univoca e genuina.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (28 maggio 2021, n. 14993, conforme ad App. Milano n. 1959/2019) in relazione ad una fattispecie concernente la domanda di una lavoratrice volta ad ottenere la declaratoria dell’inefficacia delle proprie dimissioni, in ragione della non intervenuta accettazione da parte della Amministrazione datrice di lavoro (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), e il conseguente accertamento del suo diritto alla prosecuzione del rapporto di impiego.
In particolare, il Tribunale aveva accolto le doglianze della ricorrente sul presupposto che, nell’area pubblica, le dimissioni si perfezionano con l’accettazione dell’amministrazione e sono revocabili finché questa non sia stata formalmente comunicata al dipendente (ex art. 124, D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, c.d. T.U. delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), mentre la Corte distrettuale, in riforma della pronuncia del giudice di prime cure, sosteneva che, a seguito della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, la dichiarazione di voler cessare dal servizio, per essere efficace, non necessita più di alcuna accettazione da parte del datore di lavoro.
Sul punto, la Cassazione ha precisato che le dimissioni costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di impiego dal momento in cui vengono portate a conoscenza del datore di lavoro (art. 1334 c.c.) ed indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle.
La revoca delle dimissioni, pertanto, è efficace solo se giunge al datore di lavoro prima delle dimissioni stesse. Resta salva, in applicazione del principio di libertà negoziale, la facoltà delle parti di giungere ad un accordo per rendere improduttiva di effetti la dichiarazione di volontà di rinunciare al posto di lavoro, con conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto di impiego. In tal caso, l’onere di fornire la dimostrazione del raggiungimento del contrario accordo grava sul lavoratore interessato (Cass. n. 3267/2009).
Tale disciplina, a seguito dell’entrata in vigore del D.LGS. 3 febbraio 1993, n. 29, trova applicazione anche nel rapporto di pubblico impiego privatizzato, con la conseguenza che la dichiarazione di dimissioni ha l’effetto di risolvere il contratto di lavoro dal momento in cui perviene all’ente datoriale, non essendo più necessaria l’accettazione di cui all’art. 124, D.P.R. n. 3 /1957 (Cass. n. 2795/2015; Cass. n. 5413/2013; Cass. n. 57/2009).
L’Amministrazione, pertanto, non può rigettare l’istanza con cui il dipendente manifesta l’intento di recedere dal contratto di impiego ma si deve limitare a verificare che non sussistano impedimenti legali alla risoluzione del rapporto (Cons. Stato n. 6790/2009; Cons. Stato, Ad. Pl., n. 17/2000).
A tal fine, l’accertamento delle dimissioni deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le stesse comportano la rinuncia al posto di lavoro – bene protetto ai sensi degli artt. 4 e 36 Cost. -, sicché occorre verificare che, da parte del prestatore, “sia stata effettivamente manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto” (Cass. n. 30126/2018, annotata in q. sito da M N. BETTINI, Dimissioni e grave turbamento psichico).
In attuazione di tali principi, la Cassazione ha confermato la pronuncia di merito, precisando, peraltro, che la procedura di convalida delle dimissioni, introdotta dall’art. 4, co.16 ss., L. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. Riforma Fornero) a garanzia della genuinità delle stesse, non si applica “automaticamente” al pubblico impiego ma necessita di uno specifico intervento legislativo di armonizzazione dal momento che il lavoro pubblico e quello privato “non possono essere totalmente assimilati” (Cass. n. 21297/2019; Cass. n. 11868/2016, in q. sito con nota di G.I. VIGLIOTTI, Licenziamenti pubblici: non si applica la Fornero; Cass. n. 11595/2016, annotata in q. sito da G.I. VIGLIOTTI, Pubblico Impiego: non basta l’anzianità contributiva per licenziare).