Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 luglio 2021, n. 21172

Licenziamento per giusta causa, Dirigente, Mancato pagamento
dei canoni canoni di locazione pagati dalla società, Danno di immagine

 

Rilevato che

 

1. Con sentenza n. 195 depositata il 21.3.2017, la
Corte di appello di Bologna, respingendo l’appello principale del lavoratore e
accogliendo parzialmente l’appello incidentale della società, ha ritenuto
sorretto da giustificatezza il licenziamento intimato dalla società I.K.I.
s.r.l. (già O.I. s.r.l.) al dirigente G.C.P. nonché infondato il diritto al
pagamento del compenso per la carica di amministratore delegato.

2. La Corte distrettuale, per quel che interessa, ha
rilevato che le circostanze della mancata corresponsione di un compenso durante
tutto lo svolgimento dell’incarico di amministratore della società (circa 3
anni e mezzo), del comportamento concludente del C. (l’assenza di qualsiasi
richiesta durante tutto il rapporto), della decisione (riferita dal teste V.)
intercorsa tra O., S. (componenti del Consiglio di amministrazione) e lo stesso
C. di non prevedere alcuna remunerazione, facevano presumere la natura gratuita
dell’incarico; ha aggiunto che, pur dovendosi escludere la sussistenza di una
giusta causa di licenziamento, la modalità utilizzata dal C. per attuare la
politica aziendale di riduzione dei canoni di locazione pagati dalla società
(modalità consistente nel mancato pagamento dei suddetti canoni, con
conseguenti azioni giudiziarie dei proprietari degli immobili, peraltro composte
bonariamente tra le parti) era del tutto inusuale, non era stata autorizzata
dalla società e aveva determinato un danno di immagine, integrando pertanto un
motivo di giustificate del licenziamento.

3. Per la cassazione della sentenza il C. ha proposto
ricorso affidato a sette motivi, cui ha resistito con controricorso la società.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di ricorso (denominato Al) il
ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c.,
2364, 2389 c.c., nonché 2721 e 2723 c.c. (in relazione all’art. 360, primo
comma, nn. 3 e 4, c.p.c.) , avendo, la Corte di appello mancato di considerare
che l’amministratore di società di capitali è titolare di un diritto soggettivo
perfetto a ricevere una retribuzione e la circostanza della designazione della
carica di amministrazione di persone estranee alla compagine sociale appare
decisiva; l’istante non aveva mai rinunciato al compenso e la Corte di merito
avrebbe dovuto verificare se effettivamente era intervenuta una rinuncia, non
potendo presumersi la natura gratuita dell’incarico; non aver preteso il
relativo compenso in costanza del rapporto (durato 3 anni e mezzo), non
rappresentava elemento decisivo né la testimonianza del teste V. poteva
presentare prova del negozio abdicativo/rinuncia, trattandosi di testimonianza
generica e non circostanziata ,oltre che affetta da contraddizioni interne.

2. Con il secondo motivo di ricorso (denominato A2)
il ricorrente lamenta l’omessa valutazione di un fatto decisivo e il
travisamento della prova (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.)
, avendo, la Corte di appello, travisate fatti decisivi risultanti dalle prove
acquisite al processo e, in particolare, il testo della delibera dell’assemblea
della società del 2/1/2007 ove si decise di “rinviare alla prossima
adunanza la delibera circa il compenso spettante al solo amministratore
delegato” nonché la deposizione del teste V. in quanto contraddetto dalla
deposizione del teste S.

3. Con il terzo motivo di ricorso (denominato A3) il
ricorrente lamenta la violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132 c.p.c. (in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.), avendo, la Corte di
appello, trascurato che la deposizione del teste V. confliggeva con quella del
teste S.

4. Con il quarto motivo di ricorso (denominato Bl)
il ricorrente lamenta la violazione falsa applicazione degli artt. 437 c.p.c, 1
e 3 legge n. 604 del 1966, 31, commi 15,16,17 c.c.n.I. Dirigenti commercio,
1175 e 1375 c.c. (in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c.)
poiché, come esposto nelle note all’appello incidentale e come sottolineato in
udienza il 10/11/2016, la società ha svolto, in sede d’appello, nuove deduzioni
fondate su una diversa causa petendi, relative alla giustificatezza del
licenziamento, non attenendo tali nuove deduzioni alle ragioni indicate nella
lettera di contestazione disciplinare del 21/5/2010 ove i fatti relativi alla
riduzione degli affitti (diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di
appello) non erano stati mossi al C. nella sua qualità di dirigente ma nella
sua qualità di amministratore delegato. Aver dunque ritenuto la giustificatezza
del recesso dal rapporto di lavoro subordinato di dirigente per tali ragioni è
confliggente con il principio di diritto dell’immodificabilità delle ragioni
comunicate come motivo di licenziamento.

5. Con il quinto motivo di ricorso (denominato B2)
il ricorrente lamenta la violazione falsa applicazione degli artt. 1 e 3 legge
n. 604 del 1966, 31, commi 15,16,17 c.c.n.I. Dirigenti commercio, 1175 e 1375
c.c. nonché del principio di proporzionalità della sanzione (in relazione
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo, la Corte territoriale,
trascurato che la condotta tenuta dal C. corrispondeva all’interesse
dell’azienda alla riduzione dei canoni di locazione.

6.  Con il
sesto motivo di ricorso (denominato B3) il ricorrente lamenta la violazione
degli artt. 132 e 116 c.p.c. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3,
c.p.c.) essendo, la Corte territoriale, incorsa in contraddizioni tali da far
ritenere del tutto apparente la motivazione: invero, da un lato, la Corte di
merito ha ritenuto che la politica aziendale di riduzione dei costi dei canoni
di locazione fosse autorizzata e che le ingiunzioni di pagamento erano invitate
in soluzioni bonarie (fondando su tale assunto la statuizione di assenza di
giusta causa del licenziamento), dall’altro, ha ritenuto che non era stata
autorizzata la strategia utilizzata dal C. per pervenire a tale risultato e
consistente nel non pagare i proprietari locatori.

7. Con il settimo motivo di ricorso (denominato B4)
il ricorrente lamenta il travisamento della prova l’omessa valutazione di fatti
decisivi (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.) rappresentati
dalla crisi di liquidità risalenti all’anno 2008, dal conseguimento di risparmi
di spesa per la società (evitando licenziamenti di personale), dalla conoscenza
della sospensione dei pagamenti da parte della società e dal comportamento tenuto
dalle parti nel corso del giudizio; la Corte territoriale ha trascurato la
valutazione di questi profili, confermati dai testi F.P. e S.

Evidente in virtù dei principi in materia di
licenziamento dei dirigenti costituiva valida ragione, a fronte di una situazione
di crisi, il conseguire risparmi per evitare quei licenziamenti che non
facevano parte dei valori del gruppo, vieppiù in un contesto probatorio in cui
anche il giudice di secondo grado ritenuto che risparmi di spesa erano stati
autorizzati. Inoltre, l’elemento – considerato dal giudice di secondo grado –
relativo alla mancata autorizzazione da parte della società della strategia di
non provvedere al pagamento dei canoni di affitto è contraddetto dalle
dichiarazioni testimoniali rilasciate dai testimoni S. e P.; la deposizione del
teste S. (contrari al contenuto delle deposizioni sopra indicate) era inidonea
a superarne il contenuto considerate le qualità personali del teste ed elementi
di natura oggettiva. Inoltre, risultava dalla documentazione depositata che
anche successivamente al licenziamento del C., la società ha continuato a non
pagare gli affitti.

8. I primi tre motivi di ricorso, che possono
trattarsi congiuntamente in quanto attinenti alla rinuncia del C. al compenso
quale amministratore delegato, sono fondati.

In ordine al ruolo dell’amministratore unico o del
consigliere di amministrazione di una società per azioni, le Sezioni Unite di
questa Corte hanno chiarito che sussiste tra le parti un rapporto di tipo
societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona
fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso
in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c. (Cass. Sez. U. 20 gennaio
2017, n. 1545). In linea con tale insegnamento si è poi di recente ribadito il
principio, già presente nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. infatti,
Cass. 1 aprile 2009, n. 7961 e Cass. 26 febbraio 2002, n.2861, entrambe rese in
tema di società cooperative a responsabilità limitata), per cui nelle società
di capitali deve considerarsi legittima la clausola statutaria che preveda la
gratuità dell’incarico (Cass. 9 gennaio 2019, n. 285).

Il venir meno del diritto dell’amministratore al
compenso può però discendere anche dalla rinuncia dell’interessato (Cass. 3
ottobre 2018, n. 24139): ciò in quanto il diritto in questione è senz’altro
disponibile (Cass. 21 giugno 2017, n. 15382; Cass. 26 gennaio 1976, n. 243).
Tale rinuncia non deve essere necessariamente espressa: essa deve però potersi
desumere da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo
univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa.

Valgono, al riguardo, i generali principi espressi
dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento al silenzio: affinché il
silenzio possa assumere valore negoziale, occorre o che il comune modo di agire
o la buona fede, nei rapporti instauratisi tra le parti, impongano l’onere o il
dovere di parlare, o che, secondo un dato momento storico e sociale, avuto
riguardo alla qualità delle parti e alle loro relazioni di affari, il tacere di
una possa intendersi come adesione alla volontà dell’altra (Cass. 14 maggio
2014, n. 10533; Cass. 16 marzo 2007, n. 6162; Cass. 20 febbraio 2004, n. 3403;
Cass. 14 giugno 1997, n. 5363, secondo cui il creditore che accetta un
pagamento parziale, che il debitore esegue espressamente a titolo di saldo del
maggior importo giudizialmente preteso, senza replicare alcunché, non perciò
rinuncia al credito o rimette il debito).

E così, per la rinuncia tacita è necessario un
comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua
effettiva e definitiva volontà dismissiva del diritto; infatti, al di fuori dei
casi in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a
far salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l’inerzia non possono essere
interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto
di credito, la quale non può mai essere oggetto di presunzioni (Cass. 5
febbraio 2018, n. 2739; Cass. 25 agosto 1999, n. 8891).

Si è pertanto precisato che la rinuncia
all’emolumento, da parte dell’amministratore, possa desumersi soltanto da un
comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua
volontà abdicativa, non essendo sufficiente la mera inerzia o il silenzio
(Cass. 3 ottobre 2018, n. 24139).

Nel caso in esame, la Corte di appello ha ricavato
la rinuncia al compenso del C. dall’inerzia delle parti (mancata richiesta da
parte dell’amministratore e mancata corresponsione da parte della società) protratta
per un determinato lasso di tempo (circa 3 anni e mezzo) ed ha aggiunto che, in
occasione di una riunione del consiglio di amministrazione, fu deciso (dallo
stesso C., da O. e S., ossia altri consiglieri del consiglio di
amministrazione) di “non prevedere remunerazione ma questo dato non è più
stato indicato nei successivi verbali” (come riferito dal teste V.).

In tal modo, la Corte di merito ha però solo
spiegato le ragioni della condotta omissiva delle parti, rilevando che nel
verbale di una specifica seduta del consiglio di amministrazione era stato
deciso di nulla prevedere in ordine al compenso dei consiglieri; la Corte,
peraltro, non ha dato conto delle ragioni per le quali quel comportamento
omissivo potesse assurgere a manifestazione di una volontà negoziale.

Invero, il principio secondo il quale il silenzio,
in alcuni casi, può essere rilevante giuridicamente poggia sul rilievo per cui,
in presenza di determinati fatti o situazioni, la condotta inattiva della parte
viene ad assumere un preciso significato. In tali ipotesi, il valore negoziale
attribuito al comportamento omissivo discende dai principi di
autoresponsabilità e di affidamento: né l’autore del contegno omissivo, né
altri soggetti interessati possono difatti ignorare, nelle evenienze date, il
significato concludente di quell’inerzia.

Diversa è la situazione che si determina quando si è
al cospetto di una mera inattività, a un silenzio puro e semplice: una tale
condotta è giuridicamente non significativa proprio in quanto ad essa non può
attribuirsi un significato negoziale (sempre che, beninteso, la legge non
disponga altrimenti: ad es. artt. 1399, comma 4, 1597, comma 1, 1712, comma 2,
2301, comma 2, c.c); il detto contegno di inerzia non giustifica, quindi,
l’affidamento quanto alla venuta ad esistenza del negozio e, per riflesso, non
onera chi lo tiene di valutare l’ipotetica – ma di fatto insussistente –
impegnatività del comportamento tenuto.

Nella fattispecie oggetto di causa, la condotta
meramente omissiva del C. non poteva assumere il significato di una
manifestazione di volontà in forza delle sole motivazioni (mancata previsione
nel verbale) che l’avevano occasionata.

Il principio di cui deve farsi applicazione, nella
fattispecie in esame, è pertanto il seguente: la rinuncia al compenso da parte
dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del
titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo
diritto; a tal fine è pertanto necessario che l’atto abdicativo si desuma non dalla
semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni,
ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale
al contegno tenuto.

9. Il quarto motivo di ricorso è in parte
inammissibile e in parte infondato.

Preliminarmente, la censura è prospettata con
modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per
cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno,
trascrivere nel ricorso il contenuto (o quantomeno un estratto) della memoria
di costituzione della società onde verificare la mancanza della domanda
(subordinata) di valutazione della sussistenza della giustificatezza del
licenziamento, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne
l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così
ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del
suddetto principio dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n.
4, cod.pro.civ. (Cass. Sez. Un. n. 5698 del 2012; Cass. Sez. Un. n. 22726 del
2011; da ultimo, Cass. n. 10992 del 2020).

Del pari, la censura relativa al divieto di
immodificabilità dei motivi del recesso è inammissibile trattandosi di
questione che non risulta affatto affrontata nella sentenza impugnata né il
ricorrente indica in quale atto difensivo e in quale momento processuale la
questione sarebbe stata introdotta, le ragioni del suo rigetto ed i motivi con
i quali è stata riproposta al giudice del gravame, con ciò violando gli oneri
di autosufficienza del ricorso per cassazione (Cass., 18/10/2013, n. 23675;
Cass. n. 23073/2015).

La censura è, per la parte residua, infondata,
avendo questa Corte ripetutamente affermato che la fattispecie del
licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo sono in
rapporto di specialità, e unico è il potere di recesso da esse determinato,
regolato nei suoi effetti dalla legge e non dalla volontà del recedente, con la
conseguenza che, sussistendo i presupposti del licenziamento per giustificato
motivo ma non anche quelli del licenziamento per giusta causa, l’intimato
licenziamento in tronco non è invalido, ma produce i suoi effetti alla scadenza
del periodo di preavviso, e la possibilità della sua relativa riqualificazione
quale licenziamento per giustificato motivo va verificata dal giudice anche
d’ufficio – pena il difetto di motivazione – nel momento in cui esclude la
configurabilità di una giusta causa (Cass. del 26/05/2001 n. 7185; Cass.
09/10/1996 n. 8836).

Medesimo principio vale per i dirigenti, posto che
il giustificato motivo negoziale e il giustificato motivo legale sono
espressione della medesima regola di giustificazione necessaria dei
licenziamenti salvo rilevare che la fonte negoziale amplia le ipotesi di
recesso giustificato, ritenendosi sufficiente – ad escludere l’indennità
supplementare per licenziamento ingiustificato – la veridicità e
ragionevolezza, non arbitrarietà e pretestuosità, delle ragione addotte (cfr.
tra le tante, Cass. 18/7/2001 n. 9715, Cass. 8/11/2001 n. 13839, Cass. 1/6/2005
n. 11691, Cass. 19/9/2011 n. 19074, Cass. 10/4/2012 n. 5671 che aggiungono come
per negare il diritto al preavviso occorra, invece, una ben più grave giusta
causa ex art. 2119 c.c.; con specifico riguardo al licenziamento per giusta
causa di un dirigente convertibile in licenziamento per giustificato motivo
negoziale, cfr. Cass. 3/1/2005 n. 27).

10. Il quinto, sesto e settimo motivo di ricorso non
sono fondati.

Come già rammentato, la nozione negoziale di
giustificatezza del licenziamento dei dirigenti (al fine di riconnettere alla
mancanza di essa il diritto del dipendente licenziato ad un’indennità) si
discosta, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, da quella di
giustificato motivo di cui all’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

Sul piano soggettivo, tale asimmetria trova la sua
ragion d’essere nel rapporto fiduciario che lega in maniera più o meno
penetrante al datore di lavoro il dirigente in ragione delle mansioni a lui
affidate per la realizzazione degli obiettivi aziendali, per cui anche la
semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex
ante o un’importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle
direttive generali del datore di lavoro o un comportamento extralavorativo
incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita dal
dirigente possono, a seconda delle circostanze, può costituire ragione di
rottura di tale rapporto fiduciario e quindi giustificare il licenziamento sul
piano delle, disciplina contrattuale dello stesso ed, a tal fine, è sufficiente
una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso, in quanto
intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario
con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza di poteri attribuiti
al dirigente, (cfr. Cass. 17/3/2014 n. 6110, Cass. 30/12/2019 n. 34736).

La giusta causa, che esonera il datore di lavoro
dall’obbligo di concedere il preavviso o di pagare l’indennità sostitutiva, non
coincide con la giustificatezza, che esonera il datore di lavoro soltanto
dall’obbligo di pagare l’indennità supplementare prevista dalla contrattazione
collettiva, in quanto la giusta causa consiste in un fatto che, valutato in
concreto, determina una tale lesione del rapporto fiduciario da non consentire
neppure la prosecuzione temporanea del rapporto (cfr. Cass. 10/4/2012 n. 5671).

Le affermazioni della Corte territoriale sono in
linea con i principi sanciti da questa Corte essendo stato accertato che la
strategia scelta dal dirigente per ottemperare alla direttiva aziendale di
contrarre i costi aziendali (derivanti dal pagamento dei canoni di locazione)
era “del tutto inusuale e che ha determinato, comunque, un danno di
immagine, in relazione, strido iure, ad una pluralità di inadempimenti e in
relazione alla quale non risulta, in realtà, una autorizzazione”.

11. In conclusione, i primi tre motivi di ricorso
vanno accolti, respinti tutti gli altri motivi. La determinazione delle spese
di lite del presente giudizio di legittimità sono demandate al giudice del
rinvio.

 

P.Q.M.

 

Accoglie i primi tre motivi di ricorso, rigetta
tutti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di
Bologna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese
del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 luglio 2021, n. 21172
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