Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 luglio 2021, n. 21174
Rapporto di lavoro, Natura fittizia dell’interposizione di
manodopera, Accertamento dell’illegittimità del contratto di appalto
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n.
1808 del 2018, pronunciando sull‘impugnazione proposta da M.E. nei confronti
della società S. spa, e della società A.C. spa, avverso la sentenza resa tra le
parti dal Tribunale di Roma, ha rigettato l’appello nei confronti della prima società,
e ha dichiarato improcedibile l’appello nei confronti della seconda società.
Il giudice di secondo grado ha accertato che le
condizioni di fatto del rapporto di lavoro intercorso tra M.E. e la società
A.C. spa portavano ad escludere la natura fittizia dell’interposizione di
manodopera.
Ed infatti, in particolare, non vi era stata
commistione della lavoratrice con i dipendenti della società S. spa,
committente dell’appalto, che operavano in locali differenti; non vi era stata
interferenza nel lavoro da parte della società S. spa; l’organizzazione del
servizio faceva capo alla società COS, poi A.C. spa, quanto al numero di
lavoratori necessari, turni, orari, controlli; la società COS, poi A.C. spa,
aveva assunto tutto il rischio di impresa.
2. La lavoratrice aveva agito in giudizio per
l’accertamento della illegittimità del contratto di appalto intercorso tra le
società S. spa e A.C. spa, deducendo, in particolare, che dalla fine di maggio
2011 era stata destinata ad operare presso l’appalto affidato dalla società S.
spa alla società A.C., avente ad oggetto l’esecuzione di alcuni servizi di help
disk e contact center, diretti a garantire, agli utenti del sistema informativo
della fiscalità, assistenza da remoto per la risoluzione delle problematiche
tecniche ed applicative.
La ricorrente deduceva l’illiceità dell’appalto e
chiedeva l’accertamento della costituzione del rapporto di lavoro alle dirette
dipendenze della società S. spa.
3. Avverso la sentenza di appello la lavoratrice ha
proposto ricorso per cassazione, affidato a un motivo di impugnazione, cui ha
resistito la società S. spa con controricorso, assistito da memoria.
4. Il Procuratore Generale ha depositato anche
conclusioni scritte, formulate, così come in sede di discussione, nel senso
dell’inammissibilità o del rigetto del ricorso.
5. Il ricorso è stato trattato con discussione
orale, ai sensi dell’art. 23, comma 8- bis, del d.l. n. 137 del 2020,
convertito con modificazioni dalla legge n. 176 del 2020.
Ragioni della decisione
1. Con il motivo di ricorso è dedotta la nullità
della sentenza per violazione dell’art. 118, disp. att., cod. proc. civ.,
nonché dell’art. 112, cod. proc. civ., e dell’art. 115, cod. proc. civ.;
violazione e falsa applicazione degli artt. da 20 a 29 del d.lgs. n. 276 del
2003, nonché dell’art. 1655 cod. civ.
2. Le censure sono state specificate nei seguenti
punti.
Sussisterebbe la violazione dell’art. 118 per
inconferenza dei precedenti: assume la ricorrente che la Corte d’Appello ha
richiamato alcune sentenze pronunciate con riguardo alla disciplina dettata
dalla legge n. 1369 del 1960 che mal si attagliavano alla fattispecie in esame.
Nel giudizio sarebbe stato utilizzato materiale
probatorio non prodotto dalle parti, in quanto le disposizioni contrattuali
richiamate per sostenere la sussistenza del rischio economico dell’appaltatore
non avevano il contenuto riportato dalla Corte d’Appello, con conseguente
nullità della sentenza, in quanto la fonte del convincimento era estranea al
processo, in violazione dell’art. 115, secondo comma, cod. proc. civ.
Vi sarebbe la mancata indicazione delle disposizioni
di legge da applicare e l’insufficienza della regola di diritto, in quanto la
Corte d’Appello si era limitata a indicare principi di diritto desunti da
sentenze pronunciate rispetto alla disciplina anteriore a quella relativa alla
fattispecie in esame, in ordine alla quale andavano accertati fatti diversi da
quelli della vecchia disciplina.
Assume la ricorrente di aver prospettato l’esistenza
di una somministrazione illecita, mentre la società resistente aveva dedotto la
sussistenza di contratti di appalto leciti. Pertanto, secondo l’art. 2697 cod.
civ., essa ricorrente doveva solo provare di aver lavorato su un servizio
diretto dall’intimata e che questa non fosse un soggetto autorizzato alla
somministrazione, mentre l’intimata doveva provare l’esistenza di contratti di
appalto leciti in coerenza con gli insegnamenti della giurisprudenza di
legittimità sulla ripartizione dell’onere della prova. La corretta
interpretazione della disciplina che veniva in esame aveva costituito oggetto
di specifica trattazione nell’atto di appello.
Con riguardo alle risultanze istruttorie alle quali
si faceva riferimento nella motivazione, non vi era corrispondenza tra sintesi
e dichiarazioni dei testimoni, delle quali sono riportati stralci nel motivo di
ricorso.
Dall’esame del contratto, nonché dei documenti
correlati, emergeva la fondatezza della domanda.
3. Non è fondato il profilo di censura relativo al
criterio del riparto dell’onere della prova, atteso che la Corte d’Appello ne
ha fatto corretta applicazione, tenuto conto del principio secondo cui per
individuare la linea di demarcazione tra la fattispecie vietata dell’esistenza
di una interposizione illecita di manodopera e quella lecita dell’appalto di
opere o servizi, è necessario che il giudice accerti, in particolare,
l’assunzione del rischio di impresa in capo all’appaltatore.
4. Le restanti censure, dirette a censurare la
valutazione e decisione della Corte territoriale circa gli elementi di fatto
che, a parere della stessa, l’avevano portata ad escludere la sussistenza di un
diretto rapporto di subordinazione con la S. spa, sono inammissibili.
Questa Corte nell’esaminare fattispecie analoghe a
quella in esame (Cass., n. 22286 del 2019, n. 1844 del 2019, n. 22675 del 2018,
n. 23599 del 2018, n. 27105 del 2018) ha rammentato che la valutazione dei
documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio
sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri
come la scelta tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più
idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati
al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione
una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che
quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a
discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive,
dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze
che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con
la decisione adottata (cfr. Cass. n. 19011 del 2017; Cass. n. 16056 del 2016).
Le censure così come articolate non sono neppure
ammissibili sotto il profilo dell’esame della motivazione e della sua
denunciata carenza e contraddittorietà, in quanto le Sezioni Unite di questa
Corte, con la sentenza n. 8053 del 2014 hanno chiarito che “La riformulazione
dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del
d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle
preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità
sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il
vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto
con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta
di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”,
nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella
“motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque
rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
L’ assenza di precise indicazioni inerenti una delle
ipotesi sopra enunciate rende perciò inammissibili le censure anche con
riguardo all’esito della valutazione delle circostanze di causa. Si tratta
infatti di profili strettamente attinenti al merito della controversia che non
possono trovare ingresso in questa sede di legittimità.
5. Il ricorso deve essere rigettato.
6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.
7. Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis,
se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di
giudizio che liquida in euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre euro
200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi del dPR n. 115 del 2002, art. 13, comma
1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se
dovuto.